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CARATTERI DEL PAESAGGIO

Si sta ragionando sulla perimetrazione del Parco Nazionale del Matese, ma una cosa è certa ed è che esso dovrà includere la fascia propriamente montana del massiccio. Si può discutere quanto si vuole (non troppo a lungo, però!) sull’estensione dell’area protetta a valle rimanendo fermo, comunque, che è obbligatorio ricomprendere nei suoi confini la montagna per intero. Vediamo adesso, al fine di giustificare questa affermazione, le qualità ambientali di tale ambito di maggiore interesse. Una peculiarità di questo rilievo montuoso è il suo carsismo. Vi sono numerosi inghiottitoi, tra i quali uno ammirato dai turisti sta proprio nel pianoro di Campitello, e grotte, dal Pozzo della Neve alla Grotta delle Ciaole (cornacchie) a quella del Fumo. La natura carsica di questo monte non è solo una questione di emergenze geomorfologiche, le cavità verticali ed orizzontali di cui si è detto, peraltro a volte spettacolari come nel caso del varco arcuato di Campo dell’Arco, ma condiziona il paesaggio matesino alle alte quote. Le doline, manifestazioni della carsicità, sono delle conche, più o meno grandi, dove insieme agli altopiani, si cita quello di Campitelli di Sepino, si pratica il pascolo e l’allevamento dei bovini è un po’ il distintivo di questo comprensorio. Sono vacche da latte il quale rimanda ai rinomati latticini di Boiano e, specialmente, al caciocavallo, chiamato così perché stagiona a coppie. La loro forma concava le distingue dalle radure nei boschi che si trovano pure altrove, con l quali ad ogni modo, hanno in comune l’essere circondate, in diversi lati, da alberi; questi si distinguono dalla massa boschiva retrostante e si presentano isolati, nonostante siano in contatto l’uno con l’altro, quasi a voler esibire la loro maestosità trattandosi di esemplari di faggio di consistenti dimensioni. È raro che vengano tagliati nelle periodiche ceduazioni per cui costituiscono degli autentici patriarchi vegetali, come si può riscontrare ai margini di Campitello di Roccamandolfi. Tutto quanto scritto finora è valido se lo si circoscrive al limite altitudinale delle specie arboree che nel Matese non supera i 1.700 metri sul livello del mare poiché le doline che ne stanno al di sopra, prendi il Campo delle Ortiche, sono prive di vegetazione al contorno. Ogni, pressoché, piana della montagna matesina ha un proprio nome (Campitelletto, Pianellone, Cul di Bove, ecc.) a dimostrazione dell’intensa frequentazione antropica nel passato la quale si giustifica la necessità dei pastori di dover identificare i diversi luoghi per orientarsi; tra i toponimi vi è anche Campo dell’Orso, animale ormai scomparso da queste parti del quale però si dovrebbe favorire il ritorno, favorire cioè l’estensione del suo areale, ristretto com’è oggi al contiguo Parco Nazionale d’Abruzzo, per favorire, ancora, la sua sopravvivenza. La geologia condiziona l’immagine dell’insieme montuoso non solo in sommità, bensì pure nei fianchi i quali sono connotati a tratti da profonde incisioni fluviali, da quella del torrente Valle (Guardiaregia)a quella del Quirino (Campochiaro) a quella del Rava delle Cappelle (Monteroduni) a quella del Callora. Tale specie di canyon è il frutto di un’intensa attività tettonica la quale ha contribuito alla forte sismicità del territorio che è Zona Sismica 1; una curiosità a questo proposito, quello dei sommovimenti tellurici di cui non si conosce ancora con sicurezza la causa, è che secondo le cronache del tempo giorni prima del catastrofico terremoto del 26 luglio 1805 si erano uditi tonfi provenire dal sottosuolo del Matese, che ne fu l’epicentro, che già allora si sapeva cavo. All’interno di questo monte vi sono enormi riserve idriche le scaturigini delle quali danno origine al Biferno; esso è il principale fiume del Molise che con il suo percorso rettilineo tiene uniti l’Appennino e la costa, idealmente il Matese con l’Adriatico, legame che si andrà rafforzando con l’Acquedotto Molisano Centrale che dalla sorgente sta per portare l’acqua nei comuni litoranei. Acqua, quella matesina, che compare, nell’asta fluviale, e scompare, nascosta nelle viscere della terra, cosa che accade anche nel Lago del Matese, uno specchio lacustre  che non possiede né immissari né emissari, un’altra manifestazione del carsismo, bacino idrico soggetto ad oscillazioni del suo livello d’invaso. Un ulteriore, non secondario (pur interessando un punto semplicemente del rilievo, la cima di m. Miletto la quale per la sua altezza è ben visibile da lontano, dalla vallata sottostante e oltre) elemento capace di condizionare l’aspetto paesaggistico è il circo glaciale. Il ghiacciaio dell’era, appunto, glaciale ha impresso un’impronta non cancellabile sul territorio e poi si è disciolto, senza prima essere scivolato più a valle e la sua corsa essersi arrestata nel piano di Campitello. Ciò che rimane visibile è la zona di accumulo della neve ghiacciata che è l’“anfiteatro” mentre non rimangono tracce sul terreno della sua lingua. Costituito da massa nevosa esso è destinato a scomparire all’aumentare della temperatura del pianeta lasciando unicamente il suo, per così dire, calco; non vi è altro fatto geografico che abbia simile volatilità. La posizione che occupa il circo glaciale ci indica quale doveva essere in una fase antica dell’evoluzione terrestre il limite delle nevi perenni. Esso è, nello stesso tempo, un monito sui cambiamenti climatici, tenendo presente, beninteso, che i ghiacciai sono le strutture della Terra che soffrono maggiormente il calore. La seggiovia, denominata Anfiteatro, che trasporta durante l’estate i visitatori in alto dalla località sciistica, qualora alla stazione di smonto fossero collocati pannelli illustrativi di questo singolare episodio geomorfologico, potrebbe rivelarsi davvero utile per favorire l’avvicinamento delle persone alla comprensione di tale fenomeno.

2 - Il Matese tra foreste primigenie e praterie primarie.

IL MATESE TRA FORESTE PRIMIGENIE E PRATERIE PRIMARIE

I boschi sono una delle componenti essenziali del paesaggio matesino e sui versanti di questa montagna addirittura la componente unica. Le formazioni boschive dominano, ovviamente, anche gli altri gruppi montuosi molisani, dalle Mainarde alla Montagnola. È qui, cioè nelle zone montane dove, insieme a quelle di alta collina, quindi nel Molise Altissimo, è concentrata quasi tutta la superficie boscata della regione. Partendo dalla considerazione che il bosco di per sé va tutelato e lo è sempre stato, almeno dal 1923 quando venne varata la legge forestale che mira a proteggerlo per proteggerci, non è un gioco di parole, dal dissesto idrogeologico, è facile riconoscere che il neonato Parco del Matese non fa altro che rafforzare il regime di conservazione che già vige per il nostro ambito. Rafforzare si è detto perché si aggiunge agli interessi legati al bosco da salvaguardare che informano la normativa di settore, quella dell’uso industriale del legno e della difesa del suolo, l’interesse naturalistico. Sia in termini di riconoscimento delle valenze di tale tipo sia di preservazione delle stesse la nascita del Parco neanche per questo aspetto, a riguardo del comprensorio matesino, costituisce un cambiamento rispetto a quanto già è presente, o se si vuole un aggravamento del vincolo che insiste sul patrimonio boschivo perché il Matese rientra tra i Siti di Importanza Comunitaria. È da aggiungere che così come le “aree protette”, in prevalenza, sono connotate dalla grande estensione della copertura forestale presente al loro interno, alla medesima maniera, perlomeno qui da noi, la maggioranza dei SIC è dominata dalle distese boscose; ne deriva che se è il bosco l’elemento più significativo della natura nel Molise, tanto da meritare gli ambiti in cui è presente l’inclusione nei Siti Natura 2000, e se esso è caratteristico delle zone in quota il Matese era destinato, prima o poi, a diventare parco, sicuramente regionale, e, ancora meglio, nazionale. Precisazione ulteriore, conseguenza di quanto affermato circa il valore naturalistico dei nostri appezzamenti boscati, è che i SIC più vasti sono montani dato che i boschi, non solo le foreste, hanno la peculiarità intrinseca di essere estesi, cosa che succede ad altitudini elevate. In definitiva, c’era ogni requisito perché il Matese diventasse un parco. Le formazioni forestali prevalenti nel territorio matesino sono quelle costituite da specie arboree caducifogle le quali comprendono il castagno, uno dei pochi territori della regione dove è presente tale albero, che sta in collina, tra Roccamandolfi e Guardiaregia, su terreni a composizione prevalentemente acida, la quercia diffusa fino alla media montagna e il faggio. Le faggete sono i boschi che si spingono più in alto di tutti, fino a1.800 metri; in verità vi è uno iato nella continuità di queste foreste dovuto al fatto che il rilievo montuoso presenta a circa 1.400 metri di quota, per intenderci all’altezza di Campitello, una sorta di gradino morfologico per cui si interrompe lo sviluppo iniziato nella piana di Boiano pressoché in verticale del versante che riprende dopo la fascia degli altopiani i quali hanno copertura erbacea. L’ultimo pezzo boscato spicca con grande evidenza in quanto delimitato giù dalle praterie e su per il contrasto con la fascia sommitale che è brulla, con sassi affioranti. Tanto a queste curve di livello, in particolare a Capodacqua quanto sulle pendici sottostanti è stata effettuata una riforestazione con specie non autoctone, di tipo aghiforme, le quali sono sempreverdi per cui emergono alla vista specialmente in autunno in contrapposizione alle altre alberature che perdono, invece, le foglie. Tra i faggi ve ne sono alcuni davvero imponenti che stanno a volte isolati oppure ai margini delle distese boschive con la loro lunga chioma e altre volte svettanti nell’insieme alberato, assomiglianti a pilastri di cattedrali gotiche, ad esempio i Tre Frati nell’Oasi WWF di Guardiaregia-Campochiaro. Il bosco, oltre ad avere un ruolo fondamentale nell’ecosistema possiede anche una forte pregnanza semantica essendo il rifugio dei briganti nel periodo post-unitario i quali, appunto, si “davano alla macchia”. Del brigantaggio il ricordo maggiore è la casamatta che sorge al bivio di Sella del Perrone; si tratta di una casupola da cui controllare i movimenti dei banditi, essendo posizionata in un crocevia, una specie di bunker (il Blockhaus) se non fosse che è edificata sopra il piano di campagna. È un sistema ecologico davvero singolare quello matesino per il bosco che non tende ad avanzare a discapito degli spazi aperti pure se lasciati incolti, parola che in montagna equivale a non utilizzati a pascolo, a differenza, dunque, di quanto accade nel resto del territorio invariabilmente con il reinselvatichimento delle terre. Il perimetro del bosco è fissato da enormi patriarchi vegetali che si possono definire in prima fila perché esposti ai venti e alle tempeste di neve custodendo così l’alberatura  retrostante che non subisce i danni legati alle perturbazioni con elevata ventosità. Questi esemplari monumentali piantati, è il caso di dirlo, al limite della massa boscosa per un verso difendono le piante in seconda fila e per un altro sembra vogliano impedire che esse fuoriescono dal recinto del bosco per occupare il terreno “vuoto” antistante. Tale ecosistema è connesso al carsismo, il fenomeno geologico che fa sì che le pianure abbiano uno strato pedologico estremamente sottile, inidoneo per la crescita di vegetazione arborea. Le piane sono delle doline oppure, a seconda delle dimensioni delle uvale, in cui può ristagnare a lungo l’acqua di  scioglimento delle nevi, almeno fin quando non viene assorbita dal sottosuolo calcareo tramite gli inghiottitoi; è, quindi, un ambiente ostile per l’attecchimento delle piante. infine, ancora rimanendo nel confronto con le superfici erbose, né le foreste sono “primigenie” né le praterie sono “primarie” poiché il Matese non è una montagna selvaggia, bensì plasmata dall’uomo. 

 

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SUA ALTEZZA, IN SENSO PROPRIO, IL MATESE

  Il Matese visto dal basso non li dà a vedere, nascondendoli, forse per custodirli, all’interno della montagna, in verità, fin quando negli anni ’60 del secolo scorso non nacque la stazione sciistica di Campitello la cui frequentazione ci ha portati a scoprirli. Stiamo parlando, lo si sarà capito, dei pianori, il più bello dei quali è indubbiamente quello ai cui margini sorge il centro di sport invernali. Dalla vallata dell’alto Biferno il paesaggio matesino appare tutto verticale ed è impossibile da qui rendersi conto che questo rilievo montuoso ha anche una dimensione orizzontale, altrettanto estesa di quella che si sviluppa in senso assai inclinato. La fascia altitudinale compresa tra i 1200 e i 1500 metri di quota è quella in cui si trovano le superfici pianeggianti (o quasi come le Pianelle che è, tra l’altro, quella posta al limite inferiore di tale fascia). Abbiamo spazi piani ristretti e sono le doline, una è alle spalle del complesso residenziale Kandhar che sta, si intende, a Campitello. Piccola pure è Selva Piana all’ingresso della località turistica montana. L’altopiano vero e proprio è formato dalle conche di Campitello, di Capodacqua e di Campo dell’Orso, le prime due ai piedi di monte Miletto, l’altro della Gallinola. Si tratta di piane tutte sui 1400 metri s.l.m. in qualche modo continue, separate da modeste alture le quali non impediscono di sentirle come fossero in sequenza. Vi sono poi, intorno ai circa 1300 metri d’altezza, pianure isolate, separate dal resto, prendi i Prati di Civita. I pianori adiacenti tra loro sono messi a formare una catena che segue l’andamento prevalente del massiccio montuoso il quale viene rispettato, lo si evidenzia per inciso, anche dalla sottostante piana di Boiano che è parallela anch’essa all’asse principale del monte (su per giù nord-sud e, d’altronde non potrebbe essere altrimenti perché porzione dell’Appennino che, appunto, va da settentrione a meridione). I pianori sono depressioni carsiche, qualcosa di simile a sprofondamenti del suolo, e ciò fa sì, presentandosi concavi, che in primavera la neve depositata diventa acqua la quale vi ristagna fin quando non viene assorbita dagli inghiottitoi. Il caso limite, sull’altro versante, è quello del Lago del Matese. Il carsismo il quale connota questa montagna carbonatica impedisce che vi sia una idrografia superficiale, salvo in pochi luoghi tra i quali Capodacqua, una cosiddetta falda sospesa: il rivo che scaturisce da questa sorgente il quale allagava il pianoro di Campitello in seguito è stato canalizzato prosciugando così tale piana che ora si impaluda unicamente a causa degli agenti atmosferici, con l’acqua che non trova, trattandosi di un bacino chiuso,               uno sbocco verso valle, aperto un pochino in direzione del vallone S. Nicola. L’unica vera via di uscita sono gli inghiottitoi. Questo che si è delineato è il contesto ambientale nel quale si svolge la pastorizia, una delle principali attività economiche in passato del Matese. Ciascuno dei Comuni posti nel fondovalle, con l’eccezione di Cantalupo che non confina con il nostro massiccio in quanto c’è in mezzo Roccamandolfi, possiedono boschi e pascoli essendo il loro perimetro stretto e lungo tanto da raggiungere la sommità della montagna. È un disegno questo degli ambiti comunali funzionale a sfruttare le risorse delle aree montane, ad esclusione di quei tratti terminali del rilievo che hanno caratteri decisamente alpestri cioè quelli appena sotto la cima più elevata dove vi sono impresse chiare impronte glaciali, dall’”anfiteatro” ai Circhi dell’Aquilana, testimonianze delle ultime glaciazioni avvenute ben 120.000 anni addietro. Dunque, vi è sempre stato un  legame strettissimo tra, per così dire, il sopra e il sotto che ai giorni nostri sembra stia deteriorandosi. L’economia locale è tradizionalmente basata sull’integrazione tra ciò che offrono le zone situate in altitudine e quelle pedemontane. In questo comprensorio piuttosto che la pratica della transumanza (unicamente i pastori di Roccamandolfi la effettuavano) vi è stata, e continua ad esserci seppure in tono minore, quella della monticazione. Nei tempi attuali fra le 3 possibili tipologie di allevamento, quindi la transumanza, l’alpeggio (ambedue prevedono lo spostamento delle bestie) e la stabulazione fissa sicuramente prevale quest’ultima. Gli animali rimangono nella stalla tutto l’anno poiché per l’approvvigionamento dell’erba si fa ricorso alle colture intensive di foraggio. I capi sia ovini sia vaccini che pascolano in quota d’estate sono progressivamente di meno e così, in modo figurato, la montagna si allontana dalla pianura rimanendo per tanti un semplice fondale dello spazio esistenziale. La pabulazione eccessiva come avveniva prima non va bene, ma non va neanche bene che non si valorizzi a pieno il patrimonio pascolivo, il quale è sul massiccio matesino notevolissimo. Certo, non c’è pericolo che al momento che viene abbandonato un prato si inselvatichi, al massimo vi possono attecchire specie erbacee che il bestiame non apprezza (il toponimo Campo delle Ortiche è rivelatore). Ovunque sono in regresso i terreni pascolivi, mentre le praterie di alta quota non mostrano segni di contrazione seppure non più da tempo utilizzate. Nel vocabolario dell’ecologia queste si chiamano praterie primarie le quali seguono in una scala ascensionale le formazioni forestali. Esse coincidono con gli altopiani che si è descritto in precedenza sui quali, dunque, si appoggia la pastorizia. Sono le praterie primarie degli autentici ecosistemi il connotato peculiare dei quali è la stabilità ossia la capacità di perpetuarsi, valore fondamentale dell’ambiente la cui integrità è minacciata dalla degradazione delle strutture ecologiche che non sanno più rigenerarsi. Gli altopiani, in definitiva, sono estremamente significativi sia dal punto di vista paesaggistico sia naturalistico sia turistico attraendo visitatori in vacanza a Campitello dopo che è avvenuto lo sfalcio dell’erba (lo si fa solo qui) e il pianoro si apre al pascolo, la vista delle mucche sul prato che sa tanto di paesaggio alpino e che invita alla degustazione degli apprezzati latticini, innanzitutto il  caciocavallo.

 

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IL MATESE, UNA MONTAGNA MULTISTRATO

 

 Può sembrare un qualcosa di eccentrico avvicinarsi all’esame della montagna, in verità solo di alcuni suoi aspetti, partendo dall’alto, dalla cima; è un modo opposto a quello cui siamo abituati, a quello dell’esperienza comune, di osservare il rilievo iniziando dal basso. Pare appropriato cominciare dalla cima semplicemente se si pensa che l’umanizzazione di questo territorio, privo in passato, prima dell’avvento della stagione dello sci, della presenza antropica, frequentato solo da pastori, boscaioli e da pochi pionieri dell’escursionismo, ha preso avvio proprio da lì. Monte Miletto è sormontato da una grande croce di ferro la quale oltre ad essere un simbolo religioso equivale quasi ad una bandierina piantata, come nelle esplorazioni ai Poli, per indicare che si è raggiunto il traguardo il quale è davvero prestigioso trattandosi della vetta più elevata dell’Appennino centro-meridionale (più a sud c’è il Pollino). La sommità di questo monte è anche uno dei luoghi più interessanti dell’intero massiccio per la ben distinguibile traccia lasciata dal ghiacciaio, il classico circo glaciale, formatosi nel quaternario; la sua lingua o coda, come è successo per tutti gli altri della medesima era geologica, non arrivò a raggiungere il fondovalle, ma si dovette arrestare nel piano appena più sotto, per intenderci il pianoro di Campitello. Quest’ultimo quindi può essere letto, figurativamente, quale lunga depressione sotto il peso del deposito di ghiaccio e dell’ammasso di terra trascinato con sé scivolato dal cosiddetto anfiteatro nel quale la neve ghiacciata e i detriti erano accumulati, tra la dorsale che congiunge Colle Tamburro a m. Miletto, da un lato e le Tre Finestre da quello opposto. Campitello è una grande conca che in periodo primaverile a volte si trasforma in un lago temporaneo; in ciò si distingue dalle doline l’estensione delle quali è proporzionata all’inghiottitoio che ne è al centro, a differenza di questa piana dove è decentrato e appare insufficiente a far defluire le acque velocemente. Quello descritto è lo scenario in cui ci muoviamo, dal punto di vista naturalistico. Ai margini di questo spazio quasi pianeggiante che è Campitello negli anni ’70 sorge una importante stazione di sport invernali la quale è il segno più forte della conquista, da parte dell’uomo del territorio montano di cui la croce citata rappresenta, per certi versi, il segnale della sua prossima avanzata. In verità, vi è pure un altro indizio della nascita dell’interesse umano verso il comprensorio matesino che è il rifugio, adesso ridotto a rudere, collocato nella zona sommitale, appena più in basso e coevo della croce, costruito dalla Società Alpinistica Meridionale verso la fine del XIX secolo. Nella chiave di lettura proposta esso è un avamposto che annunzia l’avvento degli umani in quota. Di maggiori dimensioni è quello edificato in seguito a Campitello il quale è ancora il cuore di questa località turistica. Dopo circa 150 anni appare conclusa la fase della presa di confidenza della nostra civiltà con il Matese, ma non è così perché c’è tanto ancora di inesplorato. È la parte di scoperta dell’ambiente più difficile in quanto non è in superficie, quindi facilmente visibile, bensì nascosta nelle, per così dire, viscere del complesso montuoso. Vale sempre, è opportuno sottolinearlo, l’incipit che la via scelta per la conoscenza della montagna segua un percorso in discesa e perciò siamo passati dal crinale all’altopiano. Per proseguire secondo tale direzione dobbiamo tornare alle doline, perché qui vi sono gli inghiottitoi che sono i canali per il sottosuolo e sempre tenendo in mente il rapporto della nostra civiltà con le varie fasce altitudinali. Un rapporto che ai suoi primordi è stato quello di civilizzazione con la croce che un po’ riassume i valori del mondo occidentale, pur in un’epoca di grande spinta alla secolarizzazione, e di sfruttamento in seguito con la costruzione dei residence e degli impianti di risalita, due atteggiamenti assai diversi che si sono manifestati ad altitudini diverse. Anche i protagonisti sono differenti. Gli alpinisti delle origini, quelli del rifugio S.A.M., appartenevano all’élite borghese, mentre la pratica dello sci è ormai di ogni ceto sociale e, invece, il penetrare nelle cavità è prerogativa degli specialisti. Pure i momenti storici sono distinti: gli albori dell’alpinismo nella realtà molisana si collocano a cavallo tra otto e novecento, il turismo di massa legato agli sport invernali esplode negli ultimi decenni dello scorso millennio e, invece, la speleologia è molto più recente. Riassumendo, a ciascuno degli strati in cui è possibile suddividere la montagna corrisponde una specifica componente della società e un suo momento temporale. Ciò non è vero per qualunque montagna e nonostante che una larga parte delle emergenze montuose sia costituita da formazioni calcaree alle quali si associa il fenomeno del carsismo perché è qui che quest’ultimo assume un valore eccezionale. Il Pozzo della Neve che è la quarta grotta più profonda della Penisola ne è l’emblema. Seppure vi siano stati sforzi, specie da parte del Gruppo speleologico molisano per diffondere la cultura speleologica organizzando corsi di avvicinamento alla speleologia svoltisi nelle grotte dell’area matesina, il numero di praticanti di questa disciplina rimane limitato. Si auspica che si allarghi il numero di visitatori di questa cavità anche se forse bisogna rassegnarsi al fatto che la loro esplorazione non è alla portata di tutti. È richiesta una qualche abilità nel maneggiare le corde indispensabili per effettuare certi passaggi e il non essere claustrofobici. Si prenda il caso di Pozzo della Neve che si sviluppa con un primo pezzo in verticale al quale segue una stretta galleria e ci fermiamo qui in quanto basta per capire le difficoltà. A poca distanza dall’entrata si ha il buio totale il quale rende complesso effettuare le riprese fotografiche le quali permetterebbero anche a noi che non siamo speleologi di apprezzare gli ambienti ipogei. C’è, comunque, da dire che le visite dovrebbero essere regolamentate per evitare disturbi al particolarissimo e raro ecosistema sotterraneo.

 

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5 - IL MATESE, MERA ESPRESSIONE GEOGRAFICA
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IL MATESE, MERA ESPRESSIONE GEOGRAFICA

 

 Il Matese è al centro non solo nei sogni degli appassionati di montagna. È al centro della penisola italiana sia in senso longitudinale che trasversale facendo parte dell’Appennino il quale taglia in due lo «stivale»; quest’ultimo, poi, è al centro del Mediterraneo (pure lui) centrale. Che sia il Matese e non uno tra gli altri rilievi montani ad esso adiacenti ad avere il privilegio della centralità è facile dimostrarlo. Misurata in senso orizzontale la linea di lunghezza minore che intercorre tra i due mari che delimitano i confini della nazione verso est e verso ovest è quella fra Gaeta e Vasto nel cui mezzo c’è proprio il Matese. In verità è più vicino al Tirreno, ma pure le informazioni fornite in precedenza sono per approssimazione. Non è solo una questione di lontananza la quale può fuorviare nella comprensione del rapporto del Matese, e non solo di questo massiccio, con il «mare nostrum», perché altrettanta rilevanza la ha quella di una comunanza di origine tra i due. La montagna matesina nell’epoca della Teutide l’antico oceano dal quale, una volta ritiratosi, viene fuori il Mediterraneo, era parte della distesa marina, salvo, magari, le sue vette, che affioravano in superficie alla stregua di isolotti. O meglio la sommità del Matese doveva formare una specie di barriera corallina e il resto mare profondo e ciò lo si deduce dalla presenza di fossili incastonati nelle pietre; essi hanno dato vita alla formazione geologica denominata calcari a rudiste in cui si ritrovano spesso (vedi S. Polo) conchiglie, quindi molluschi marini. La sommersione dell’attuale terra ferma non deve essere avvenuta tanto tempo fa, sempre geologicamente parlando, se le specie, ovviamente ittiche, che sono rimaste intrappolate nelle rocce non sono molto dissimili, vale per la maggioranza di loro, da quelle ancora oggi presenti le quali ne possono essere considerate le dirette discendenti. In definitiva, il Matese non è distante, breve o lunga che sia tale distanza, bensì interno al Mediterraneo nel vero e proprio significato del termine. Il nostro monte è una componente integrante del mar Mediterraneo. La sua mediterraneità la si coglie anche in molti altri modi tra i quali si segnala quello di essere partecipe di un sistema economico in cui le risorse ambientali della costa sono integrate con quelle delle zone in altitudine e ciò è tipico del Mediterraneo dove le montagne e le pianure litoranee stanno fianco a fianco; la transumanza fa proprio questo, mette insieme i pascoli in altura con quelli pianeggianti del litorale, utilizzandoli alternativamente durante l’anno, a seconda delle stagioni. Non vi è nessun altro posto al mondo caratterizzato da una così stretta prossimità tra mari e monti la quale influenza pure la cucina (viene pubblicizzata nei menù dei ristoranti) con piatti fatti con frutti della terra e pietanze con ingredienti marini nel medesimo pranzo senza che tali prodotti abbiano subito processi spinti di conservazione capaci di assicurare la lunga durata. Ricapitolando, nel Mediterraneo, che già di per sé significa mare che sta in mezzo alle terre (le quali in antico erano tutte quelle conosciute), si distingue una porzione mediana, a noi interessa la sua parte superiore, denominata Mediterraneo Centrale la cui mezzeria è costituita dalla nostra nazione interamente protesa al suo interno, la quale è suddivisa a metà dalla catena Appenninica dove è facile circoscrivere un areale baricentrico, costituito, appunto, dall’Appennino Centrale lo dice tale aggettivo. La presenza della Sicilia, è ovvio, smonta il ragionamento seguito. Riprendendo il fiato si intende rispondere all’obiezione, la quale è lecito venga formulata, che il Matese non è il punto focale di tale tratto dell’Appennino essendone collocato al limite inferiore oppure, addirittura, che esso sia il pezzo terminale, in direzione nord, di quello Meridionale (alcuni geografi individuano il momento di passaggio tra le due sezioni appenniniche nel Passo di Rionero Sannitico ovvero nelle Bocche di Forlì e non nel Valico di Vinchiaturo che è più a sud, quando ormai il massiccio matesino va a concludersi); la risposta è che il Matese, riprendendo l’argomentazione esposta all’inizio, è situato lungo la linea più corta che congiunge il Tirreno e l’Adriatico, il che compensa, nell’indicazione di baricentro del Mediterraneo  e la rende legittima, la non perfetta centralità secondo la direzione settentrione-meridione nell’Appennino. La baricentricità, ulteriore precisazione, è relativa a quella striscia montuosa che è la catena Appenninica la quale divide idealmente in due il nostro Stato e, però, considerando che il Matese è spostato verso la costa tirrenica, esso non è esattamente nella mediana fra i due mari, mentre lo è un certo angolo di Roccaravindola Bassa. Rimanendo sempre nelle faccende geografiche le quali comprendono pure le condizioni climatiche, tutto quanto, cioè l’Appennino quale centro del territorio nazionale e il Matese quale suo centro viene smentito e il Mediterraneo c’entra (attenzione all’apostrofo!) ancora. Il Tirreno è connotato dal clima definito “mediterraneo”, al contrario dell’Adriatico, a partire da quella fetta di Molise che volge verso di esso in su da quello “continentale”; siamo di fonte a climatologie assai differenti fra loro, la prima che prevede tutte e quattro le stagioni e la seconda che tendenzialmente è bistagionale, quindi lunghi inverni che si succedono a mesi con temperatura moderata. Il Matese che è una sorta di baluardo che divide il Molise dalla Campania, che come i gruppi montuosi che lo seguono andando a nord, è in grado di porsi quale barriera alle perturbazioni atmosferiche. Qui ci interessa in specifico che il crinale matesino il quale separa i versanti tirrenico e adriatico è esposto all’influenza di ambedue i mari, qui più che altrove per quella faccenda che stiamo nella zona più stretta della Penisola. La stazione sciistica di Campitello, appena sotto la cima di m. Miletto, ne avverte l’influsso per l’irregolarità delle precipitazioni nevose e per la mitezza climatica perché i mari sono dei condensatori di calore che scambiano con gli ambiti territoriali contigui. Dal punto di vista dell’economia locale ciò è negativo e, al contrario, per le supposte ricadute economiche sulle comunità del posto che conseguono alle installazioni degli impianti eolici i quali beneficiano dei venti provenienti dai due opposti mari è positivo. Sulle vette la ventosità è eccessiva per cui finora le uniche centrali sono a quote meno elevate: in Crivari a Roccamandolfi e Acqua dei Faggi a Longano. Per una strana coincidenza la sommità del Matese sta nel suo centro e perciò m. Miletto riassume efficacemente il concetto di centralità che informa questo massiccio.

 

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6 - A monte Miletto, sul tetto del Matese.

A MONTE MILETTO, SUL TETTO DEL MOLISE

  Monte Miletto è il tetto del Molise perché ricade qui, precisamente nel comune di Roccamandolfi (il territorio comunale di S. Massimo si ferma un po’ prima). Di lì, cioè dalla cima, a poco si entra in Campania, realtà regionale separata dalla nostra proprio dal Matese che fa da spartiacque: dunque il Miletto, in qualche modo, è condiviso sentimentalmente, dalle due regioni confinanti. Anche per quella campana il cui perimetro, si è detto, la sfiora tale montagna rappresenta la sommità più alta, il traguardo visivo da diversi angoli di tale terra. Il m. Miletto è la maggiore vetta del pezzo dell’Italia peninsulare che va da Dolcedorme nel massiccio del Pollino ai monti della Meta nel gruppo delle Mainarde, dunque in un lungo tratto dell’Appennino, posizionato in una fascia intermedia dello stesso a cavallo tra la catena appenninica centrale e quella meridionale. È il rilievo montuoso tra quelli citati il più vicino a Napoli. Detto tutto ciò è difficile capire perché non sia diventato una bandiera per i molisani, un simbolo, tanto che non ci sono cartoline in cui la cima sia stata fotografata. Non esistono neanche dépliant pubblicitari con foto, viceversa, delle vedute che si hanno da qua sù del Tirreno perché sembra di dominare dall’alto le acque del Mediterraneo; del resto sul Matese ponendosi sul crinale sommitale e spostandosi minimamente, quasi con il medesimo sguardo si abbracciano le due opposte distese marine, cioè pure l’Adriatico. Ciò è ancora di più affascinante se si pensa che in lontane ere geologiche, quando il pianeta era una sfera prevalentemente acquosa, il Miletto doveva essere una specie di isolotto che spuntava dall’oceano. Il rapporto con l’acqua è tuttora forte ed è ben emblematizzato nell’immagine riflessa dei monti sulla superficie del Lago del Matese, il quale viene da essi usato alla stregua di uno specchio. Niente di tutto questo si ritrova nella propaganda turistica. Una scusante è che per vedere il golfo di Napoli è necessario essere in vetta all’alba di una giornata con l’aria tersa, altrimenti ci si accontenta, cosa, comunque, non da poco, di ammirare dalla cima di m. Miletto il quale sta giusto nel mezzo l’insieme del complesso montano matesino che egli sovrasta, sempre che non ci sia nebbia. Ad accrescere l’interesse per la groppa terminale del Matese vi sono anche le leggende che sono nate intorno ad esse, quale quella, ispirata dal profilo della cresta che assomiglierebbe ad una persona supina, del gigante addormentato del quale si teme il risveglio; in passato le zone in altitudine erano poco frequentate per cui erano misteriose, tanto da suscitare racconti fiabeschi. È un mondo, quello delle quote più alte che non è terrestre e neppure ultraterreno, popolato da esseri sovrannaturali (si pensi alla ninfa di S. Egidio). Il suo nome, monte Miletto, etimologicamente significherebbe monte dei militi, per qualche battaglia qui combattuta, magari dai Sanniti contro i Romani: è, invece, semplice parto della fantasia popolare (si segnala, ma non vi sono analogie di significato con il toponimo matesino, che vi è un paese nell’avellinese che si chiama Montemiletto). Non è stato sempre così, in passato vi era un assoluta riverenza verso il Miletto. L’“impresa” di Beniamino Caso, personaggio illustre a quel tempo, alla fine del XIX secolo, di Piedimonte d’Alife, testimonia quanto fosse, almeno nella classe borghese, forte il mito di questo monte. L’ascensione al culmine di tale rilievo montano in periodo invernale era legata al gusto che si andava affermando della difficoltà e del rischio: di certo non si trattava di una scalata alpinistica quella da compiere per salire fin lassù e, però, la neve specie ghiacciata, rende il terreno scivoloso e il cammino, di conseguenza, faticoso. Quindi, se è vero che pastori e cacciatori vanno ovunque, ma non nella stagione invernale, effettuare la salita nel mese di gennaio fu un autentico primato; tra le motivazioni dei partecipanti a questa “avventura” vi doveva essere pure, la curiosità naturalistica come si rileva dalla presenza nel gruppo del professore di botanica Terracciano, la quale, vedi lo statuto del Club Alpino Italiano una cui sezione era stata fondata anche a Campobasso poco prima, informa le attività di tale associazione. Sulla vetta, qualche anno dopo, venne eretta una croce in ferro, in seguito rinforzata con tiranti di acciaio per permetterle di resistere al vento, che significò una sua sacralizzazione. Un ulteriore crocifisso metallico è stato, successivamente, piantato su cima, appunto, Croce, scelta perché più visibile dell’altra dal basso, una duplicazione, dunque, indispensabile. Le sommità vengono consacrate in quanto più vicine a Dio per cui valeva la pena lo sforzo per trasportare le travi fatte di materiale così pesante, operazione che oggi è molto meno gravosa essendoci l’elicottero. Le due cime stanno su un unico crinale e per questa ragione cima Croce è considerata una “non vetta” nell’elenco dei “quota 2000” dell’Appennino (sono complessivamente 261) che vengono collezionate da coloro che intendono, conteggiando le cime raggiunte, partecipare a questa particolare classifica (il calcolo di quanti 2.000 si è toccati) la quale fa il paio con quella dei 4.000 alpini. Attualmente sono tantissimi a poter dire di essere stati sul colmo di m. Miletto perché c’è la seggiovia che smonta un centinaio di metri (di altezza) al di sotto, utilizzata dagli sciatori e, in estate, dagli amanti del paesaggio. La desacralizzazione del vertice del monte, in effetti, era già compiuta per via dell’installazione di ripetitori, costituendo esso un luogo ideale a tale scopo poiché privo di ostacoli alla trasmissione delle onde radiotelevisive. I turisti che vengono portati su dall’impianto a fune, va, inoltre, considerato, e che proseguono a piedi fino alla vetta non lo fanno tanto per l’orgoglio di poter raccontare di essere stati sulla montagna più elevata dell’Appennino molisano-campano e sentirsi per un giorno alpinisti quanto piuttosto perché essa è a portata di mano, conquistabile senza fatica da adulti, meno adulti e bambini. Non c’è stata da parte dei frequentatori della sommità del Miletto, il più delle volte, una scelta tra tale montagna e quelle vicine, mettiamo la Gallinola, altrettanto bella e che tocca quasi i duemila: a determinare la decisione di raggiungere la cima di monte Miletto, anche se, lo si ammette, è la più prestigiosa e non un’altra, è l’opportunità rappresentata dal trasporto funiviario che riduce l’impegno fisico e la circostanza, non secondaria, di poter sfruttare quale campo-base Campitello.

 

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7 - Il Matese sottosopra.

IL MATESE SOTTOSOPRA

 

 Il Matese non è solo Campitello il quale, comunque, costituisce il luogo più conosciuto di questo complesso montuoso. Nonostante si tratti di un massiccio assai vasto l’attenzione dei più è concentrata sull’area, peraltro limitata, in cui ricade la nota stazione sciistica. L’essere costantemente sotto i riflettori dell’opinione pubblica nella quale è in forte crescita la sensibilità ecologista impone che gli interventi che si vanno a fare siano improntati alla sostenibilità. A cominciare dal miglioramento dell’attrattività sciistica la quale non punta più all’ampliamento delle piste come era previsto nel programma “Campitello 2000” in cui il bacino sciabile si estendeva al versante di Roccamandolfi, ma alla ristrutturazione degli impianti di risalita. È in progetto la sostituzione della sciovia Capodacqua con una seggiovia che è più capiente e più veloce. Investire in nuove tecnologie non deve significare unicamente la modernizzazione del sistema impiantistico esistente, ma pure perseguire la compatibilità delle attrezzature per lo sci con il contesto ambientale riducendo i consumi energetici, l’invasività dei sostegni degli impianti a fune, la rumorosità. Rimanendo alle infrastrutture funiviarie è da dire che la realizzazione della funivia che sarebbe dovuta partire da S. Massimo, pensata prima della realizzazione della strada provinciale, avrebbe evitato l’afflusso delle auto in quota con il conseguente inquinamento dell’aria. Un segno dei tempi è l’utilizzo del legno per la costruzione del palazzetto del ghiaccio, con la caratteristica forma a piramide, perché è il materiale biocompatibile per eccellenza; il legno lamellare che verrà utilizzato insieme alle vetrate che costituiscono le pareti conferisce leggerezza a questo nuovo volume edilizio il quale così non produce un eccessivo impatto sul paesaggio. A favore di quest’ultimo sarebbe opportuno provvedere al reinverdimento delle piste che in estate appaiono come delle lunghe strisce grigie. Le costruzioni di questo centro di sport invernali non sono, comunque, le prime apparse sul Matese in quanto, oltre alle capanne pastorali, a volte semplici ripari e degli eremi come quello di S. Egidio, fin dalla fine del XIX secolo sono stati edificati diversi rifugi. I rifugi sono nati contemporaneamente all’affermarsi dell’alpinismo al quale sono funzionali. I rifugi, in effetti, non sono molti e ciò è dovuto al fatto che le sorgenti in quota in una montagna carsica qual è la nostra sono scarse; i rifugi, è evidente, non possono stare lontano dalle fonti. Questo è un grosso problema per gli escursionisti che vogliono fare un trekking lungo il massiccio matesino avendo difficoltà a trovare punti dove riempire le borracce mancando, peraltro, centri abitativi in quota per la medesima questione del carsismo. I rifugi servono agli alpinisti, mentre la loro presenza è indifferente per gli speleologi che giungono da tante parti d’Italia per visitare le grotte di questo complesso di natura carsica, tra le più profonde, almeno alcune di esse, d’Europa. Gli ingressi di tali grotte hanno un indubbio fascino assomigliando le doline al cui fondo si trovano gli inghiottitoi a dei crateri lunari o ai coni di vulcani, vedi il Pozzo della Neve. Il paesaggio carsico ha un forte valore estetico e può attirare tanti più turisti di ora se si riesce a organizzare le visite in grotta che, seppure sporadicamente, già ora si effettuano, a cura del gruppo speleologico molisano, nella grotta di Capo Quirino. È ovvio che i visitatori dovranno avere attenzione a non compromettere l’integrità di questi ambienti sotterranei che sono così fragili. Gli speleologi sono, in qualche modo, l’opposto degli alpinisti, ambedue frequentatori del Matese, gli uni scendendo nelle viscere della terra gli altri scalando le vette, ad evidenziare che la montagna matesina permette una diversità di pratiche sportive; in numero maggiore sono ovviamente i secondi, i primi rimanendo sempre minoritari, sarà perché a pochi attira l’andare in anfratti bui i quali suscitano paure ancestrali. Gli speleologi sono gli ultimi esploratori dell’ambiente montano del Matese, il quale in superficie è ben conosciuto per le lunghe frequentazioni da parte di pastori e di escursionisti, mentre le sue viscere, cioè le grotte, sono largamente ignote. Gli speleologi hanno il merito di documentare un mondo nascosto, ma di grande interesse per la comprensione della formazione della crosta terrestre. Essi si occupano, per così dire, del vuoto, le cavità, il quale per sua natura è inafferrabile e, dunque, il loro compito è davvero arduo, essendo di fronte al « nulla ». Sono pochissime le pubblicazioni che hanno riguardato le grotte del Matese, né vi sono stati reportage delle discese nel sottosuolo sui periodici delle varie sezioni del Club Alpino Italiano, neanche su quello locale, il Sentiero, oggi purtroppo non più edito. Firme illustri, vedi Giustino Fortunato, e meno note, da Berengario Amorosa a Luigi Manfredi a Beniamino Caso, hanno scritto di itinerari montani, ma nessuno si è soffermato sul tema delle cavità le quali hanno suscitato la curiosità unicamente degli studiosi del folclore (e tra questi vi è il giovane Luigi D’Amato, diventato poi un famoso medico) perché nelle tradizioni popolari matesine in esse albergano figure mostruose. La speleologia risponde, comunque, ad uno degli interessi principali che hanno mosso fin dal XVIII secolo le persone a salire sul Matese che è quello scientifico per il rilievo che le cavità sotterranee hanno nello studio della geologia. In verità, salvo che nel periodo contemporaneo nel quale la pratica speleologica ha trovato svariati adepti, pure nel Molise, l’esistenza delle numerose grotte deve aver contribuito in passato, a quel sentimento di repulsione verso la montagna del Matese sentita dai cittadini  come  un  mondo  tenebroso  popolato  dall’« uomo delle nevi »  (secondo quanto si riporta in « Costumanze pentre », fate (nello stesso articolo di L. Manfredi) e briganti (il libro di De Filippis sul brigantaggio a Roccamandolfi è il rapporto più completo). A spingere sui monti deve essere stata la voglia di emulare il nascente alpinismo che si stava affermando, siamo nella seconda metà del 1.800, appunto sulle Alpi. Esso diventò una sorta di moda che dapprima coinvolse l’èlite e man mano si diffuse pure nel ceto popolare. La data d’inizio di questo nuovo fenomeno la si può far coincidere con la costituzione della sezione CAI di Campobasso nel 1885, una delle più antiche; è significativo che il Club Alpino sia sorto nel 1867, pressoché insieme all’Unità d’Italia perché sta ad indicare la volontà di unificare anche nell’hobby della montagna la popolazione. Si andava sulle cime matesine prevalentemente in comitiva, come descritto nei racconti di gite del secolo scorso, mentre non vi sono rapporti di ascensioni in solitaria e le escursioni invernali sono rare e tra queste c’è quella compiuta da B. Caso e i suoi amici per raggiungere la vetta di monte Miletto per la prima volta (o almeno così si vantavano) oltre cento anni da. I frequentatori del Matese sono stati all’inizio prevalentemente appassionati del posto, ma non sono mancati i forestieri tra cui il celebre meridionalista Giustino Fortunato. Si tratta di un grande intellettuale e non sono pochi gli uomini di cultura che hanno amato l’Appennino e tra questi c’era pure Benedetto Croce, socio della sezione CAI di Napoli, il cui nonno era di Campobasso. Personaggi di primo piano che si sono imbattuti nel Matese sono numerosi e tra questi c’è il principe Umberto che in foto storiche è ritratto mentre scia a Campitello e questo dello sci è il nuovo capitolo della storia della montagna matesina la quale da allora rischia di essere sentita alla stregua di un terreno di gioco, con la contestuale messa in secondo piano dei suoi notevoli valori paesaggistici e naturalistici. 

 

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8 - Ascese al Matese.

ASCESE AL MATESE

Del resto della catena appenninica il Matese conserva l’andamento longitudinale, non assumendo quindi la forma di un blocco più o meno quadrangolare che è l’immagine ricorrente di una montagna. A differenza, però, di quanto succede nella gran parte dell’Appennino la longitudinalità non è in direzione nord-sud, bensì ovest-est. Comunque, lo si ripete, il Matese ha una disposizione allungata simile a quella complessiva del sistema montuoso che chiamiamo Appennino. Il massiccio matesino costituisce un’anomalia nella catena appenninica, la quale si presenta come un insieme di monti abbastanza continuo, essendo rilievo a sé stante, delimitato dalle vallate del Volturno e dell’alto Tammaro. Esso, ad ogni modo, seppure distaccato è prossimo ad altre emergenze montuose, da un lato il gruppo delle Mainarde, dall’altro il monte Taburno. Pure al suo interno il Matese presenta una discontinuità sull’asse Gola del Quirino, Sella del Perrone, Bocca della Selva che divide il monte Mutria dal blocco Gallinola-Miletto, discontinuità solo a tratti profonda (forra dell’Arcichiaro), ma mai molto ampia. In tale fascia di rottura della continuità vi è l’unica strada di attraversamento del Matese con un valico posto sopra i 1000 metri di quota, la Sella del Perrone. Il Matese, lo si è detto, è il pezzo meno unitario della dorsale montuosa che corre lungo tutta la Penisola contribuendo a intensificare il carattere dell’Appennino di catena montana fatta di parti differenziate, connotato che la distingue in maniera forte dalle Alpi. Un’altra questione, connessa, di certo, alla precedente, è quella dell’appartenenza del Matese all’Appennino Centrale o, viceversa, a quello Meridionale. È un problema mai risolto perché i criteri di suddivisione non sono univoci. C’è chi propugna l’individuazione della linea di passaggio nel Passo di Rionero o nella prossima Bocca di Forli oppure nella ben più distante Sella di Vinchiaturo. Sempre questi punti vengono a coincidere con la delimitazione di bacini idrografici, i primi due tra i bacini del Sangro e del Volturno, il secondo tra quello del Volturno e quello del Biferno. Sotto l’aspetto geografico la faccenda dell’inclusione nell’Appennino Centrale o in quello Meridionale è sicuramente significativa, mentre in riguardo alla morfologia le differenze sono poco sensibili come dimostra proprio il Matese in cui il limite rappresentato dalla Sella di Vinchiaturo tra i due Appennini non dice granché in termini di strutture ambientali. Se vi è qualche mutazione essa non è repentina. Ulteriori due cose vengono fatte notare e cominciano dall’evidenziare che possibili momenti di transizione tra Appennino Centrale e Meridionale prescindono dal parametro dell’altezza essendo il Passo di Rionero a m. 1044 e la Bocca di Forli a m. 891 a differenza della Sella di Vinchiaturo, chiamata pure Passo di Redole, che è molto più bassa, m. 555; l’altra cosa che tutti questi luoghi di valico sono non solo a cavallo di due bacini fluviali, ma pure sullo spartiacque tra Tirreno e Adriatico. Il Matese, il quale va considerato, in questa porzione d’Italia, che comprende Campania e Molise, lo spartiacque appenninico principale è spostato sul versante tirrenico e ciò lo si avverte chiaramente salendo sulla cima di monte Miletto da dove si può osservare il golfo di Napoli. Il Matese, a sua volta, ben distinguibile da tantissime zone della Campania sia del Molise e per molti che vi vivono è la montagna per antonomasia. La sua compattezza e imponenza che poi sono le caratteristiche che lo portano a dominare nel paesaggio sono connesse alla sua formazione geologica che è calcarea e ai calcari, infatti, corrispondono i rilievi maggiori. Esso è ancora più importante perché, come si è visto, è un blocco isolato. Sul Matese si trovano tanto calcari dolomitici quanto calcari a rudiste del cretaceo (a S. Polo e a Boiano sono state organizzate raccolte paleontologiche con materiali raccolti in loco) che testimoniano la presenza di terreni marini portati in quota da potenti moti di sollevamento. Questa montagna va chiamata massiccio perché oltre che lunga è anche larga. Essa è pure complicata per via del succedersi di valloni, il Fosso della Neve o l’orrido del Pesco Rosso, vasti altipiani quali i pianori di Campitello, i Sogli di Boiano, Campitelli di Sepino, ecc. pareti rocciose, quelle delle Tre Finestre, cime, la principale è monte Miletto. Queste ultime svettano non di molto dalle pianure d’altitudine le quali sembrano costituire il loro basamento. La parte cacuminale, dunque, appare stagliarsi da questi pianori e non direttamente dalla piana di Boiano. Le cime più elevate, delle quali solo monte Miletto supera i 2000 metri, sono situate tutte, e cioè monte Tamburro La Gallinola, sullo stesso lato del massiccio, quello tirrenico. Occorre aggiungere che non si tratta di vette piramidali, bensì di groppe prolungate. Per questi caratteri le cime vengono a rappresentare unicamente un elemento particolare della montagna e non la loro inevitabile conclusione derivante dall’essere connaturate alla sua struttura. Prima si è usato il termine complicato, adesso introduciamo quello di tormentato per descrivere il paesaggio delle alte quote non essendo nessuna cima uguale ad un’altra così come ogni pianoro si distingue da quello prossimo: si cita il Campo delle Ortiche così diverso dal contiguo Campo dell’Arco, niente che possa ricondursi a figure definite. A conferire un’immagine per certi versi alpina alla cima maggiore, monte Miletto, è il circo glaciale con nel fondo una piccola morena. L’accumulo morenico derivante dall’antico ghiacciaio è l’unica conseguenza sul modellamento del suolo che ebbe l’azione glaciale quaternaria. Pertanto l’effetto della glaciazione sulla forma della terra è stato molto circoscritto confinato com’è alle zone sommitali e ciò avviene in tutto l’Appennino; sul Matese, peraltro, pochissimi punti superano quello che poteva essere considerato il limite delle nevi permanenti. Ciò che connota fortemente il Matese è il carsismo, ma ciò non per la presenza di distinguibili forme carsiche le quali, comunque, siano esse doline, inghiottitoi o grotte rappresentano sempre forme secondarie nel paesaggio montano. Il carsismo lo si coglie piuttosto per quello che non c’è e, cioè, per, con l’eccezione di Capodacqua, di sorgenti. A causa della roccia calcarea, quindi del carbonato di calcio l’acqua meteorica penetra, per lenta filtrazione e attraverso fessure, nel sottosuolo; il risvolto dell’essere una formazione calcara la quale è resistente all’erosione è l’assenza di fenomeni franosi. Ancora di più colpisce l’incontrare valloni asciutti, prendi il vallone S. Nicola, per la mancanza di ruscellamento superficiale. A smaltire le acque pensano gli inghiottitoi, a volte visibili a volte coperti, come succede spesso, dalla terra rossa che costituisce il fondo dei pianori. Non è solo tramite tali aperture che fuoriesce l’acqua in quanto i pianori, in genere di forma allungata, hanno di regola, da un lato una sbrecciatura e quando questa non c’è si forma un lago non trovando l’acqua vie di smaltimento ed è il caso del Lago del Matese. Sono più frequenti i pianori, ma si incontrano in modo sparso ma non dappertutto sugli altipiani le doline. Esse sono una denuncia esteriore del carsismo, al contrario delle cavità, Grotta del Fumo, Grotta delle Ciaole, quella di Campo dell’Arco, che, al contrario, sono una denuncia degli effetti «interiori». Descrivere il Matese, perciò, e questa è la conclusione, comporterebbe di parlare non solo di quanto appare in superficie, ma pure del suo sottosuolo che viene esplorato da speleologi provenienti da tutta l’Europa.

 

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9 - La fine del Matese.

LA FINE DEL MATESE

Monte Gallo è parte di una riserva demaniale regionale insieme a Monte Caruso, denominata appunto « Riserva Monte Caruso e Monte Gallo », gestita per conto della Regione dal Corpo Forestale dello Stato con l’ufficio “ex Asfd”. È interessante conoscere la storia di questa proprietà che un tempo, fino al 1975, era dei Principi Pignatelli; è proprio da qui che bisogna partire per analizzare i connotati naturalistici del sito. Con l’”eversione” del feudalesimo stabilita dai francesi che allora governavano a Napoli, nel 1805 il feudatario, in questo caso i Pignatelli, da “signore utile” dell’intero feudo, qui Monteroduni, entra nel pieno possesso di una metà, mentre l’altra metà viene assegnata all’Università dei cittadini. Questi ultimi si spartiscono le superfici agrarie avendo necessità dei campi da coltivare, lasciando all’antico barone, interessato da sempre più alla rendita che allo sfruttamento agricolo, i boschi e i pascoli e, comunque, i luoghi più lontani dall’abitato, come il complesso monte Caruso-monte Gallo. Monte Gallo doveva, di certo, essere sfruttato per il pascolamento degli animali in quanto il bosco, perlomeno il bosco fitto, non riesce ad affermarsi a causa del suolo calcareo che affiora spesso; per inciso si fa notare che tale caratteristica, cioè la presenza di strati lapidei in superficie, è quella che spiega l’esistenza di cave di « verdello » in quest’area. Se, però, non vi sono, per via del terreno ingrato, boschi cedui di grande valore, vi è, ad ogni modo, una ricca vegetazione arborea e non solo. Essa è formata di latifoglie (con qualche conifera dovuta a recenti rimboschimenti), così le classifica il “Corine V livello”, secondo regole di livello europeo, ma che uno studio dell’Università del Molise sui « Tipi Forestali » articola in più raggruppamenti arborei, nei quali, va evidenziato, non c’è mai la quercia, la quale, altrove, rappresenta la specie dominante. Queste formazioni boschive, le quali si differenziano in parte fra loro a seconda dell’altitudine, sono costituite prevalentemente da orniello, carpino e frassino che, seppure, forse, sono piante meno “nobili” del faggio o della roverella, sono importanti poiché contribuiscono ad arricchire la diversità floristica del Matese (e dell’intera regione perché esse si concentrano alle sue pendici), in altri termini la biodiversità. La fisionomia è quella di masse boschive aperte (coprono solo il 50% della superficie), diradate; con un termine più appropriato possono essere definite boscaglie. Si è detto della varietà arborea alla quale va aggiunta quella, ancora più elevata, delle specie arboree e arbustive le quali si ritrovano tanto nel sottobosco quanto negli spazi lasciati liberi dalle macchie boschive; a questo proposito è da precisare che le essenze erbacee e i cespugli sono gli stessi, dentro e fuori dal bosco. L’affermazione del cespuglio è un indicatore dell’abbandono, fenomeno che porta i pascoli a trasformarsi in superfici forestali. Che non si tratti di ex-coltivi è evidente, trattandosi il Matese di cui monte Gallo è parte una montagna carsica in cui la solubilità della roccia e la frequenza della fessurazione porta l’acqua ad infiltrarsi in profondità; non trattenuta in superficie non può essere sfruttata per l’irrigazione né, tantomeno, è consentito l’insediamento umano stabile. L’acqua emerge ai piedi del massiccio con una serie di risorgive tra le quali c’è la sorgente che da vita al bellissimo laghetto di S. Nazzaro in agro di Monteroduni. La presenza di un reticolo idrografico in quota, è opportuno evidenziarlo, con la sua vegetazione spondale, gli ambienti umidi, ecc. avrebbe aumentato la diversità degli habitat che, pertanto, si limitano a quelli forestali. Si è finora parlato delle peculiarità ambientali di questo posto, adesso bisogna allargare lo sguardo con l’indagare il ruolo che esso svolge in un sistema più ampio, nell’ecosistema cui appartiene. Monte Gallo è collocato nel Matese, il quale, a sua volta, è una porzione dell’Appennino. La catena dell’Appennino ha quale sua peculiarità quella di essere una struttura ambientale di tipo longitudinale, nella quale le continuità, in particolare gli spostamenti della fauna terrestre, vanno ricercate lungo la direttrice nord-sud, quella su cui è impostata la successione dei gruppi montuosi (tra gli altri il Gran Sasso, la Maiella, le Mainarde e il nostro Matese) che compongono l’Appennino. A dire il vero non è una direzionalità esclusiva: infatti dato il grande spessore di questi monti, si pensi proprio al Matese, l’andamento delle componenti naturali attraverso le quali si muovono gli animali selvatici è anche in senso trasversale. Seppure non isotropo in maniera compiuto non ha neanche una direzione esclusivamente univoco il sistema ambientale matesino, ma siamo di fronte ad una rete ecologica complessa. I monti del Matese, è un’altra considerazione che si collega in modo stretto alla precedente, vengono ad essere un insieme ambientale unitario, privo al suo interno di interruzioni. La mobilità degli animali non è sicuramente ostacolata dal passaggio della strada, che ha una sezione viaria ridotta e un traffico limitato, che da Monteroduni risale a Vallelunga né da quella, delle medesime dimensioni della prima, che da Capriati raggiunge Gallo, le uniche due strade che solcano il massiccio da questo lato. Non produce “frammentazione” neppure l’alveo della Rava delle Cappelle il quale è il solo corso d’acqua, di tipo torrentizio, che nasce in altitudine; si tratta di un canalone sassoso che nel pezzo iniziale diventa  uno spettacolare canyon carsico, il « peschio rosso », frutto di un movimento tettonico piuttosto che di erosione fluviale. Le sue pareti sub-verticali sono di ostacolo al passaggio della fauna, la quale, però, migrando un po’ trova facili varchi. Al di là si questa forra selvaggia non vi è limitazione alcuna alla continuità faunistica la quale ha una conclusione inevitabile con la conclusione del Matese il quale termina giusto a monte Gallo. Monte Gallo è la propaggine estrema di questo massiccio al quale, è bene puntualizzarlo, appartiene in pieno. Nonostante la sua altezza sia contenuta l’accentuata pendenza del versante ne fa chiaramente una montagna, a prescindere dal dato altimetrico. Monte Gallo sta al confine del Matese, o meglio è una zona di transizione tra ambienti differenti, la montagna da un lato e il fiume Volturno che la costeggia per un tratto (solo sul lato corto, vedi anche ad est il Tammaro, il Matese è delimitato da un corso d’acqua). Il bosco denso che copre le pendici di monte Gallo, molto più folto di quello che trovi in sommità e in ciò è un’anomalia perché ci sarebbe da aspettarsi un incremento della copertura forestale man mano che si sale, arriva a lambire le sponde del fiume e, perciò, ad essere compreso in tale corridoio ecologico. In altri termini, se dal punto di vista morfologico è un passaggio brusco, per via della contrapposizione tra la ripidezza del versante e la piana fluviale, tra Volturno e Matese, il bosco che riveste il fianco di monte Gallo fino a raggiungere l’alveo diventa un elemento di mediazione tra ambienti distinti. Monte Gallo,  di nuovo,  non viene a rappresentare,  così,  una  barriera,  in ragione  della  « biopermeabilità » che assicura l’estensione boschiva; in definitiva siamo in un punto davvero delicato per quella sorta di « ambiguità » intrinseca che possiede. Un’area per così dire di frontiera con caratteri autonomi che la distinguono dal resto del Matese, complesso montano con una spinta mutevolezza dei paesaggi, del quale incrementa la ricchezza paesaggistica. Va tutelata la sua particolarità di ambito di passaggio e, nello stesso tempo, di confine rispetto alla quale valutare l’ammissibilità di interventi di trasformazione. Tra questi vi sono le cave di verdello, una pietra calcarea che si estrae in lastre da ammassi rocciosi rinvenibili nello strato superficiale del terreno; il verdello può essere inteso alla stregua di un « prodotto tipico », quasi come quelli enogastronomici che viene utilizzato quale pietra da rivestimento, quindi da esibire e non un blocco da costruzione. L’estrazione che avviene manualmente non comporta scarti con conseguente discarica di inerti, sicuro detrattore paesistico.

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