A proposito di borghi in corso di abbandono
1 - La storia dell'emigrazione nel Molise
2 - L'emigrazione e lo svuotamento dei borghi
3 - È stato doloroso emigrare ma anche restare
4 - La modernizzazione mancata dei piccoli comuni
5 - Le differenti forme di migrazione
6 - La vendita delle case dei borghi a 1 euro
7 - Il cohousing per recuperare i borghi
8 - Cohousing e social housing nei centri storici
1 - La storia dell'emigrazione nel Molise
Lo spopolamento del Molise ha una storia molto lunga. Comincia con la vittoria dei Romani nelle Guerre Sannitiche che permise, siamo in età Repubblicana, a Silla di celebrare ben 25 Trionfi, in ognuno dei quali dovevano sfilare nell’Urbe ben 5.000 prigionieri. Prosegue in età Imperiale quando il duplice incentivo costituito, da un lato, dal richiamo della capitale dell’Impero e, dall’altro lato, dalle possibilità di guadagno offerte da possedimenti vasti da colonizzare frutto di conquiste provoca una sensibile diminuzione di residenti qui da noi che già allora era giudicata preoccupante se Augusto adottò come argini a tale fenomeno, con apposite leggi, alcune sanzioni contro il trasferimento di persone nella “città eterna” e accrebbe il flusso della spesa pubblica verso questa regione, inserita nella Regio IV dell’Italia dell’epoca. Sia per rimpolpare quest’ambito territoriale sia per controllarlo meglio furono create colonie di veterani. Con un salto temporale di circa 2.000 anni passiamo alla fase moderna dell’emigrazione; per quanto riguarda i flussi di popolazione in tale lungo arco di tempo si riscontrano solo quelli diretti verso la nostra terra, cioè in entrata, durante le invasioni barbariche, i Bulgari inviati dal duca longobardo di Benevento per ripopolare il territorio tra Boiano e Isernia, e non in uscita. Simbolicamente, o quasi, è la realizzazione della linea ferroviaria a consentire la ripartenza dei movimenti migratori, il nuovo ciclo inizia intorno al 1880. Durante la cosiddetta era fascista si ha uno stop alle partenze di coloro che avrebbero voluto emigrare e, nel contempo, nell’allora Provincia di Campobasso si registrò un aumento di abitanti. La chiusura delle frontiere impediva, insieme all’ingresso di merci dall’estero per la politica dell’Autarchia, la fuoriuscita di individui in cerca di lavoro altrove. Il regime fascista fu obbligato, al di là della retorica nazionalista, a imboccare alla metà degli anni ’30 la strada della colonizzazione in Africa la quale avrebbe messo a disposizione dei contadini meridionali (e veneti) terreni da coltivare.
Nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale si ha una forte recrudescenza della spinta all’emigrazione che il fascismo aveva bloccato offrendo quale valvola di sfogo, invero solamente potenziale, le superfici agrarie nelle terre d’“oltremare”. Il Molise subisce la più consistente diminuzione demografica di tutti i tempi. I molisani nel ventennio intercensuario 1951-1971 scendono da 407.000 unità a 333.000, quindi di circa il 20%, decrescita che come ben sappiamo prosegue ancora oggi, una discesa che sembra non volersi arrestare. Finora si è trattato dell’emigrazione con il sottinteso che essa fosse un problema da risolvere, ma non sempre e non tutti la hanno considerata così, ovvero quale una cosa negativa completamente. Alcuni degli aspetti legati ad essa sono stati giudicati positivi; ad esempio dallo storico casacalendese Giovan Battista Masciotta che riferendosi alla prima ondata migratoria enumera i vantaggi che si riconducono tutti, in fin dei conti, a quello dell’arrivo di denaro d’oltreoceano. Nell’ultimo dopoguerra De Gasperi si dichiara favorevole all’esodo perché riduce il numero dei disoccupati; in quegli anni, gli anni del “boom economico”, infatti la decisione di puntare sulla crescita di settori produttivi efficienti capaci di esportare i loro beni sul mercato internazionale portò a concentrare gli sforzi sull’industrializzazione la quale aveva ed ha come suo territorio d’elezione le regioni del Nord, sacrificando all’altare del progresso industriale l’agricoltura e quindi il Sud dove rappresentava il segmento dell’economia più rilevante. Per il Mezzogiorno si scelse di adottare una politica di opere pubbliche, la quale quasi per antonomasia ha una funzione anticongiunturale. Si vennero realizzando importanti infrastrutture tra le quali le strade che, secondo Vera Lutz in un suo articolo sul Mondo Economico del 1960, “servivano ormai agli abitanti del Mezzogiorno soltanto per abbandonare per sempre i paesi d’origine”. Cambiò anche destinazione negli anni ’50 la corrente migratoria, in passato avente quale meta le Americhe scegliendo ora il continente europeo. L’anno di svolta è il 1956 quando gli espatri dall’Italia, in particolare da quella Meridionale verso gi Stati dell’Europa Settentrionale, il contrasto nord-sud, balzarono oltre le 200.000 unità. Dal ’51 al ’61, il decennio in cui si ha l’affermazione dell’industria nel nostro Paese circa 50.000 persone, un numero davvero impressionante, lasciarono il Molise seguiti da altri 20.000 nel decennio successivo diretti parte verso il triangolo industriale del’Italia Settentrionale, parte verso nazioni estere. In maniera indiretta si sono espressi favorevolmente rispetto alla fuoriuscita dal Sud di popolazione, la quale, lo si è detto, era impiegata prevalentemente nel mondo agricolo, anche economisti per così dire progressisti. Rossi Doria prevedeva, una previsione risultata errata in un suo scritto, giusto nel mezzo del XX secolo, che lo sviluppo dell’ “osso”, cioè delle aree interne del Mezzogiorno contrapposto alla “polpa”, cioè le aree forti, lo si sarebbe raggiunto “qualora la popolazione agricola di queste zone si ridurrà a un terzo di quella attuale”.
​Al calo demografico non ha fatto seguito quel cambio di passo fatto di profonde trasformazioni nell’organizzazione economica e sociale del mondo rurale auspicata da un’intera generazione di “meridionalisti”. Anzi un effetto dell’emigrazione, la quale ha portato via le forze giovani, è stato l’invecchiamento degli addetti nell’agricoltura, una senilizzazione delle aziende, un comparto dove, invece, sarebbero dovute sorgere moderne imprese di tipo, a seconda dei teorizzatori, capitalistico o cooperativistico. Vista la crisi del settore primario e il mancato decollo del settore secondario non restava che il settore terziario per trovare una collocazione lavorativa alla gente, cioè l’espansione degli occupati sia nei servizi sia nel commercio sia nella pubblica amministrazione. Tale orientamento nelle strategie occupazionali ha portato ad un accrescimento della città di Campobasso e si sottolinea città perché è nelle entità urbane maggiori che si insediano le attività commerciali e le attività di servizio. Campobasso che è capoluogo di regione, quest’ultima appena istituita, si riempie pure di uffici amministrativi. L’urbanizzazione è, pertanto, in qualche modo connessa all’emigrazione, ma questo è un altro capitolo.
2 - L'emigrazione e lo svuotamento dei borghi
Si mette, correttamente, in relazione l’abbandono dei borghi con l’emigrazione e va bè, ma bisognerebbe specificare di quale emigrazione si tratta. E sì, di emigrazione non ce n’è una sola. I differenti tipi di emigrazione producono differenti effetti sugli insediamenti abitativi d’origine degli emigrati. Esiste una emigrazione verso il Sud America e l’Australia che è la più antica e che è anche quella diretta verso terre più lontane. L’Argentina meta dell’emigrazione di tantissimi corregionali a cavallo tra ‘800 e ‘900 è stata definita da Papa Bergoglio la fine del mondo. Ci interessano per il discorso che intendiamo fare queste due caratteristiche salienti: la prima è quella di essersi svolta in un’epoca remota nella quale, per attraversare l’oceano l’unico mezzo di trasporto disponibile erano i “bastimenti”, navi che impiegavano più di un mese in quanto la potenza dei motori allora era limitata, per arrivare a destinazione, la seconda è quella della distanza essendo i Paesi di accoglienza oltreoceano per cui, anche quindi per questa ragione, occorreva oltre un mese di navigazione. Ciò fa sì che la scelta di emigrare fosse una scelta definitiva, un viaggio di sola andata, senza ritorno con la conseguenza della chiusura per sempre delle abitazioni native.
Poiché erano spostamenti compiuti con l’intera famiglia, un’autentica migrazione, il legame con la madrepatria inevitabilmente si andava man mano allentando. I flussi migratori in seguito, fin oltre la metà del XX secolo, si indirizzavano verso la porzione superiore del continente americano, non più quella inferiore e ciò determinò quanto segue: sia per la diminuzione del chilometraggio datosi che l’Europa e l’America del Nord stanno nel medesimo emisfero, seppure ai due lati opposti dell’Atlantico, e sia per il miglioramento dei sistemi di comunicazione, non più le imbarcazioni bensì gli aerei i quali hanno ridotto di molto i tempi della traversata transoceanica, divenne maggiormente realistico il sogno, perché per tantissimi rimase tale, di poter tornare “a casa” all’età, magari, della pensione. Il riflesso sulle condizioni dei paesi di partenza fu che nei nuclei storici si ebbe l’esecuzione di opere di ammodernamento di diversi stabili e che nella periferia spuntarono nuove casette, interventi entrambi realizzati con le cosiddette rimesse dei cosiddetti americani. Nel secondo dopoguerra i movimenti delle persone in cerca di lavoro divennero a corto raggio, a scala nazionale o continentale, le offerte di impiego provenivano dalle industrie dell’Italia settentrionale e del Paesi nordeuropei. I lavoratori facevano rientro nei centri in cui avevano lasciato i propri nuclei familiari con maggiore frequenza, tanto nelle festività natalizie quanto nelle ferie estive. Un segno fisico di tale fase della storia dell’emigrazione impresso nella struttura insediativa regionale è costituito dagli alloggi per vacanze acquistati nelle località balneari, prendi Campomarino Lido. È ovvio che quanto esposto fin qui è una semplice ipotesi di lavoro, il tema delle correlazioni tra patrimonio edilizio ed emigrazione si ritiene debba essere approfondito aprendo una apposita linea di ricerca. C’è qualcosa che unifica le tipologie di emigranti descritte, divise fra loro rispetto alla prospettiva del ritornare alla, per così dire, base, se al termine dell’attività lavorativa o se saltuariamente con i segnalati relativi risvolti sulla situazione insediativa del comune di “dipartita”, ed è questa cosa che a nessuno di loro, lontani oppure vicini tanto nel tempo quanto nello spazio, sia mai passato in mente il fatto che il borgo originario possa rischiare di chiudere, che i loro discendenti desiderosi di scoprire le proprie radici possano non trovarlo oppure imbattersi in un mucchio di macerie. Pertanto, è interesse, non vuol essere un rimprovero in quanto l’emigrare è stata una costrizione, non solo di coloro che continuano ad abitarci ma pure di quanti sono andati via la conservazione degli abitati, per i primi, di residenza, per i secondi, di partenza se non si vuole l’annullamento della stessa memoria del luogo di provenienza della famiglia nelle generazioni future e con essa il ricordo degli antenati correndo così il pericolo di creare individui sradicati. Niente di più niente di meno. La parola emigrazione non va intesa, come una parola risolutrice, la chiave di comprensione del fenomeno dell’abbandono dei nostri paesi, la parola capace di spiegare in modo esaustivo il processo di svuotamento delle realtà insediative minori, specie quelle ubicate nelle aree interne della regione, ma occorre affiancare ad essa per avere una comprensione più ampia di tale preoccupante tendenza la parola trasferimento.
Mentre si emigra essenzialmente per ragioni occupazionali ci si trasferisce altrove, nelle entità urbane di superiore rilievo, prevalentemente per migliorare la qualità della vita. La desertificazione, demografica, dei piccoli centri porta ad una riduzione dei servizi offerti alla popolazione, mettiamo sparisce il barbiere non essendovi un numero di clienti congruo, è nelle cose, è una questione di economia di scala. Diminuendo i membri della comunità non si riescono a raggiungere le soglie ottimali per il funzionamento della scuola primaria, dello sportello bancario e così via. È questo oggigiorno, più che l’occupazione, il motivo per cui coloro che se lo possono permettere, il loro reddito lo consente, spostano la residenza dal paesello alla cittadina attratti dalle opportunità, educative, di fruizione del tempo libero, ecc. di cui godere. Si tratta del ceto medio le cui dimore paesane sono di un certo rilievo, di un qualche pregio e, oltretutto, abbastanza voluminose; allorché esse non sono più abitate esse giocoforza vanno in disuso e ciò determina un effetto di spaesamento, stiamo discutendo di paesi, per chi si trova a frequentare taluno dei tipici borghi molisani. In definitiva la chiusura di palazzi e palazzotti signorili e borghesi contribuisce non poco ad attribuire a quell’aggregato urbanistico l’immagine di villaggio-fantasma, di ghost-town.
3 - È stato doloroso emigrare ma anche restare
Diversi comuni molisani, prendi Boiano nella piazza all’ingresso di Civita Superiore, hanno dedicato un monumento all’Emigrante per ricordare gli sforzi e le sofferenze di quanti sono dovuti espatriare alla ricerca di migliori condizioni di vita. Non tutti coloro che sono emigrati hanno, di certo, “fatto fortuna”, ma tutti, comunque, hanno trovato quella sistemazione lavorativa, che in patria era difficile trovare, nelle terre di espatrio con un conseguente qualche benessere economico. Il sacrificio compiuto di dover lasciare il borgo natio è stato bene o male ricompensato, ne è valsa, autenticamente, la pena. Ognuno di noi prova commiserazione per quelli che sono andati via, nessuno per chi è rimasto in paese dove, anche a causa dello spopolamento prodotto dall’emigrazione, la qualità dell’esistenza si è abbassata; se, da un lato, quella dei migranti è migliorata, dall’altro lato, quella dei “restanti” è peggiorata. Specie abitativamente parlando. Non si può abitare in mezzo alle macerie e così diversi centri storici sono stati definitivamente abbandonati, come è successo per porzioni di quelli di Macchiagodena e Cercepiccola. La nostalgia del bel tempo che fu non è appannaggio esclusivo di chi ha lasciato la casa avita la quale continua a rivivere solo nei ricordi perché lo è pure nell’animo di chi è rimasto. Quest’ultimo si trova ormai spaesato nel proprio paese, quasi una contraddizione in termini; egli ha perso amici, famigliari e conoscenti ormai trasferiti altrove e soprattutto per ciò che qui ci interessa i vicini di casa, le case dei quali chiudendosi e non essendo oggetto di manutenzione si deteriorano e insieme ad esse si degrada il vicinato. Ovviamente tale sentimento di malinconia è avvertito da persone avanti con gli anni, non dai giovani non avendo vissuto la stagione precedente alle grandi ondate migratorie degli anni ’50-’60 quando l’abitato era ancora vivo; pertanto per questi la spinta al recupero del centro storico che pure c’è non è legato alla rinascita delle tradizioni paesane, alla ripresa di modi di vita tipici, non c’è, in definitiva, niente di nostalgico nel loro sentire l’eredità architettonica e urbanistica. Piuttosto la voglia di recuperare il borgo è connessa ad una ricerca d’identità che significa anche un certo modo di abitare il quale si invera nella forma dell’ambiente costruito. È una situazione drammatica che rischia di far perdere la coscienza di sé agli individui poiché siamo di fronte alla dissoluzione in corso di una certa civiltà, alla fine di un mondo, non di un singolo borgo.
È bene precisare che non bisogna assolutamente confondere i valori identitari con quelli etnici come dimostra l’attaccamento al proprio paese da parte tanto di coloro che appartengono a ceppi famigliari radicati in quel luogo da tempo immemore quanto dai componenti di famiglie che si sono ivi stabilite soltanto da qualche generazione. Sono nati diversi musei del folklore, il primo in assoluto è stato quello di S. Pietro Avellana per rinsaldare la memoria specialmente di quelli che continuano ad abitare la nostra terra, i quali, quindi, possono avere una frequentazione non occasionale, perché di fronte ai radicali mutamenti in atto nella società contemporanea corrono anch’essi il pericolo, non solo quanti emigrano, di allentamento dei legami con le civilizzazioni del passato: non unicamente chi viaggia bensì pure chi resta fermo si rende conto di essere diventato un “senza patria”. Detto diversamente oltre alle persone che si sono fisicamente allontanate recandosi altrove anche coloro che non si sono mossi da qui sono minacciati dal perdere la memoria del passato a causa delle trasformazioni subite dal contesto esistenziale. Se all’inizio era coraggioso colui che partiva, lasciare il noto per andare incontro all’ignoto, oggi è quasi un atto di coraggio il restare per le condizioni di abbandono, al limite dell’invivibilità, in cui versano le piccole realtà comunali. L’ignoto ai tempi odierni è il futuro degli insediamenti minori, il noto è la garanzia di veder assicurati servizi di cittadinanza primari negli insediamenti maggiori, dalle scuole ai presidi sanitari fino al collegamento a internet. È significativo che le cosiddette badanti siano restie a prestare la loro preziosa opera nei minuscoli agglomerati. L’organizzazione civile appare sempre più urbanocentrica anche a scala regionale dove si registra accanto alla migrazione esterna quella interna con il travaso di cittadini dai comuni al disotto dei 5.000 abitanti, i Piccoli Comuni, a quelli al di sopra di tale soglia.
A proposito della demografia si ritiene che a dover preoccupare è accanto al decremento complessivo della popolazione della regione la quale ha raggiunto il suo minimo storico, siamo meno di 300.000 abitanti, la riduzione ai minimi termini della base demografica delle entità insediative minori. Di sicuro lasciare la casa di paese per andare a vivere in un appartamento di città nella medesima provincia non è la stessa cosa che la fuoriuscita dal territorio nazionale, un qualche legame continua a persistere, la frequentazione dei parenti rimasti in loco, le feste padronali e in ultimo, letteralmente, la sepoltura con i cimiteri che si ingrandiscono malgrado i comuni si rimpiccioliscono. I “rimanenti” sono lieti di accogliere nel periodo estivo i “fuoriusciti” che rivitalizzano seppure per un lasso di tempo contenuto il paese, i “forestieri” poi manutengono le case di famiglia diventate “seconde case”, due benefici non da poco. Per alcuni l’allontanamento dal luogo natio non è stato un obbligo, ma una scelta, un gesto per così dire estremo per sfuggire ad una situazione culturale di arretratezza, dominata dal patriarcalismo e dal conservatorismo nei costumi. C’è stata la voglia di reinventare la propria esistenza in un, alla lettera, Nuovo Mondo. All’epoca apparvero quali decisioni financo temerarie in quanto la propensione alla mobilità della gente di prima era davvero limitata. Erano pochissimi i contadini delle “aree interne” ad aver visto il mare e ora, addirittura, lo oltrepassavano per andare nelle “americhe”, c’era scarsa disponibilità al viaggiare eppure lo hanno fatto in molti.
4 - La modernizzazione mancata dei piccoli comuni
Nei piccoli centri come nella zona storica dei principali agglomerati urbani del Molise, l’anziano seduto al sole o all’interno di un bar intento a giocare a carte era, ed è, in effetti, ancora, una figura caratteristica. Il paese o il quartiere erano considerati dal vecchio quasi come il prolungamento della propria residenza, mentre il giovane lo sente con insofferenza, come un recinto da sorpassare. Due universi assai distanti fra loro, due mentalità completamente diverse, stavamo negli anni dell’affermazione della cultura pop che aveva pervaso il mondo giovanile. I modelli di vita trasmessi dalla tradizione, dalla religione, da certa retorica politica avevano contribuito a configurare un ambiente sociale stabile ma chiuso che si identificava, per successive gerarchie, nella famiglia patriarcale, nel vicinato del paese. Quest’ultimo era un microcosmo dove tutto diventa una consuetudine: la visita ai vicini, le chiacchiere scambiate al caffè, i pettegolezzi delle comari. Angoli di strada, ingressi delle botteghe, negozi, slarghi erano volta per volta punti di riferimento nelle attività quotidiane, fulcri di aggregazione per la comunità determinati spesso semplicemente dall’abitudine.
L’accelerazione impressa ai modi di vita a partire dal periodo del boom economico ha provocato l’omogeneizzazione in una unica scala di valori di spazio e di tempo; si ha così una rapida circolazione di cose e di uomini attraverso moderne infrastrutture viabilistiche e nuove tecnologie di trasporto, i sofisticati mezzi di comunicazione di massa, ecc. A farne le spese è stata l’integrazione comunitaria che era un carattere saliente dei borghi, il concetto usuale di famiglia. Risvolti sicuramente positivi ve ne sono stati, ad esempio quelli dell’allentamento del controllo sociale, l’emancipazione femminile. Inoltre, attraverso l’intensificazione dei contatti e la trasmissione delle informazioni anche l’abitante del piccolo sperduto paese molisano viene a far parte di un più ampio consesso umano, perlomeno della comunità nazionale. Questi sconvolgimenti epocali con la conseguente modernizzazione della società contribuendo a seppellire definitivamente il “piccolo mondo antico” sono arrivati, purtroppo troppo, è proprio il caso, tardi. Le prospettive di un futuro annunciato differente, i fermenti di cambiamento della civiltà che erano nell’aria sono rimasti sospesi, appunto, in aria, non sono calati a terra, non hanno dato luogo a trasformazioni della realtà tanto era diventata rarefatta nei decenni del Miracolo Italiano la popolazione a causa dell’ondata migratoria che al volgere della metà del XX secolo decimò il numero di abitanti del Molise. Mancava quella massa critica di persone necessarie per poter recepire le novità della modernità, le innovazioni comparse all’orizzonte in molteplici campi, da quello della mobilità a quello del sistema produttivo. La comunità locale sguarnita ormai di tanti suoi componenti non fu capace di reggere la sfida con la contemporaneità, in qualche modo, sempre metaforicamente, si arrese spingendo una parte dei suoi membri alla “fuga”, cioè ad emigrare, non essendo dato il potersi, sempre la metafora, ritirare perché alle spalle il vecchio mondo era in rovina, ti sarebbe crollato addosso. La struttura socio-economica nostrana dell’epoca non fu capace di tenere il passo, anche perché il ritmo era sostenuto, difficile da reggere, dei rivolgimenti in atto a livello della stessa civilizzazione.
I sopravvissuti alla “moria” di popolazione dovuta ai movimenti migratori non potevano, certo, far fronte, fatti visti in una logica difensiva, oppure di affrontare, adesso visti in una logica offensiva, il nuovo che avanza, insomma non erano nella facoltà di sapersi adeguare ai tempi moderni. Le cose così come le idee camminano sulle gambe delle persone, se queste ultime sono in quantità esigue, detto con il linguaggio degli economisti se le risorse umane sono così scarse è arduo far muovere, mettere in moto, ci vuole chi le muova, le cose, modificare la realtà, procedere ai cambiamenti della situazione in atto, ma anche semplicemente a conservare lo status quo, si prenda il caso del patrimonio edilizio esistente che è ormai sovrabbondante rispetto ai bisogni.
Ritorniamo alla demografia: una conseguenza immediata, repentina dell’esodo “biblico” che interessò la nostra terra tra il ’51 e il ’71 fu l’invecchiamento subitaneo, per così dire precoce della base demografica. Al fenomeno dell’emigrazione con la fuoriuscita di persone alla ricerca di lavoro altrove prevalentemente appartenenti alla fascia di età procreativa si associa l’insenilimento della popolazione. Il Molise risultava in calo, agli ultimi posti tra le regioni italiane, per quanto riguarda il tasso di natalità, cosa conseguenza di cosa. Ad influire sull’incanutimento della composizione sociale vi è anche, in linea con una tendenza che si registra pure a livello nazionale, l’allungamento della durata media della vita. La migrazione dei residenti verso altre zone ha tolto alla regione non solamente l’incremento naturale, di regola, vale per tutti i popoli, i nati sono in numero superiore ai morti, ma ha prodotto qualcosa in più, qualcosa di più grave, cioè ridotti gli individui rientranti nella classe di età giovanile compromettendo così una dinamica demografica corretta. A lungo (lungo?) andare ci ritroveremo con centri in procinto di chiusura definitiva per l’allontanamento, che sta proseguendo, della gente del luogo dal luogo. Per quanto riguarda costoro, è doveroso sottolinearlo, andar via rappresenta oltre che la recisione delle radici, operazione la quale come qualsiasi taglio, questa volta con il passato, provoca molto dolore, la perdita di un bene primario, la casa, la casa di famiglia; l’abbandono del borgo porta con sé naturalmente la svalutazione economica degli immobili che contiene per i quali non c’è mercato, sono fuori mercato, tanto che diversi Comuni li hanno messi in vendita al prezzo simbolico di 1 euro. È un’iniziativa, se ne potrebbero mettere in campo altre, come pure si è fatto, le quali hanno in comune la caratteristica che sono azioni parziali, manca spesso un progetto organico di rivitalizzazione del borgo. Senza di questo appaiono quali tentativi dall’esito incerto tesi a prolungarne l’esistenza o meglio la sua sopravvivenza seppure in uno stato comatoso, accanimento terapeutico su un corpo agonizzante (vedi Vito Teti).
5 - Le differenti forme di migrazione
Lo spopolamento di un borgo può essere definitivo o momentaneo. Per quanto riguarda questa seconda tipologia di svuotamento del borgo si cita, interessa una parte del Molise oltre che dell’Abruzzo, la perdita di abitanti temporanea, stagionale, legata alla transumanza. Non solo di durata temporale limitata, ma anche parziale, non totale, perché riguarda solo la componente maschile della popolazione che è dedita alla pastorizia transumante. Le donne rimangono a casa non nel senso che si è abituati a intendere che la componente femminile si debba occupare esclusivamente delle faccende domestiche poiché le signore rimanendo in paese sono chiamate a svolgere non solo i lavori casalinghi bensì hanno pure il compito di effettuare quelle lavorazioni agricole, dunque uscire di casa, che è necessario siano eseguite durante il semestre in cui gli uomini stanno nel Tavoliere con le greggi. I padri partono, le madri con i figli minori no, permangono nei comuni altomolisani. Il depauperamento demografico connesso alla transumanza è ciclico, altro aggettivo che forse meglio di quelli usati sopra, cioè momentaneo e parziale, descrive questo fenomeno di decremento della popolazione. Ciclico è qualcosa di regolato, l’opposto di indisciplinato per quel che ci interessa, che si replica ogni anno da millenni, ben diverso, per capirci, dal nomadismo il quale, invece, assomiglia all’emigrazione che così duramente ha colpito e continua a colpire la nostra regione. Si tratta, infatti, di spostamenti di persone senza ritorno, cioè che abbandonano per sempre il luogo in cui stanno, anche se gli emigrati, a differenza dei nomadi, coltivano il sogno di prima o poi, rientrare nel comune di origine.
Vale la pena, poi, sottolineare una ulteriore differenza tra il nomade e l’emigrante la quale è che il primo si muove in gruppo, tutta la tribù, al contrario del secondo che lascia il centro natio per fatti suoi ovverosia individualmente o, tutt’al più, con il proprio nucleo famigliare. Abbiamo detto poco fa che il nomadismo è simile all’emigrazione, ma avremmo dovuto aggiungere in questa frase l’espressione “per certi versi”; li distingue anche il fatto, proseguendo nella ricerca delle cose dissimili, che i nomadi i quali abbiamo visto muoversi raggruppati, in gruppo, in gruppo raggiungono la destinazione che quindi è la medesima per tutti i membri del raggruppamento, del gruppo, agli antipodi, perciò, di ciò che avviene con gli emigranti i quali non hanno un punto di approdo unico. I transumanti sanno bene qual è la conclusione del loro cammino la quale è invariabilmente il Tavoliere. Detto in maniera diversa, non esiste per i nomadi una “terra promessa”, va bene qualunque area purché dotata di risorse sufficienti per la loro sopravvivenza, mentre gli emigranti sono suggestionati dall’American Dream il quale mito spinge loro a mettersi in viaggio. Per l’emigrazione è lecito parlare di diaspora il che significa dissolvimento della comunità e a tal proposito è opportuno far rilevare quanto sia immane lo sforzo di cui da decenni l’amministrazione regionale e quelle comunali si fanno carico di riannodare i rapporti con questa gente avente radici molisane dispersa in molteplici angoli del mondo con la speranza che essa possa contribuire alla rifunzionalizzazione dei borghi natii in stato di abbandono in senso turistico, meta se non di vacanza perlomeno di visita da parte dei discendenti degli emigrati. Di nuovo il confronto con i nomadi: i loro villaggi sono “costituzionalmente” precari poiché essi, data la permanenza per un tempo limitato in quel sito, non sono interessati a realizzare opere durature, viceversa i paesi di partenza dei flussi migratori sono stati concepiti quali insediamenti stabili, fissi, perenni. La migrazione della popolazione produce, anche in questo non ha nulla in comune con il nomadismo, il deterioramento progressivo del patrimonio edilizio tradizionale rimasto inoccupato, il quale è ovunque nel Molise di grande pregio, niente a che vedere con le capanne se non le tende degli accampamenti dei nomadi.
Nella esposizione condotta si è usato un mucchio di dicotomie, un artificio retorico che si usa per far risaltare le diversità tra le realtà, problematiche ecc. che si vanno a porre in comparazione e adesso ricapitoliamo tali coppie verbali: per quanto riguarda lo spopolamento momentaneo/definitivo e pure totale/parziale e ancora ciclico/una tantum mentre per gli spostamenti della popolazione le opposizioni regolato/indisciplinato, nomadismo/emigrazione. Una serie di dualità, che comunque non è completa, non è sufficiente per far risaltare le peculiarità dell’enorme problema della spoliazione di residenti subita a partire da un secolo fa dai nuclei abitativi nostrani, non conta se di piccola, media o grande taglia, ne manca una tra quelle sostanziali che è la contrapposizione centrale/periferico. Fino al XIX secolo il centro era costituito da quello che oggi è denominato centro storico e periferia era l’embrionale sviluppo urbanistico fuori le mura. In seguito la situazione si è ribaltata, è nella zona di espansione che vive la maggioranza dei residenti. La periferia diventa così il centro. La si potrebbe definire addirittura una migrazione a km 0 poiché la cittadinanza si trasferisce a breve distanza dall’agglomerato preesistente. Il chilometraggio aumenta quando diventa consistente il trend delle persone che dagli aggregati di età medioevale arroccati sul colle scende a valle; allora si è di fronte a “paesi doppi” con frazioni accresciute di molto che conservano nel nome il nome del nucleo originario con l’aggiunta dell’aggettivo “bassa”, vedi Roccaravindola Bassa, Rocchetta al V. Bassa e così via. Una emigrazione a cortissimo raggio. Ciò che tiene vivo il legame tra il nuovo e il vecchio paese sono i valori simbolici custoditi in seno all’abitato storico, prendi la Chiesa Madre con la statua del Santo Protettore.
6 - La vendita delle case dei borghi a 1 euro
Un solo euro per l’acquisto di una casa è certo un prezzo simbolico, ci saranno ragioni per aver stabilito questa cifra sulle quali non si vuole qui discutere, ma, di nuovo certo, viene da osservare che l’oggetto della compravendita non è un singolo immobile bensì un segmento, sia pur minuscolo, dell’abitato. Infatti l’edificio nei nostri centri storici non può essere scorporato dal suo intorno al quale risulta intimamente legato. Gli spazi esterni ad esso adiacenti, escludendo dal discorso i cortili e gli orti, hanno generalmente una duplicità di usi, uno di tipo pubblico in quanto aperti al passaggio di chiunque, uno di tipo privato, specie quando un percorso urbano si slabbra formando angoli morti, oppure in un crocevia, con i possessori delle abitazioni circostanti che lo occupano con panche, fisse, e sedili, mobili. In effetti, bastano i gradini di una scala esterna fungenti da sedute che su tale larghetto prospetta per trasformare un non-luogo, termine che definisce i posti privi di identità, in un luogo di notevole pregnanza in quanto punto di incontro. Queste parcelle di superficie comunale informi, non ci stiamo riferendo alle vere e proprie piazzette, costituiscono un po’ l’estensione dell’alloggio, la naturale prosecuzione della residenza, utilizzate come sono per il soggiorno all’aperto. La fruizione di tali slarghi, i quali non hanno un nome proprio nella toponomastica cittadina, da parte di più famiglie confinanti favorisce poi la coesione sociale, lo spirito comunitario.
È ciò che si è descritto il “vicinato”, l’unità minima che nelle teorie sulla pianificazione urbanistica precede il quartiere. È quest’ultimo il livello in cui gli urbanisti con un apposito piano particolareggiato stabiliscono la localizzazione delle “aree di interesse collettivo” che sono o diventano di proprietà demaniale, non più, cioè, aree destinate a uso misto pubblico-privato come nel vicinato, aree destinate ad un unico scopo, volta per volta mercato ambulante, piazza, parco, giardino, e non ad una pluralità di utilizzazioni cosa che succede nel vicinato. Non ci sarebbe bisogno di specificarlo eppure, per maggiore precisione, lo si fa lo stesso, stiamo parlando di aree scoperte. Nelle zone, Zone poiché stiamo trattando di urbanistica, l’abitare è meno gratificante che nelle zone antiche per tale separazione tipica della Zonizzazione. Nel vicinato le aree libere non sono un “vuoto” nel disegno di piano come succede per i PRG o i PDF, al contrario, almeno in passato, sono un “pieno”, pieno di gente che un tempo si riversava per strada, in particolare nella bella stagione. La compattezza degli abitati tradizionali, peraltro, avrebbe impedito di individuare particelle di terreno in cui ubicare le “attrezzature” per il gioco, per il riposo, ecc. all’aria aperta (ora sì per qualche demolizione di fabbricato a seguito di pericolo di crollo conseguenza dell’abbandono). Nel borgo medioevale vi sono opportunità di svago per i bambini e per gli anziani offerte da “ritagli” di suolo presenti nella maglia viaria; qui le aree dedicate, si fa per dire, al tempo libero sono integrate al tessuto residenziale, non sono fatti a se stanti, non sono distanti dall’uscio di casa, mentre nei quartieri moderni intercorre una distanza, più o meno grande, tra la porta dell’abitazione e gli spazi per il relax e il divertimento essendo raro che ve ne siano all’interno dei condomini a meno che essi non siano dei grandi ensemble di lecorbusiana memoria. Certo, è un intercalare frequente lo si sarà visto, l’operazione di “dismissione” di stabili a 1 euro, stiamo passando ad un altro aspetto, produce la svalutazione, non dal punto di vista della rendita catastale bensì del valore di mercato, della quota restante del patrimonio edilizio di quel paese. Nel modo di sentire comune si è di fronte ad una svalutazione. Ci sono complicazioni sentimentali in tale forte sottovalutazione del fabbricato perché è come se si disprezzassero i sacrifici compiuti dai nostri progenitori per realizzarli, la fatica che è in essi incorporata, sia che si tratti di autocostruzione sia non.
Esaurito il precedente argomento andiamo al successivo che è connesso con la questione del vicinato; avvertendo che, comunque, è sempre la faccenda delle case a 1 euro ad essere al centro del nostro argomentare. L’argomentazione che si propone all’attenzione è la seguente: ha poco senso recuperare un immobile se poi quelli circostanti rimangono abbandonati perché non riescono a trovare un acquirente, neanche a 1 euro. Forse sarebbe meglio vendere in blocco un certo numero di edifici raggruppati fra loro, un’intera isola urbana è la dimensione migliore, e non uno per uno stabilendo una premialità in termini di costo se li si compra tutti insieme. L’alloggio di cui un nucleo famigliare entra in possesso acquisterebbe maggior pregio economico in quanto si verrebbe a trovare inserito in un isolato “efficiente” poiché ristrutturato nel suo complesso. L’idea che qui si lancia non è finalizzata alla creazione di neocomunità formata da neomontanari, i nuovi arrivati che si insediano in questa parte del vecchio agglomerato, in sostituzione di quella preesistente, una tendenza che pure oggi esiste, vi sono molte esperienze in proposito, una rinascita dell’insediamento anche quale comunità di persone, ma che è estremamente pratica. Infatti, ad un tempo, porta valore aggiunto alla singola unità abitativa il suo inserimento in un contesto urbano compiuto il quale si traduce in un ambiente di vita soddisfacente/piacevole e permette l’esecuzione di interventi di consolidamento sismico tanto più efficaci se estesi al totale dell’aggregato edilizio di cui il fabbricato è parte, lo stabilisce, peraltro, la normativa tecnica vigente. L’obiezione di fondo che, certo ennesima ripetizione di questo vocabolo, è lecito muovere a tale “via” commerciale alla rivitalizzazione del centro storico, la vendita di case a 1 euro, è che alla predetta iniziativa si dovrebbe accompagnare, così come si fa in ogni settore del commercio, una campagna di marketing, marketing territoriale, per la ricerca dei potenziali clienti anche mettendosi in competizione con gli altri Comuni che hanno deciso di vendere le case a 1 euro.
7 - Il cohousing per recuperare i borghi
Le case dei ceti popolari ovunque e perciò anche negli aggregati storici costituiscono la maggioranza delle case. Partendo da questa premessa la quale contiene i due elementi sui quali verterà la nostra discussione, le abitazioni popolari e l’aggregazione delle stesse, procediamo a verificare se vi sono le condizioni per consentire di immaginare un futuro per il nostro patrimonio edilizio, in alternativa all’abbandono. La prospettiva più interessante per poter ridare vita ai borghi è legata all’applicazione della formula del co-housing e vediamo perché. Gli alloggi tradizionali hanno vari tagli con un numero ridotto di camere da letto e con, in genere, un grande spazio comune, un cucinone, e diversi accessori, il ripostiglio, la legnaia e, talvolta, la stalla e la bottega. Assemblando fra loro alcuni stabili tradizionali è possibile realizzare una abitazione o meglio coabitazione, traduzione dell’inglese cohousing, in cui, appunto, coabitano più nuclei familiari, compreso i single, che decidono di condividere la struttura. Vi sarà in tale unità abitativa una molteplicità di zone-notte tante quante sono le famiglie che aderiscono al cohousing mentre si sfrutterà in maniera congiunta la zona giorno. Tra gli stanzini di servizio da gestire insieme vi sono la lavanderia, il rimessaggio di biciclette e passeggini, la dispensa e così via. Nelle cellule minime si svolge la vita famigliare in senso stretto per cui accanto alle stanze da letto vi sarà un cucinino; la cucina vera e propria è collocata nell’area living ed è ad uso collettivo. Essa fungerà, fuori dall’orario dei pasti, da soggiorno dove potersi rilassare, scambiare quattro chiacchiere, leggere un libro. Ha una funzione aggregante, per i piccoli, pure l’ambiente per il gioco dei bambini, separato, per non impedire la concentrazione, da quello per lo studio dei ragazzi. Vi sono, le attività dopolavoristiche per gli adulti, gli hobby, ai quali vanno dedicati appositi angoli dell’organismo residenziale, lo si è detto non è un unico fabbricato bensì la sommatoria di varie fabbriche, in cui le persone, a loro volta, si dedicano, insieme oppure individualmente, al bricolage, alla pittura, questa di certo non a più mani, al modellismo e via dicendo. Non sono cose secondarie l’assecondare le proprie passioni, il coltivare i propri interessi specie se le si vede in proiezione di un futuro in cui si prevede l’aumento del tempo libero; di conseguenza neanche gli ambienti destinati a ciò sono spazi secondari. L’abilità del progettista dell’intervento di cohousing sarà quello di tenere in equilibrio l’esigenza di intimità e il bisogno di socialità ai quali deve soddisfare la dimora.
Nei centri storici la soluzione si trova già bella e pronta, in alcuni comparti urbanistici basta rendere intercomunicanti corpi di fabbrica adiacenti. Fondendo con il resto anche quelli monocellulari i quali pur se appaiono naturalmente predisposti a diventare miniappartamenti acquisterebbero di valore aggiunto se rientranti in un progetto di cohousing. Il cohousing è, in qualche modo, una destinazione obbligata per molti edifici degli insediamenti antichi, i quali immobili presi uno per uno non hanno, dal punto di vista dimensionale e neppure da quello distributivo, requisiti abitativi al passo con le esigenze alloggiative odierne e pertanto con l’azione di cohousing che prevede la compenetrazione tra entità immobiliari adiacenti si fa di necessità virtù. Si segnala, nel contempo segnalando che non è un mero inciso che tra gli “ingredienti” della “ricetta” dl cohousing, cioè tra i componenti dell’aggregazione di costruzioni da adibire a coabitazione, vi sono anche i piani terranei per i quali non era stata individuata alcuna ipotesi di riutilizzo effettivamente valida, essendo decaduti gli utilizzi originari di cantina, rimessa della legna, ricovero di attrezzi da lavoro, stalluccia per animali da cortile, negozio, per citarne alcuni. Il cohousing, in una visione allargata, letteralmente allargata nel senso che può arrivare a ricomprendere volumi non strettamente residenziali, è compatibile con lo svolgimento tanto del lavoro, dipendente, a distanza quanto del lavoro indipendente, cioè lo studio professionale attrezzato presso il proprio domicilio. Ancora in un’ottica ampliata, permessa dall’ampliamento della superficie della residenza, il cohousing è estensibile dalla sfera prettamente domestica fino a ricomprendere al suo interno un bed and breakfast, proprio come qualunque altra abitazione, è pur sempre una coabitazione. Le ultime due potenzialità del cohousing indicate sopra sono in linea con il concetto di casa che si va delineando oggi anche quale strumento di produzione del reddito. Del resto ciò accadeva pure in passato quando, per esempio, nelle medesime case per cui si ipotizza la rifunzionalizzazione a cohousing, la donna era occupata oltre che nelle faccende casalinghe nella tessitura della lana.
Non lo si è rimarcato all’inizio e perciò lo si fa ora giunti in prossimità della conclusione, non lo si può assolutamente non evidenziare, il cohousing giova, da un lato, allo sviluppo dei rapporti sociali, perlomeno interfamigliari, e, dall’altro lato, alla diminuzione della spesa per la casa, acquisto e cura, per unità famigliare essendovi lo sfruttamento di settori della coabitazione da parte di due o più famiglie e anche la compartecipazione economica alla sua gestione. Un primo post-scriptum: si esclude che per quanto riguarda le operazioni di cohousing da mettere in campo negli agglomerati del passato si possa arrivare facilmente alla fissazione di modelli da seguire talmente vasto è il campionario delle forme fisiche che qui si reinvengono tale da impedire esemplificazioni di sorta, da rendere vano lo sforzo di modellazione, di definizione di prototipi; le nostre realtà insediative nel corso di minimo un millennio di storia hanno subito modificazioni dell’organizzazione spaziale, gli isolati urbanistici risultano composti, scomposti e ricomposti nelle varie fasi della vita del borgo, gli organismi architettonici che ne costituiscono il tessuto presentano stratificazioni, non c’è un centro uguale all’altro. Un secondo post-scriptum che è sulla stessa traccia del primo: è cambiata la composizione della famiglia, il panorama delle unioni, di fatto o ufficiali, è diventato estremamente variegato per cui i coabitatori del cohousing sono i soggetti più diversi e ciò rende complicata l’ideazione della coabitazione e nessun manuale di architettura ti può essere da guida, fornirti schemi, formule-tipo.
8 - Cohousing e social housing nei centri storici
Il cohousing e il social housing hanno molto in comune. Ambedue sono imperniati sulla progettazione di abitazioni condivise da più persone, la differenza è che mentre il primo non specifica il tipo di occupanti delle medesime il secondo è rivolto a componenti della società con particolari problematiche, economiche, fisiche, lavorative, ecc. Entrambi, comunque, sono indirizzati a individui che accettano di buon grado di vivere in comune. Tutt’e due, ultima specificazione, si adattano bene alle strutture edilizie presenti nei borghi antichi, specie a quelle aggregate fra loro. Di seguito vediamo le peculiarità del social housing, in sigla sh. Una considerazione preliminare è quella relativa al mutamento in corso del fabbisogno abitativo. Nella nostra regione ben il 70% delle abitazioni di proprietà, tendenza questa del possesso della casa in cui si abita che oggi si va modificando. Le ragioni di tale trasformazione in atto nelle preferenze degli italiani nel titolo di godimento dell’alloggio i quali adesso cominciano ad accettare di vivere in affitto va cercata nella nuova configurazione del mercato del lavoro. L’occupazione sta diventando sempre più precaria e, richiede una disponibilità del lavoratore a spostare con una certa frequenza la residenza. La domanda di case deve seguire l’offerta di impiego, non siamo tuttora qui da noi in grado di ribaltare a nostro favore tale rapporto. È evidente che ci stiamo riferendo prevalentemente alle classi di età giovanili e non a coloro che sono in età senile.
Gli anziani sono cresciuti, o meglio invecchiati, con l’idea di dover essere proprietari di casa, quasi fosse un fattore identitario, ma sulle esigenze abitative delle persone in età, della “terza età”, parleremo dopo. Sicuramente ciò che si va affermando è la predisposizione verso gli alloggi piccoli, minimi per minimizzare i costi; ciò li rende alla portata delle tasche di chi ha un reddito non elevato, di chi è al primo impiego per cui non ha tanti soldi da parte, per chi è precario per cui ha difficoltà ad accedere ai prestiti bancari. La riduzione della taglia dell’appartamento nel sh così come nel ch viene compensato da una serie di spazi ad esso collegati da fruire con i “vicini di casa”, destinati a living, ripostiglio, lavanderia e così via. Caratterizzano, in maniera congiunta, il sh e il ch l’utilizzazione in maniera congiunta di parte della superficie della casa oltre alla flessibilità dell’alloggio. Per quanto riguarda quest’ultima vi sono diverse esperienze già effettuate. Negli Stati Uniti vi è la sperimentazione di “quartini”, contrazione di quartierini, sovradimensionati, sovrabbondanti rispetto alle necessità del momento della famiglia; l’eccedenza spaziale viene lasciata non rifinita fin quando, mettiamo per l’aumento dei figli della coppia, essa viene integrata nell’alloggio diventando una ulteriore stanza da letto. Una ricetta del genere può essere facilmente applicata in un isolato dell’insediamento storico in presenza di immobili abbandonati confinanti con quello che fa da perno al progetto di sh, immaginificamente quest’ultimo un “pieno”, pieno di abitatori, il quale progressivamente si estende inglobando i “vuoti”, i vani dell’edificio rimasto vuoto che lo fronteggia. L’alternativa al prolungamento della casa evidentemente c’è ed è razionale e, però, appare come un comportamento liquidatorio, quello di traslocare in un alloggio più capiente. È possibile anche il processo inverso nel qual caso il percorso sarebbe all’incontrario: riducendosi il numero dei membri del nucleo famigliare, ad esempio perché la prole va via alcune camere si rivelano superflue per cui potrebbero essere annesse all’abitazione adiacente in caso di bisogno. Le case si dovrebbero poter sdoppiare, in un monolocale e un bi o tri-locale per esempio o altre soluzioni compatibili con le dimensioni della stessa. È utile ricordare che non siamo di fronte con il sh a novità assolute, le prime avvisaglie di modalità di accrescimento della casa risalgono al secolo scorso. A quel tempo le addizioni volumetriche ai volumi esistenti consistevano in piccolissimi corpi di fabbrica collocati sui balconi adibiti a servizi igienici, ricovero della caldaia dell’impianto di riscaldamento, armadio-dispensa fino al retrocucina. Siamo di fronte oltre che a spazi accessori a volte anche a incrementi della superficie abitabile con la realizzazione di verande pensili. La giustapposizione di manufatti, non importa se stabili o mobili, alla facciata turba l’aspetto estetico della costruzione e quindi è qualcosa impossibile da fare nei centri storici; oggi che è cresciuta la sensibilità ambientale si impone la loro eliminazione.
Un'altra azione in verità meno consueta, anche se più organica cui si è proceduto in passato è quella della costruzione di ballatoi accessibili da scale esterne all’organismo edilizio i quali fungono da elementi distributivi degli ambienti interni, una sorta di corridoi scoperti a fianco al fabbricato; ovviamente è una risoluzione al problema della teoria di stanze passanti, l’una nell’altra, tipica delle architetture tradizionali applicabile solamente alle case unifamiliari. Siamo infine all’annunciata questione della situazione alloggiativa delle persone in anni la quale, sinteticamente, è legittimo ripartire in due distinte questioni, da una parte la convivenza forzata con la badante garantendo all’anziano un certo grado di privacy e, dall’altra parte il superamento delle barriere architettoniche, obiettivo che ha superiori difficoltà di essere raggiunto negli stabili datati in cui gli alloggi si articolano su più livelli. È un particolare caso quello della casa, non è il femminile di caso, ma non è opportuno scherzare perché è una questione di grande rilevanza sociale, degli anziani ovvero del segmento della popolazione più fragile, meritevole di più attenzione; per essi il modello residenziale del social housing sembra quello maggiormente indicato, stando anche al termine social il quale significa socialità, quella di cui gli anziani hanno tanto bisogno.
9 - L'identità del borgo
L’abbandono in corso è ormai un vero e proprio marchio di autenticità per un borgo, ciò che lo caratterizza. Qualcosa che ne accresce la riconoscibilità. Senza arrivare ad essere un paese fantasma, prendi Craco in Calabria, né una nuova piccola Pompei la condizione di abbandono è frequente tra i centri minori molisani. È un autentico connotato distintivo di quegli insediamenti che chiamiamo borghi, esso non fa perdere loro di attrattività, strano ma vero. I villaggi, da ora in poi li chiameremo così, sono le emergenze più significative del patrimonio ambientale molisano, gli episodi più rilevanti, addirittura un fattore identitario, per il forte legame che istituiscono con il paesaggio a sua volta il bene primario del Molise, cosa che le città allargatesi in modo abnorme hanno perso. I villaggi rappresentano gli elementi più rilevanti dei quadri panoramici, si integrano perfettamente ai contesti paesaggistici e non deve apparire un’affermazione paradossale che essi acquisiscono un fascino superiore dalla situazione di abbandono, in fieri, in cui versano. Può sembrare una contraddizione in termini il fatto che bellezza e decadimento si associno l’una all’altro, due termini che si fa fatica a credere possano stare bene insieme, normalmente li si ritengono incompatibili fra loro, non, però, a ben pensarci, per la figura umana in cui il volto incrementa la sua avvenenza se porta impressi, o meglio se non li nasconde, i segni di una vita vissuta con le sue tribolazioni.
La crisi di tali nuclei urbani minimi rimanda alla crisi che ha investito la civiltà tradizionale, la fine di un mondo che ci è appartenuto il quale ancora ci commuove. Il depauperamento demografico dei villaggi ci sollecita riflessioni sull’emigrazione e sulla scomparsa delle attività economiche tipiche del passato, tutte cose che ci procurano emozione. Si tratta di uno sconvolgimento epocale lo svuotamento dei piccoli comuni dove prima viveva, e ha vissuto per molti secoli, la maggioranza della popolazione molisana; si è verificato un autentico “capovolgimento di fronte” nella distribuzione delle sedi insediative con gli abitanti, quelli che sono restati, che ora risiedono nelle unità urbanistiche più grandi a seguito del processo di inurbamento. C’è chi pensa che la visione che si debba offrire ai visitatori è quella “pacificata” di villaggi semi-bucolici, minimizzando, se non occultando, almeno nei depliant propagandistici, il deterioramento, fisico e antropico, che stanno subendo questi minuscoli aggregati edilizi a causa dello spopolamento e con essi si ottiene una perdita di senso. Nell’immaginario collettivo si tende a collocare i villaggi in un inesistente Eden, per i forestieri diventano una meta turistica esotica. Dei luoghi, sempre i villaggi, talmente diversi dai quartieri residenziali contemporanei che finiscono per suscitare nei visitatori stupore un po’ come succedeva ai viaggiatori europei di fronte alle società etnografiche nelle prime esplorazioni extracontinentali.
Si guarda il villaggio avendo in mente un tipo astratto di villaggio, non si osserva il caso concreto, il villaggio, cioè, viene mitizzato. È un atteggiamento non condivisibile quello della creazione di un’immagine ideale del villaggio, non è possibile ricondurre ad una forma definita la pluralità di tipologie di villaggio che costellano il territorio regionale. Già questo, la pluralità, basterebbe a smentire l’equiparazione del borgo a un Paradiso, terrestre o celeste che sia, il quale è un luogo che si declina al singolare, non al plurale. La parte conclusiva di questo intervento, esaurite le considerazioni generali espresse fin qui e nel contempo la vena polemista che ha informato l’esposizione condotta in precedenza riguarda l’analisi delle specificità nella vasta congerie dei villaggi. Ciò in linea con la tesi che non c’è una categoria unica capace di ricomprendere ogni singolo villaggio, di racchiudere il loro insieme. Cambia il tono, non il tema che è quello da cui abbiamo iniziato, l’abbandono (questo e non altro per economicità di discorso). Escludendo dal novero dei casi i paesi totalmente abbandonati, uno solo in verità e peraltro per causa di forza maggiore, la frana, che è Rocchetta Alta, abbiamo villaggi abbandonati per zone, Cercepiccola e Limosano per citarne due, e quelli che presentano una distribuzione random di case in degrado e sono una moltitudine. Un fenomeno non isolato è quello del trasferimento parziale a valle in un nuovo sito, degli abitanti di agglomerati di altura che dà vita a paesi-doppi, prendi Roccaravindola Alta e Bassa, Roccapipirozzi Alta e Bassa, il toponimo docet. È interessante tale casistica perché dimostra come vedremo che l’abbandono investe sia nuovi che vecchi centri. L’insediamento che si sviluppa in piano diventa progressivamente più consistente demograficamente parlando di quello a monte arrivando addirittura al paradosso che il “borgo” che era capoluogo di Comune ne diventi una “borgata”. Quest’ultima fattispecie ha riguardato S. Angelo in Grotte in cui un tempo vi era la sede municipale e che in seguito è diventato una semplice frazione di S. Maria del Molise, prima borgata; gli abitanti dei due distinti nuclei ora si percepiscono diversi gli uni dagli altri e non una stessa comunità. Oggi si registra un abbandono in atto anche nei centri originatisi per “partenogenesi”. Al di là degli sdoppiamenti notiamo che la diffusione di nuove casette nell’agro fa perdere alla generalità dei paesi la somiglianza con il presepe che è, poi, l’immagine iconica utilizzata nella pubblicità turistica.
10 - I borghi-doppi
Civitanova è emblematica di un fenomeno che ha riguardato diversi Comuni nel Molise, quello del trasferimento di parte della popolazione di un abitato dall’insediamento originario in cui vivevano. Infatti, i suoi abitanti un tempo dovevano risiedere a Duronia, la quale fino al XIX secolo si chiamava Civitavecchia, in contrapposizione, appunto, a Civitanova. La compresenza di questi due toponimi deve essere legata ad uno sdoppiamento della comunità, piuttosto che alla sua migrazione in un differente luogo, in quanto paesi tuttora coesistenti. La ragione può essere quella della insufficienza di spazio per l’espansione dell’agglomerato edilizio, magari perché collocato, a scopo difensivo, su un’emergenza rocciosa circondata da pareti scoscese (su un lato Duronia è tangente al tratturo sul quale, è ovvio, non si poteva costruire).
Civitanova è esemplare anche per un ulteriore aspetto, questo relativo ad una pluralità di siti insediativi all’interno del medesimo territorio comunale, che si aggiunge a quello della duplicazione dei nuclei abitativi descritto prima; nel suo perimetro amministrativo troviamo il nome di due località, l’una denominata Terravecchia, l’altra Civita, ambedue disabitate (l’unica traccia di una sede umana in epoche antiche è la torre che sta nella prima) e, perciò, a differenza di quanto abbiamo fatto parlando di Duronia, non possiamo dire che si tratta di gemmazione da un nucleo iniziale con il termine usato in precedenza duplicazione che ora sarebbe quadruplicazione, ma di traslazione dell’insieme residenziale. Si evidenzia, per quanto può valere, che Terravecchia e Civitavecchia sono sinonimi e che entrambe le presenze di tipo archeologico civitanovesi sono poste in ambienti inospitali, la Civita in altura e Terravecchia nel fondovalle. Così esplicitamente, cioè salvo Civitanova e Duronia, non si trovano entità urbanistiche discendenti la prima dalla seconda nella nostra regione, essendovi solo Castelnuovo, qualcosa in più di una frazione, che deve derivare da Scapoli, il capoluogo comunale; una precisazione doverosa è che la denominazione civita rivela un’origine più remota di castello con l’incastellamento risalente ai Normanni. Finora abbiamo osservato la successione temporale delle realtà urbane e non quella geografica; adottando tale punto di vista si coglie una tendenza di una certa consistenza dello slittamento a valle dell’urbanizzazione, specie se nel piano passa una importante via di comunicazione. Non è un processo iniziato oggi, bensì in corso da tempo. Esso è denunciato pure dalla terminologia impiegata per distinguere gli aggregati aggiungendo l’aggettivo alto o basso a seconda se è quello che sta sul rilievo o se sta nella vallata sottostante. Abbiamo Rocchetta Alta (ormai a rudere) e Bassa, Roccapipirozzi Alta e Bassa, Roccaravindola Alta e Bassa, con la sottolineatura della strana coincidenza che tutti e tre gli episodi riguardano strutture insediative denominate rocca, vocabolo da cui discende arroccamento, cioè il collocarsi in una posizione inespugnabile. Sia Roccapipirozzi, sia Roccaravindola sono ufficialmente delle borgate, non, dunque, borghi (non rientrano, pertanto, fra i 136 borghi molisani), rispettivamente di Sesto Campano e di Montaquila, nei quali, a loro volta, sono presenti dei corposi raggruppamenti di case, filiazioni avvenute nella zona sottostante (invece Roccapipirozzi e Roccaravindola sono completamente indipendenti, pure come storia feudale) che sono Taverna a Sesto e Masserie la Corte a Montaquila, autentici centri doppi. Nessuno dei casi di sdoppiamento enumerati, comunque, ha dato vita a enti locali a sé stanti, a differenza di quanto è successo a Civitanova e Duronia. Alto e Superiore significano la stessa cosa: una replica del rapporto tra polo urbano di sotto e di sopra è quello di Boiano dove c’è Civita Superiore.
Ciò che distingue la “capitale” del Matese è che qui viene prima la città di pianura, municipio romano, e poi il villaggio in quota sorto intorno a un maniero longobardo. C’è da introdurre il tema generale che caratterizza il sistema insediativo regionale in senso diacronico che è quello della giustapposizione delle fasi, ancora insediative, e non della sovrapposizione, quindi della stratificazione del costruito di età successive su quello preesistente, come accade altrove. Lo si coglie bene a Sepino per la compresenza di tre fatti urbani distinti, Altilia nella fascia pianeggiante, Terravecchia sul monte, e l’attuale cittadina che è in collina, realizzati in momenti storici separati, in ordine, quello della dominazione di Roma, quello sannitico e quello medioevale con, peraltro, un andamento ondivago per cui dalla fortificazione dei Sanniti che è in altitudine ci si sposta nella piana ad opera dei Romani per, infine, tornare sulle pendici della montagna, ma ad altezza minore di quella di Terravecchia; in comune i tre nuclei hanno la radice del nome che è saepio (cingere in latino) perché quello romano si chiamava Saepinum, quello italico Saipins, in lingua osca, e, dunque, Sepino dei nostri giorni. Ci sono, inoltre, comuni formati da più parti differenziate in quanto a periodo di fondazione che stanno affiancate spalla a spalla non distanziate territorialmente: S. Biase è la somma di Borgo Slavo e Borgo Croce, che convivono fianco a fianco e forse in passato accettandosi con reciproca diffidenza a causa dell’etnia (gli slavi sono concentrati in una precisa area sub-regionale loro assegnata con scarsi contatti con gli indigeni per cui S. Biase rappresenta un’anomalia). A Campobasso c’è l’ottocentesco Borgo Murattiano che sorge fuori le mura senza alcun distanziamento dall’abitato primitivo. Distingue S. Maria del Molise il suo essere assurta a capoluogo comunale, pur essendo nata quale semplice contrada, sostituendosi in questo ruolo a S. Angelo in Grotte nel quale fino agli inizi del ‘900 era stabilito il Comune. L’intero escursus compiuto ha riguardato la separazione tra realtà insediative e, in conclusione, quasi a bilanciamento si cita un episodio di unificazione che, però, era nei fatti in quanto fisicamente accostati, Castellone e S. Vincenzo al Volturno.
11 - I servizi alla collettività
Si parla di città di 15 minuti e forse è improprio quello che si sta per fare, cioè trasferire alcuni dei concetti che ispirano questa proposta anche ai piccoli comuni, ma noi ci proveremo. C’è qualcosa, qualcosa di sostanziale, che hanno in comune gli abitanti degli insediamenti maggiori e di quelli minori ed è l’esigenza di avere a portata di mano i servizi di utilità collettiva. A questo riguardo è evidente che siano più fortunati gli abitanti delle entità cittadine perché qui le attrezzature civiche sono accessibili con percorsi di lunghezza limitata, al contrario è penalizzato chi vive nei borghi per via dell’assenza all’interno di questi financo di alcune elementari funzioni urbane in tanti casi, prendi le scuole le quali vengono accorpate a scala comprensoriale. Non si sono citati a caso gli istituti scolastici in quanto non per caso essi, le sedi dell’istruzione primaria e secondaria di I grado, costituiscono il punto focale, anche dal punto di vista topografico, delle Unità di Vicinato teorizzate dagli urbanisti del XX secolo le quali, in effetti, costituiscono dei quartieri a 15 minuti ante litteram. La differenza tra le zone urbane a 15 minuti e le Unità di Vicinato è che le prime sono da individuarsi in seno alle città esistenti, un riattamento della configurazione assunta dall’abitato, mentre le seconde sono da prevedersi nel momento della redazione del Piano Particolareggiato per gli ambiti di espansione residenziale, quindi per aree edificabili ancora “vergini”, ovverosia per le new town, città nuove.
I quartieri a 15 minuti sono da concepirsi dentro la trama urbanistica in essere pressoché cristallizzata, magari adottando le metodologie, di cui si sta cominciando a discutere concretamente, della “rigenerazione urbana”. La formula della città in un quarto d’ora non ha senso tanto per le realtà insediative grandi quanto per quelle piccole, è opportuno evidenziarlo, per quanto riguarda i servizi commerciali. Per via della situazione attuale di questo settore dominato dall’e-commerce i negozi di quartiere stanno perdendo ragion d’essere e con essi si perde la vivacità dei percorsi stradali su cui sono installati rendendo meno piacevole la frequentazione di tali luoghi, si sta pensando ai centri maggiori dove vi sono le cosiddette vie dello shopping. Ci sono conseguenze sulla vita di quartiere per gli incontri che avvengono lungo tali strade tra persone intente a fare la spesa (purché non abbiano fretta), rappresentando così esse momenti di coesione sociale. È vero che con gli acquisti on line si risparmia e ciò è un beneficio significativo per le famiglie con reddito basso e, però, si sottraggono risorse economiche alla comunità traducendosi pure in diminuzione dei posti di lavoro, in primis degli addetti al commercio, a vantaggio di aziende internazionali le quali non restituiscono nulla al territorio, neanche in termini di fiscalità. Dall’esplosione di tale fenomeno ne deriva comunque qualcosa di positivo, anche se al ribasso, che è il riequilibrio delle opportunità tra chi sta in un paese e chi invece vive in un’area cittadina, ambedue potendo usufruire alla stessa maniera della comodità di ricevere a casa i beni acquistati sulle piattaforme internet dedicate. Non è, pertanto, la presenza di negozi a spingere a trasferirsi in città, almeno questo! Certo, l’e-commerce non potrà mai sostituire la distribuzione al banco dei prodotti freschi, dalla carne da taglio all’ortofrutta. Si tende tanto al cibo a km. 0 sia per la garanzia di freschezza degli alimenti sia per ridurre i consumi di carburante e quindi le emissioni nocive in atmosfera prodotte dai furgoni che trasportano le merci e, ciononostante, non si fa molto per sostenere i generi alimentari del posto, vedi i ritardi nel rilancio del Mercato Coperto a Campobasso. Non vi sono più entità urbane che si approvvigionano per i loro consumi alimentari con un’agricoltura a corto raggio; il rapporto diretto produttore-consumatore con la vendita, appunto, diretta da parte dell’agricoltore delle sue produzioni andrebbe favorito e anche questo rientra nell’ottica degli insediamenti a 15 minuti. L’autoconsumo, ad esempio degli ortaggi, è praticabile nelle case con giardino il quale ultimo non va visto solo quale spazio ricreativo bensì pure quale superficie produttiva: è una tipologia di lotto edilizio maggiormente praticabile nei centri < 5000 abitanti poiché nelle villette suburbane dei centri con popolazione > 5000 abitanti il giardino è piuttosto un giardinetto dato il superiore valore del terreno in tali centri.
È vantaggioso per quest’aspetto risiedere nei borghi piuttosto che in città e anche ciò favorisce la costituzione di un insediamento di 15 minuti. Gli spostamenti che vanno contenuti nell’arco del quarto d’ora non sono solamente quelli diretti verso i punti dell’abitato in cui si svolgono attività sociali, ricreative, culturali, amministrative, legate all’educazione dei ragazzi e così via poiché dovrebbero ricomprendere pure quelli che hanno quale destinazione i posti di lavoro. Lo si sarà capito, ora si vuole trattare il tema del lavoro pendolare. È in tempi recenti che si afferma il pendolarismo, prima non era immaginabile per via delle difficoltà nelle comunicazioni. Vivere in una località e lavorare in un’altra oggi è abbastanza normale e tale condizione viene accettata abitualmente purché il tempo di trasporto non superi la mezz’ora per andare (e altrettanti, è ovvio, per tornare) molto di più dei 15 minuti della magica “ricetta” in argomento. Con il lockdown si è sperimentato lo smartworking una modalità lavorativa che andrebbe incentivata nell’ottica della città a 15 minuti, imponendo il ritorno degli impiegati negli uffici esclusivamente se essenziale per il funzionamento della macchina amministrativa.