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7 - Il futuro della città

Il destino di Campobasso va cercato nel suo rapporto con il territorio circostante. È, del resto, quanto connota la storia di questa città che deve il suo sviluppo proprio alla collocazione geografica, prima per essere al centro della rete tratturale, nel punto intermedio della transumanza che si svolgeva tra le montagne abruzzesi e le pianure pugliesi, e dopo per il trovarsi nel baricentro del Molise, una volta istituita la provincia. Oggi il capoluogo regionale viene considerato posto, ancora nel luogo mediano, lungo la principale direttrice di sviluppo della regione, quella che da Venafro porta ad Isernia e, poi, passando per Boiano, a Campobasso per concludersi a Termoli; in tale asse è insediata una larga parte della popolazione molisana e sono collocate le principali attività produttive. Si tratta di quella che un tempo si definiva un’«area forte» che si contrapponeva alle «aree deboli», in seguito qui da noi denominate «aree interne». Per zone simili nelle politiche europee della nuova programmazione comunitaria l’obiettivo da perseguire è quello della «competitività», cioè della sfida in termini economici con altri territori, mentre negli ambiti in ritardo di sviluppo bisogna puntare alla «convergenza», ovvero alla «coesione», al mantenimento, in altri termini, della situazione attuale frenando ulteriore esodo di popolazione e di posti di lavoro.

Con la realizzazione dell’autostrada, il cui tracciato rientra in questa fascia più avanzata, il divario tra le zone ricche e le zone povere rischia di accentuarsi, a meno che non si è capaci di determinare effetti diffusivi. Campobasso può avere proprio questo compito, potendo offrire servizi avanzati tanto alle imprese industriali quanto alle iniziative imprenditoriali nel campo dell’agricoltura tipica, dell’artigianato tradizionale e del turismo culturale. In effetti, ciò, da un lato, sembra essere una scelta obbligata per la nostra città e, dall’altro, la sua prospettiva naturale trattandosi di un centro urbano situato in altura dove non vi sono condizioni localizzative soddisfacenti per le industrie, ma che, come in genere le zone collinari, presenta una elevata qualità paesaggistica e un notevole patrimonio storico (il castello Monforte, le chiese romaniche, ecc.). Ponendo la questione in termini diversi si può dire che quello che potrebbe apparire uno svantaggio, la morfologia dei luoghi e l’attuale condizione di isolamento costituisce, in realtà, una opportunità permettendo di immaginare uno sviluppo legato alla valorizzazione delle risorse ambientali. Queste ultime sono il presupposto non solo per incrementare i flussi turistici, ma pure per garantire una migliore qualità della vita al fine, anche, di attrarre quelle persone di un certo livello culturale, per lo più giovani, interessate ad un contesto abitativo stimolante. Imprenditori, artisti, ricercatori, professionisti nel settore della conoscenza sono alla ricerca di un ambiente urbano vivo, denso di opportunità ricreative e culturali: in questa direzione vanno il rilancio del teatro Savoia, la ristrutturazione del complesso fieristico di Selva Piana che ora ospita la Cittadella della Scienza e dell’Economia, l’ampliamento della Biblioteca Provinciale la cui progettazione viene finanziata dal Ministero per i Beni Culturali con i fondi del programma Sensi Contemporanei, il restauro dell’ex caserma dei pompieri a via Mons. Bologna per adattarla a Incubatore d’Impresa.

Se si vuole incentivare la presenza di forza lavoro giovane qualificata in città occorre assicurare occasioni di formazione di alto livello e queste non mancano, dall’Università al Conservatorio musicale, una larga gamma di servizi avanzati e la disponibilità di alloggi di taglia adeguata. Per quanto riguarda le abitazioni a Campobasso la proprietà della casa è una tendenza diffusa e il parco immobiliare disponibile per l’affitto è scarso; si registra il fenomeno della redistribuzione della domanda residenziale in un ambito intercomunale che comprende Vinchiaturo, Ripalimosani, Campodipietra, ecc. essendo satura l’offerta di appartamenti nel capoluogo nonostante ci siano molti alloggi non occupati nel centro storico che, invece, potrebbero essere utilizzati da coppie di nuova formazione e di giovani. Quando si pensa all’edilizia nel nostro centro la si considera esclusivamente come un comparto produttivo capace di trainare l’economia cittadina e non come un settore funzionale al rafforzamento dell’armatura urbana. Le grandi operazioni immobiliari attualmente in corso, a cominciare dalla “città nella città” di corso Bucci, quale effetto positivo hanno quello del rilancio economico, ma hanno poco a che vedere con strategie urbanistiche di qualsiasi tipo. Se ci sono conseguenze di queste iniziative sul contesto cittadino esse sono quelle di modifica del panorama urbano, a volte davvero consistente come si può constatare nel rione Vazzieri dopo l’edificazione del complesso per abitazioni e uffici della ditta Petrecca. Le alterazioni consistenti alla forma urbana provocano degrado paesaggistico e, di conseguenza, peggioramento delle condizioni di vita come ci ricorda la Convenzione Europea del Paesaggio. Quello dell’ambiente è un tema centrale nelle strategie di marketing territoriale in quanto l’integrità ambientale di un luogo può invogliare a permanervi. La salvaguardia del sistema ecologico riguarda innanzitutto la città in quanto sono proprio le aree urbane la principale causa di inquinamento (nel Molise, una regione con un basso grado di urbanizzazione, Campobasso costituisce una delle maggiori minacce all’ambiente). Essendo il nostro un centro di piccole dimensioni esso partecipa strettamente con il contesto territoriale; per rendersi conto di ciò basta riflettere sul fatto che da qualsiasi punto di questo abitato si percepisce l’agro rurale che sta all’intorno. Il paesaggio della campagna campobassana si va trasformando per via della diffusione insediativa e delle infrastrutture viarie che ora l’attraversano. Un pericolo per l’immagine paesaggistica è anche quello dell’instabilità geologica, un male che affligge tanta parte della regione, con vari episodi calamitosi dei quali l’ultimo si è verificato nel mese di marzo nella contrada Colle Leone.

Se passiamo alla natura abbiamo che la città viene a rappresentare una barriera che disarticola la rete ecologica, spezzando la continuità dei corridoi naturalistici: Campobasso viene a trovarsi tra due Siti di Importanza Comunitaria, Monte Vairano e il corso del Biferno. Mentre per il primo con la creazione del parco sono state previste attrezzature per la fruizione dell’ambiente, per il secondo non si fa nulla essendo rimasto inattuato il progetto di parco fluviale predisposto dalla Comunità Montana. Nel momento che viviamo di crisi dell’urbanistica almeno per la parte di competenza pubblica è indispensabile uno strumento regolatore e in questa parte si ricomprendono le azioni per l’ambiente, a cominciare da quelle per il verde urbano e con la questione, mai risolta, del traffico. Occorre spingere per la realizzazione della metropolitana leggera che è stata pensata quale ristrutturazione della linea ferroviaria esistente piuttosto che come opera ex novo (a differenza, perciò, di quella, ad esempio, di Perugia, la prima del genere), utilizzando infatti le rotaie della ferrovia per Termoli, fino a Matrice, e per Isernia, fino a Boiano. Essa poiché garantisce un servizio ai pendolari, procura benefici ai non residenti in città e, nello stesso tempo, migliora la qualità urbana, riducendo i flussi automobilistici in entrata e in uscita, con vantaggi di tipo ecologico per coloro che abitano in Campobasso. Per i tipi di mobilità diversi da quella su ferro, abbiamo che è stato quasi completato il circuito ciclabile in direzione di Ferrazzano, mentre a proposito di mobilità pedonale e di intermodalità, ancora non è stato attuato il progetto della passerella che dovrebbe collegare il centro con il terminal degli autobus. Per quanto riguarda il trasporto automobilistico si rileva che l’anello viario tangenziale costituisce una eterna incompiuta in quanto, pur procedendo i lavori della tangenziale nord non vi è alcuna previsione di spesa per il collegamento tra quest’ultima e la tangenziale est. Quella del sistema stradale anulare è un’idea che risale al periodo in cui si pensava che i problemi urbanistici potessero essere risolti con le grandi infrastrutture; nel caso delle tangenziali della nostra città più che a velocizzare gli spostamenti tra una parte e l’altra dell’agglomerato edilizio sembrano essere a servizio della dispersione abitativa nell’agro rurale, uno dei preoccupanti fenomeni legati alla crescita demografica del capoluogo regionale. Andando verso i luoghi centrali dell’insediamento il traffico si intensifica registrandosi un conflitto strutturale tra la presenza delle auto e le dimensioni delle strade le quali non riescono a contenerle con la situazione limite rappresentata dalla zona medievale inevitabilmente pedonalizzata. Un altro tema molto attuale è quello della saturazione dei cosiddetti «vuoti» urbani. Si è cominciato da via Gazzani e da corso Bucci con il riempimento di aree dismesse con complessi immobiliari privati e ora si vuole continuare nel sito dell’ex Romagnoli dove è prevista la sede della Regione; per quanto riguarda l’ultimo caso, quello di una nuova destinazione al terreno occupato dallo stadio comunale ormai declassato a campetto di periferia, esso richiama il problema della rifunzionalizzazione delle attrezzature obsolete presenti nel cuore della città che occupano spazi strategici per qualsiasi ipotesi di sviluppo del nostro insediamento urbano. Si tratta del carcere, del distretto militare, del mercato coperto (almeno per come è ridotto oggi!), ma anche dell’ampia fascia non più utilizzata per ricovero e officina della stazione ferroviaria e, spostandoci nella «prima» periferia, del canile ospitato nel vecchio macello. I rischi che si corrono sono di duplice tipo: da un lato che ingrandendosi man mano il centro con l’estensione di quest’ultimo attraverso l’ubicazione di attività importanti, si pensi agli uffici regionali, in ambiti un tempo periferici si snaturi l’immagine tradizionale di questa tranquilla cittadina di provincia, che è poi il suo fascino, e, dall’altro lato che con l’ampliamento del centro e il suo rafforzamento conseguente si viene a determinare una maggiore distanza tra la parte nevralgica della città e la sua periferia. Qui, e questa è un’ulteriore tematica nel confronto elettorale, vi è una progressiva diffusione di abitazioni per le quali non si può parlare di certo di deurbanizzazione, ovvero di avvicinamento delle persone alla campagna, in quanto gli stili di vita rimangono sicuramente urbani. Vi sono larghi comprensori, Mascione, Cese, contrada Macchie e così via, in cui non è possibile individuare nessuna regola urbanistica nella crescita edilizia. È mancata qualsiasi azione di controllo dello sprawl urbano: l’unico tentativo di varare un piano di recupero delle zone rurali, quello predisposto dall’arch. Lucarino, è naufragato fra tante polemiche. Sarebbe necessario almeno una politica di adeguamento infrastrutturale data la grande quantità di case costruite in aree attualmente prive di servizi. La faccenda dello sfruttamento ai fini edificatori degli ambiti interstiziali nel centro e quella della disseminazione delle costruzioni in campagna sono in qualche modo connesse poiché rimandano all’eterno dilemma se la città debba essere più o meno compatta che mette in gioco anche la problematica, sempre più in primo piano, del consumo di suolo. Il territorio extraurbano non è fatto, comunque, solo da villette in quanto vi sono pure frazioni come S. Stefano e Camposarcone, connesse con la produzione agricola e numerosi manufatti tipici, riconducibili spesso (le taverne di Tappino e del Cortile, innanzitutto) al passaggio del tratturo Castel di Sangro - Lucera per il quale si parla, a scala regionale, di un parco lineare: partendo da ciò si potrebbe pensare, ed è un ennesimo punto dell’agenda politica, ad una valorizzazione turistica di tali zone, magari collegate mediante appositi itinerari con il centro storico e il parco di Monte Vairano.

Nell’agro rurale non c’è solo questo perché vi sono pure i centri commerciali, i quali ad ogni modo non sono così lontani dall’agglomerato abitativo come succede a Montenero di Bisaccia e a Termoli, la Cattolica, la Cittadella dell’Economia, localizzazioni che dimostrano che i luoghi della centralità sono diventati mobili, innescando un processo di rigerarchizzazione dello spazio. Non è un fenomeno quello appena citato tanto nuovo per Campobasso che ha vissuto diverse fasi di crescita (e pure di declino), con un tessuto urbanistico in relazione a ciò estremamente differenziato. Le sue parti migliori sono quelle che sono state pianificate, dal borgo murattiano con la sua maglia viaria così regolare al quartiere CEP a tutte quelle zone nate negli anni ’70 con piani di lottizzazione (Vazzieri, Colle dell’Orso, ecc.): è evidente che il focus del dibattito sulla città non può che essere il piano regolatore, il cui varo lo si attende da decenni. La situazione è in costante evoluzione per cui è già superato il progetto di piano predisposto dal prof. Bequinot né può considerarsi ancora valido l’impianto urbanistico della variante generale risalente al ’69 come confermano le numerose riclassificazioni avutesi negli ultimi anni di aree soggette ai vincoli di PRG. Una serie di accordi con enti pubblici, primo fra tutti quello con la Regione per il suo palazzo, portano a trasformazioni delle previsioni urbanistiche originarie; sempre nell’ottica dell’urbanistica contrattata sono state stipulate anche convenzioni con privati in variazione delle disposizioni dello strumento di pianificazione (vedasi i Contratti di Quartiere e i Programmi di Riqualificazione urbana). Il piano da farsi dovrà essere obbligatoriamente di livello sovracomunale e non più come è successo in passato quando la città ha inglobato pezzi di territorio dei comuni contermini seguendo il sogno della “grande Campobasso” di epoca fascista, ma cercando alleanze con il suo hinterland per realizzare obiettivi comuni in campo ambientale, di sviluppo sostenibile, di miglioramento di qualità della vita.

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8 - Il perché della città

È necessario partire da Vincenzo Cuoco che lamentava il fatto che nel Molise non vi fosse una città vera e propria per parlare dell’effetto-città sulla crescita di un territorio. Senza una città non si può avere, secondo il pensatore civitacampomaranese, l’affermazione delle «arti di lusso», quindi lo sviluppo dei consumi che parte da quelli delle èlite che qui vivono le quali hanno maggiore capacità di spesa; sono le classi elevate quelle che dispongono di un surplus reddituale da reinvestirsi nell’acquisto di beni non di prima necessità capaci di muovere l’economia del posto con ricadute anche sulle aree periferiche. È questo solo uno dei benefici prodotti da una città, ma ve ne sono anche altri che vanno dai servizi di tipo direzionale al garantire, tramite apposite sedi di istruzione, la formazione dei ceti dirigenti.

Riconosciuta la necessità della città, riconosciuta da tutti, la domanda che noi molisani dovremmo porci è che cosa sarebbe successo se Campobasso non si fosse evoluta in città; la risposta è che ci saremmo rivolti per i bisogni avanzati che vengono soddisfatti da una città, altrove, cioè fuori dai confini della regione. Detto tutto ciò, incluse le considerazioni ipotetiche espresse, passiamo a vedere il processo che ha portato Campobasso a diventare un’autentica città, senza, però, tralasciare di aggiungere quanto segue: chi biasima che il nostro capoluogo, in età contemporanea, sia aumentato di popolazione a scapito dei piccoli paesi per una sorta di migrazione “interna” con il trasferimento di persone da questa al centro maggiore, contribuendo, insieme alla migrazione “esterna” (in direzione nord Italia e dell’estero), al loro svuotamento demografico trascura di riflettere sul fatto che senza il costituirsi di un polo cittadino nel Molise vi sarebbe stata la gravitazione verso località urbane extraregionali, in quanto di una città non si può proprio fare a meno. Campobasso ha l’obbligo morale per il sacrificio in termini di abitanti richiesto, è ovvio non esplicitamente, ai borghi minori di restituzione al “contado” di facilities nel campo educativo, predisponendo, ad esempio, agevolazioni logistiche per gli studenti fuori sede, sanitario, creando strutture di appoggio per i famigliari dei pazienti ricoverati nel nosocomio cittadino, tanto per dirne due, e di tale debito gli amministratori comunali non si devono dimenticare. Lasciato da parte il discorso sul rapporto tra città di riferimento e insediamenti di dimensioni ridotte così come si era fatto prima con quello relativo all’essenza della città, i quali insieme si possono considerare un enorme preambolo, strabordante, sovradimensionato nell’economia del testo, addirittura eccessivo, ma è così, possiamo finalmente vedere il percorso che ha seguito Campobasso nella sua trasformazione in città, il tratto conclusivo, gli ultimi 200 anni. Con l’investitura a Capoluogo di Provincia già nel Decennio Francese Campobasso diventa sede di uffici pubblici con le funzioni amministrative che si accrescono notevolmente sotto lo Stato unitario. Un ruolo primario nella vita cittadina lo hanno le scuole cui affluiscono, in particolare le superiori e in particolare dal Secondo Dopoguerra, ragazzi da un ampio raggio territoriale che con l’avvento dell’Università (in seguito decentrata anche ad Isernia e Termoli) viene a ricomprendere pure porzioni di Regioni confinanti. Le attività terziarie, tra cui il consistente comparto burocratico, e scolastiche attirano nuovi residenti alle residenze dei quali, congiuntamente alle opere di urbanizzazione, provvede una fiorente industria delle costruzioni; pure gli addetti di quest’ultima abbisognano di un alloggio e, quindi, come in una “catena di S. Antonio”, si espande il numero dei lavoratori nell’edilizia e, di conseguenza, dei cittadini campobassani. A cavallo dei due millenni comincino a comparire, aumentando l’attrattività del nostro centro, magari richiamando presenze saltuarie, non stabili, nell’immediata periferia urbana centri commerciali e luoghi di intrattenimento, prendi le discoteche e i locali ricreativi, come multisale cinematografiche. Certo, la spinta è stata esogena, la designazione al ruolo di governo della ripartizione provinciale, ma ci deve pur essere stato qualcosa di endogeno nell’affermazione di Campobasso quale città.

A prescindere che nella civiltà europea sono rari, salvo pochi esperimenti, i casi di città nate ex-novo, la “via italiana” alla formazione delle città moderne è stata quella dell’implementazione di mature entità urbanistiche preesistenti. La Campobasso capoluogo, prima di Provincia e ora di Regione era stata il feudo privilegiato del Conte Cola di Monforte ed ospitava la Doganella, organo dipendente dalla Dogana di Foggia, chiamata a controllare la transumanza e perciò godeva da quel periodo di un certo prestigio, possedeva un certo status, nonostante non fosse il centro egemone che in Molise mancava, si stava sviluppando nel piano, condizione morfologica favorevole per l’urbanistica dell’Illuminismo. C’era, inoltre, la centralità nel comprensorio provinciale, anche se l’ubicazione nel baricentro della provincia era sfavorevole per i collegamenti con le capitali del Regno, tanto delle Due Sicilie, Napoli, quanto d’Italia, Roma. In definitiva la posizione di Campobasso era felice per le comunicazioni con i paesi della provincia e infelice per quelli di scala nazionale. Comunque, con l’avvento delle ferrovie nella seconda metà del XIX secolo essa venne dotata di una stazione ferrovie perché l’arrivo dei treni era garantito ad ogni capoluogo provinciale e ciò ruppe l’isolamento. Adesso si vuole riprendere, legandolo alla questione della localizzazione del capoluogo molisano, il tema della imprescindibilità della città per il funzionamento di un sistema insediativo osservando che Campobasso in quanto città potrebbe candidarsi a colmare un vuoto, per così dire, urbano di realtà con armatura urbana che si coglie esserci in una vastissima area che va da Foggia a Pescara, Campobasso sta in mezzo, una porzione significativa della fascia mediana della Penisola, tra l’Italia centrale e meridionale, che affaccia sull’Adriatico, guardando oltre il Molise.

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9 - L'impianto urbanistico del centro storico

La tipologia urbanistica non è chiaro quale sia. Sono possibili più letture. Una è quella dello schema a raggiera con le strade che convergono verso il castello il quale è il vertice dei raggi; essa è valida per l’ambito urbanizzato posto sul pendio, non per la fascia pianeggiante. Un diverso modello a cui si può ricondurre la pianta è quello a ventaglio avendo un contorno triangolare con il lato più lungo semicircolare proprio come un ventaglio spiegato. Un ulteriore possibile modo di vedere l’impianto di Campobasso è quello che lo assimila al tipo definito ad avvolgimento sul quale ci soffermiamo un po’ di più. Si tratta di una specie di spirale, cerchi che man mano che si sale vanno restringendosi, la quale si diparte da porta S. Antonio, il punto più basso, la sua coda. Seguendo una traiettoria leggermente incurvata, l’anello più grande della spirale, si raggiunge porta S. Paolo. Qui si svolta e si prosegue lungo salita S. Paolo. All’incrocio con salita S. Maria Maggiore occorre torcere nella direzione opposta intraprendendo questa via. Dopo poco ruotare nuovamente puntando sulla chiesa di S. Bartolomeo. Appena superata piegarsi ancora mirando alla chiesa di S. Giorgio, l’altro capo della spirale il cui ultimo cerchio è diventato un cerchietto.

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Se queste sono le interpretazioni ricorrenti della forma urbis non sono, comunque, le uniche. Di seguito ne proponiamo altre due. La prima è il riconoscimento dell’esistenza di  2 assi viari di fondazione, 2 vettori di spostamento sui quali si è fondato l’insediamento. Un asse è formato dalla sequenza via S. Antonio Abate – via Ziccardi: esso si sviluppa in orizzontale e coincide con la sezione trasversale massima della città antica. L’altro asse non è un’arteria a sé stante come il precedente, bensì è composto da una teoria di percorrenze comprendente, nell’ordine, via Cannavina, via Chiarizia e salita   S. Bartolomeo; tale direttrice viaria avanza in verticale e corrisponde alla sezione longitudinale massima del borgo medioevale. Ambedue questi assi si interrompono, quasi fosse una pausa nell’incedere, in piazza S. Leonardo. Uno si distende da est a ovest e l’altro da nord a sud, grosso modo per cui i due nastri stradali sono praticamente ortogonali fra loro. Pertanto quando essi si incontrano vengono a disegnare una croce. Invece di considerare la piazza S. Leonardo semplicemente il rendez-vous dei percorsi anzidetti, un mero intervallo tra le strade, poco più di un incidente di percorso o, meglio, di percorsi, quello che va da sopra a sotto e quello che va da un lato all’opposto, in definitiva una cosa generata, la si potrebbe ritenere, è la seconda chiave interpretativa, un elemento autonomo che non  solo vive di vita propria, ma che è il polo cittadino che ha generato l’entità urbana, un ribaltamento dell’ipotesi interpretativa espressa in precedenza. Secondo la visione ora proposta la vecchia Campobasso ha un impianto urbanistico cruciforme riconoscendo alla piazza un ruolo primario nella definizione della struttura urbana, le strade sono ad essa subordinate. È come, per intenderci, che le strade si irradiassero da questo luogo il quale doveva aver costituito il nucleo originario dell’abitato, magari perché in detto spazio si svolgeva da tempo immemore il mercato. Sia come non sia, qualunque sia la matrice dell’organismo urbano, non conta se la primazia vada attribuita ai percorsi oppure al momento d’intersezione, le componenti del sistema urbanistico si presentano assai ben definiti. La piazza, per via del suo perimetro abbastanza regolare e della sua sufficiente ampiezza, è una vera e propria piazza, le strade, le quali sono della scala giusta in lunghezza e larghezza, sono strade al 100%. In entrambi i casi, strade e piazza, siamo di fronte a segni decisi e ben distinguibili nel panorama cittadino. Un avviso ai lettori: da adesso in poi ci si concentrerà sulle caratteristiche delle strade.

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Partiamo dall’asse via S. Antonio Abate – via Ziccardi: sebbene sia frutto dell’accostamento di due strade distinte esso non è una sommatoria di segmenti viari, bensì un insieme continuo con la mezzeria contraddistinta dal seguire un identico raggio di curvatura al di qua e al di la della piazza, piazza, la quale è a metà del suo svolgimento, che non interrompe il predetto asse perché ne viene inglobata. A questo asse che segue, pressappoco, l’isoipsa si contrappone quello ad esso perpendicolare in cui si innesta, o viceversa, nella piazza S. Leonardo il quale unisce le curve di livello minima e massima, pressappoco. Mentre il camminamento che procede da oriente a occidente si conclude una volta raggiunta una, alternativamente, delle due porte urbiche, quello che muove da meridione verso settentrione, o al contrario, ha la peculiarità di proseguire nel sobborgo fuori le mura garantendo una certa fusione della viabilità della vecchia e della nuova città. Questo asse tiene allacciati il su e il giù, il su è il castello che è, poi, il passato, mentre il giù è l’espansione oltre la murazione che è il futuro. Via Cannavina si chiamava via Borgo, via che conduce al borgo, per antonomasia la residenza della borghesia; essa, che è la strada principale dell’agglomerato storico si associa in maniera diretta, diritta, con la piazza principale, S. Leonardo per cui siamo nel cuore della Campobasso di un tempo la quale era separata dall’agglomerazione ultramuraria per mezzo della porta Maggiore che la sera veniva chiusa. All’inizio questa chiusura era sentita come esclusione dalla vita cittadina da parte di chi abitava all’estradosso delle mura, in seguito come segregazione dei residenti nel borgo intramurario, all’intradosso delle mura, con un ribaltamento del significato. Il centro storico è ormai periferia, un concetto quello di periferia che nel tessuto urbanistico antico non aveva alcun senso, vivendo i ceti sociali spalla a spalla e che tante persone che qui risiedevano hanno imparato a conoscere allorché si sono trasferiti nei quartieri di edilizia economica e popolare per cui il CEP è la controfaccia del borgo medioevale.

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10 - La collina Monforte

La Collina Monforte è un concentrato di duplicità a cominciare da quella di un versante costruito, il lato occupato dai fabbricati del centro storico, e uno non utilizzato se non per realizzarvi cave da cui estrarre pietre necessarie per edificare le case nel fronte opposto del colle. Ciò che si è descritto appare come una differenziazione semplicemente funzionale, ma vi sono altri tipi di doppiezza che hanno significati più profondi. Uno di questi è relativo al valore ambientale perché su una faccia esso è legato all’interesse culturale (l’agglomerato antico con le sue chiese medioevali e le fortificazioni) e, invece, su quella che sta alle sue spalle le valenze sono naturalistiche, tanto che quest’area è stata inclusa tra i Siti di Interesse Comunitario.

Vi sono, poi, due distinte sacralità, per le quali esso è particolarmente significativo nella coscienza collettiva: la prima è legata al culto mariano che fa riferimento al santuario di S. Maria del Monte, la seconda è relativa alla devozione verso i caduti della Grande Guerra.  Ognuna di queste celebrazioni, della Madonna e dei morti per la Patria, richiede un proprio percorso, per così dire, di iniziazione i quali hanno come meta, entrambi, la cima del Monte Sant’Antonio. La percorrenza di avvicinamento alla chiesa può essere considerata la Via Matris, quella di introduzione al Sacrario dei periti nelle vicende belliche del 15-18 è il Viale delle Rimembranze. Un duplice, sempre questo concetto, cammino come si vede. Le “pietre miliari” della Via Matris sono le stazioni della Via Crucis, bassorilievi in bronzo, quelle del Viale della Rimembranza gli alberi ognuno dedicato ad un militare deceduto, il cui nome è apposto in una targhetta: anche per tale aspetto si può parlare di doppio, il senso generale di ciò che avviene su questa emergenza montuosa. Non sono doppioni, però, le piante che fiancheggiano i camminamenti in quanto, nonostante siano sempre conifere, la specie del Viale delle Rimembranze è quella dei pini marittimi che con la loro caratteristica chioma ad ombrello si differenziano, piuttosto vistosamente, dalle varietà impiegate per il rimboschimento dei pendii avvenuto circa 50 anni fa. Seppure scelte per ragioni di riforestazione queste essenze vegetali insieme a quelle che affiancano il Viale delle Rimembranze, lo si ribadisce della stessa famiglia, ben si addicono al luogo perché sempreverdi che deve ispirare il sentimento della perennità. Si coglie una duplicità, questa volta non all’interno della Collina Monforte, bensì a livello cittadino nel ricordo dei soldati che hanno perso la vita nel primo conflitto mondiale. Infatti la loro commemorazione si sdoppia (nota bene, ha la medesima radice di doppiezza) perché è a valle, ai margini del Borgo Murattiano, quindi nel cuore della città, che vi è il Monumento ai Caduti il quale non porta l’elenco dei morti, per conoscere i nomi dei quali occorre recarsi sull’altura. In ogni comune molisano, come del resto stabiliva la legge speciale relativa alla celebrazione della Vittoria (nome che viene dato alla piazza campobassana in cui sorge), vi è un’opera scultorea simboleggiante il sacrificio compiuto dall’esercito, la quale nel capoluogo regionale è un obelisco istoriato con le gesta, stilizzate, delle varie armi, un emblema il quale, non fosse che per la sua longevità, risalendo alla civiltà egizia, è la massima espressione del culto della morte.

Nel resto degli insediamenti urbani la statua, sia essa un fante (frequentemente) sia essa l’immagine dell’Italia (es. a S. Massimo), sul cui piedistallo sono apposti i nomi delle persone cadute nelle battaglie, non deve stare isolata per la normativa cui si è accennato, ma circondata da esemplari arborei i quali sono dedicati a ciascuno dei combattenti scomparsi. Occorreva, in altri termini, istituire il Parco delle Rimembranze (è rimasto a Capracotta mentre a S. Giuliano del S. lo si sta ripristinando), spazio verde dove poter meditare in tranquillità sull’attaccamento patriottico di coloro che hanno combattuto, mettendo in pericolo l’esistenza, per la Nazione. L’obelisco è posizionato in un’aiuola a forma di cumulo, che rimanda a quel che si faceva nell’antichità nelle sepolture di uomini valorosi (vedi il Mausoleo di Augusto a Roma). Il punto in cui è ubicato l’obelisco è il posto con il maggior flusso di traffico cittadino, il meno idoneo per raccogliersi in riflessione, ben diverso, dall’appartato Viale delle Rimembranze. Ritornando alla questione del doppione troviamo un ulteriore caso, adesso compreso nella zona terminale del colle che sovrasta il nostro abitato, ed è quello dell’accostamento tra Viale delle Rimembranze e Sacrario. Il Viale oppure, normalmente, il Parco stanno vicino al monumento e questo è l’unico esempio nella regione di continuità, sarebbe meglio affermare di funzionalità del Viale alle tombe dei militi in quanto camminamento che introduce ad esse, funzionalità differente a quella cui sono destinati i Parchi di conferire intimità alle statue evocative del martirio dei soldati al Fronte. Di eccezione in eccezione e spostando le ricerche della duplicità a scala regionale, vediamo che solo qui vi sono i corpi, non solo i nomi, dei caduti  e l’unico parallelo possibile per tale aspetto, cioè il suo “doppio”, è il Cimitero Francese di Venafro; oltre che nella disposizione dei sepolcri che in quest’ultimo sono a terra come usuale in un camposanto, contrariamente a Campobasso dove le salme sono custodite in seno al castello del Conte Cola, il che tanto contribuisce a nobilitarle, è un omaggio a questi eroi, Venafro si distingue da Campobasso poiché si tratta di militari che caddero in una battaglia, quella di Montecassino, svoltasi non distante da lì e invece nel maniero di Monforte sono stati trasportati i resti di individui che morirono in accadimenti bellici avvenuti molto distante, sulle Alpi. Si è obbligati a sottolineare che i soldati che giacciono nel cimitero venafrano non possono essere pianti dai propri familiari i quali risiedono in Francia, mentre quelli che stanno nel Sacrario campobassano possono ricevere il tributo d’affetto dei loro discendenti e della intera collettività della terra natia. La loro presenza nel paese di origine da una parte è fonte, nello stesso tempo, di orgoglio nazionale e locale e dall’altra parte costituisce una consolazione per i parenti che possono toccarne le lapidi, portare un fiore. Il ricordo, di certo, con gli anni va scemando riducendosi al giorno del IV novembre, in cui fu proclamata la vittoria ed è necessario, come è avvenuto nel centenario della fine del conflitto, reinverdire la memoria di quella grande tragedia che fu la I Guerra Mondiale, un monito contro tutte le guerre.

11 - La piazza centrale

Ci sono tanti che non conoscono il nome ufficiale di questa piazza: c’è chi la chiama, correttamente, piazza Pepe, chi piazza Prefettura e chi piazza Cattedrale. In effetti, il posto è «segnato» dalla compresenza dei tre elementi, tutti e tre rilevanti, con il medesimo grado di significatività. La statua di Gabriele Pepe, il Palazzo del Governo e la Chiesa Cattedrale della Diocesi; ciò giustifica in qualche modo, l’intercambiabilità della denominazione nell’uso comune. Deve essere stato un vero dilemma per la commissione comunale che ebbe il compito di stabilire la toponomastica della città prima ancora della scelta del nome quello se tale ampia particella che nello Stradario cittadino è piazza Pepe fosse una realtà unica oppure se andasse considerata come due, o addirittura, tre (se non quattro) luoghi distinti e separati, come si dice, seppure accostati l’un l’altro. 

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Non è un problema da poco, per niente facile da risolvere, il quale si ripete in tutta l’area centrale del capoluogo molisano in cui singoli episodi sono intrinsecamente connessi fra loro, quasi fossero parte di un continuum. Ci stiamo riferendo alla serie di piazze, a partire da quella della Vittoria proseguendo per quella che oggi è diventata piazza Musenga e poi quella del Municipio passando per Villetta Flora che è un’appendice di piazza Pepe, la quale è il punto terminale di tale teoria di spazi pubblici. Essi sono tenuti insieme dal «corso» la cui larghezza e lunghezza ne fanno la componente principale del Borgo Murattiano; sembra che ogni momento urbano della Campobasso ottocentesca sia ad esso subordinato, a cominciare da quello che sono abbiamo indicato come piazza del Municipio e che, invece, agli atti è piazza Vittorio Emanuele II, al quale è intitolato anche il corso, fatto, che rafforza l’idea che si tratti, questi ultimi due, di qualcosa di unitario. Il corso è il filo conduttore che, per un verso, congiunge le superfici aperte del Borgo (peraltro molto superiori a quelle coperte) contigue e, per un verso diverso, le fonde tutte insieme. I legami sono stringenti, non unicamente tra una piazza e la successiva, bensì pure, per via appunto di tale maestoso asse viario, complessivamente fra le varie componenti pubbliche di questo particolare “quartiere” (limitatamente, beninteso, alle parcelle di terreno libero); sono collegate in modo forte le due piazze che stanno ai due capi opposti del corso, i suoi due vertici, di inizio e di fine, non solo in quanto in ciascuna di esse è presente un deciso “segno” verticale, l’obelisco e la statua, costituenti i traguardi prospettici di tale asta stradale, ma anche perché siamo in presenza di due piazze celebrative dell’Unità d’Italia, dedicata la prima alla figura dell’ufficiale molisano che pur in forza all’esercito borbonico era animato da ideali risorgimentali e la seconda ai Caduti della Grande Guerra con cui si conclude il processo di unificazione nazionale, numerazione corrispondente alle fasi di questa gloriosa epopea, quella che la antecede e quella del successo finale. È un unico racconto, con un prologo e un epilogo e le due piazze rappresentano, immaginificamente, l’incipit e la fine, il lieto fine.

Seppure non volessimo seguire la chiave di lettura che si è proposta, cioè il nastro viario che nel suo svilupparsi a tratti si allarga per dar vita ad una piazza e a tratti, invero bravi, si restringe, si deve ammettere, comunque, che siamo di fronte ad una sequenza serrata di piazze (le si è elencate prima), cosa inusitata, non presente in centri analoghi né dentro né fuori della regione. Piazze differenti da tutti i punti di vista, sia dimensionale sia figurativo sia funzionale e soprattutto per rango. Le più importanti sono indubbiamente le piazze sedi di istituzioni civiche e statali e perciò piazza Municipio e piazza Prefettura. Per quanto riguarda il “senso” dei luoghi, il genius loci, la piazza Pepe sulla quale ora ci soffermeremo, nonostante ridotta ad un incrocio di percorsi automobilistici, forse il più frequentato per la sua posizione baricentrica rispetto al tessuto urbanistico costituisce un po’ l’ombelico della città, lo ricorda la sua pianta pressappoco circolare. Vi confluiscono le direttrici stradali provenienti dai diversi quartieri e in questo crocevia nessuna è subordinato da un altra per cui viene a rivelare un carattere egalitario garantendo simbolicamente l’accessibilità al cuore della civitas a tutti i cittadini in maniera identica (ben diverso, per intenderci, sarebbe, se vi fosse un ramo stradale prioritario sul quale il resto della viabilità si deve innestare). La valenza semantica si configura nel non essere un semplice rondò perché sono curvilinee pure le pareti della piazza, idealmente un cerchio, figura geometrica che in modo traslato rimanda, tra i numerosi significati cui si associa, all’assembramento comunitario. I due fronti che la delimitano, i soli in quanto la restante parte del suo perimetro è interessata dal passaggio di strade, uno contrapposto all’altro sono concavi e seppure non estesi sono capaci di suggerire la forma dl circolo; uno dei due lati è costituito dalla facciata dell’ex Banco di Napoli con l’entrata, mentre quello opposto è un prospetto secondario della Banca d’Italia il che farebbe pensare ad una mancanza di interesse, in termini di rappresentatività, di questo istituto finanziario verso tale spazio, quasi voltargli le spalle, se non fosse che proprio un muro privo di ingressi è ciò che serve a questa piazza, un muro tondeggiante che viene a fungere da nicchia grande anche, se non tanto da essere scambiata per un emiciclo, sul retro della statua dell’eroe (ci si può camminare intorno e scoprire che anche la veduta posteriore di tale scultura è assai bella per i panneggi del mantello mossi dal vento). Per inciso, è una fortuna che si sia optato all’epoca per una disposizione su un bordo della strada e non al centro, seguendo il modello classico della place royale, centro occupato oggi da un alto lampione, altrimenti essa sarebbe diventata inevitabilmente una specie di spartitraffico come succede in molte situazioni. È da sottolineare, inoltre, che sulla piazza convergono due rappresentanze di enti, ambedue del campo economico, che hanno la sede direzionale all’esterno del Molise, le quali, per la prima volta, qui da noi, vengono ad assurgere all’”onore” di fronteggiare una piazza, posizione che ne accresce presso la popolazione il prestigio. Va, in aggiunta, notato che non vi sono residenze e negozi, la cui presenza renderebbe questo uno spazio ordinario e non extraordinario, la sensazione che si prova qui, in quanto l’unica piazza circolare, disegno planimetrico che la rende un luogo un po’ astratto essendo difficile l’edificazione al contorno. Si evidenzia, in ultimo, che in tale punto Berardino Musenga pose nel suo piano per il Nuovo Borgo uno snodo viario che la piazza in fin dei conti conferma.

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12 - La stazione ferroviaria

Tra i vuoti della nostra città il più esteso è sicuramente quello del parco ferroviario. All’origine e fino a quando la città non si è sviluppata oltre la strada ferrata, la quale rappresenta una cesura tra la zona centrale e i quartieri sorti sotto la ferrovia, l’area della stazione era il limite, addirittura fisico, dell’abitato e perciò essa non era sentita come un vuoto urbano. All’epoca la stazione era periferica per cui non c’erano problemi di spazio, di quantitativo di superficie che potesse occupare, non era contesa per altri usi cittadini. Se oggi si parla del decadimento presso la stazione di Ripalimosani di alcune funzioni, tipo la manutenzione corrente e il deposito dei locomotori di “riserva” per liberare una quota del suolo, prezioso in quanto prossimo al centro dell’abitato, ingombrato dal movimento dei treni e dei passeggeri e da ciò che è loro connesso, prima tale preoccupazione era del tutto assente ed a ragione per ciò che si è detto. 

Al principio abbiamo iscritto il parco ferroviario nella categoria dei vuoti anche se esso, nonostante che certi reparti siano stati trasferiti altrove, a Benevento la riparazione dei convogli, appare un luogo ancora movimentato, in cui si svolgono molteplici attività e, dunque, alla stregua di un pieno. La stazione è un microcosmo, un mondo a sé rispetto al contesto urbano con il quale interagisce per via del transito di persone in partenza e in arrivo e poco più. È una vita a parte, con le sue logiche legate alla necessità di garantire il funzionamento dei collegamenti su ferro, in passato colonna portante del sistema di comunicazione nazionale. La stazione comprende manufatti edilizi di forma e dimensioni disparate, dagli hangar per il rimessaggio delle carrozze, ai capannoni per il deposito del materiale rotabile pronto per essere impiegato per sostituzioni lungo la linea, al blocco dei servizi igienici fino ai locali del dopolavoro trai quali vi è la sala per spettacoli che viene utilizzata pure per manifestazioni pubbliche. Vi sono poi i magazzini in disuso e, però, da conservare essendo interessanti testimonianze di archeologia industriale, nei quali veniva immagazzinata la merce, innanzitutto i cereali, in attesa di essere caricata sui treni merce, cosa che oggi è solo un ricordo. L’insieme che ne viene fuori, per chi non è esperto di logistica ferroviaria è alquanto confuso, come se mancasse un progetto unitario e che si tratti di un non univocamente determinato accostamento e, perciò, affastellamento di corpi di fabbrica, di binari compresi i loro scambi, di pensiline, quella addossata al corpo principale (ma non al fronte principale, bensì, è ovvio, sul retro), la stazione ferroviaria vera e propria, e quella collocata sopra la piattaforma a isola, la forma di quelle banchine in cui i treni possono sostare su entrambi i lati (i binari 2 e 3); il tutto in un dominio ampio delimitato nel senso della lunghezza  ai due capi da portali metallici che sorreggono i semafori (la paletta del capo stazione di un tempo), una specie di porte di accesso alla stazione per i treni. Ad avvalorare l’opinione che non sia frutto di una stringente programmazione l’assetto raggiunto dal parco ferroviario vi è la considerazione che esso è frutto anche di modifiche intercorse nei suoi quasi 150 anni di vita, le quali hanno riguardato lo stesso edifico-stazione che non è quello originario; gli ultimi interventi realizzati sono stati la palazzina con le residenze delle famiglie dei ferrovieri, i due scavalcamenti del fascio dei binari, l’uno interrato, il sottopasso, e l’altro aereo, il sovrappasso, il parcheggio a pagamento e la sistemazione del piazzale su piazza Cuoco che lo ingloba. La stazione dell’altro capoluogo di Provincia è più grande, grandezza dovuta al fatto che qui avveniva il cambio delle locomotrici le quali occorreva che fossero più potenti per affrontare le tratte montane che conducono a Sulmona e alla “capitale” del Molise, rispetto a quelle con minore dislivello che da Roma e da Napoli portano al centro pentro; con la modernizzazione dei mezzi di locomozione tale operazione non è stata più necessaria e, quindi, una porzione del parco ferroviario è diventata inutilizzata.

Sul terreno dismesso, previa bonifica del sito, si sta procedendo alla creazione di un’oasi a verde, cosa che potrebbe avvenire pure a Campobasso; si ritiene per ciò che si è detto sopra, che ci siano margini di manovra, razionalizzando il layout della stazione, il suo schema distributivo il quale, comunque, andrebbe aggiornato se non fosse altro perché oramai datato. La parcella sgombra risultante potrebbe trasformarsi in un giardino pubblico, tanto più strategico in quanto, come a Isernia, esso è nel baricentro dell’agglomerato abitativo. Inoltre, tramite un breve collegamento pedonale da allestire, o, magari, sfruttando la passerella sopraelevata esistente esso potrebbe essere ricongiunto alla vallecola dello Scarafone che il PRG indica come Zona urbanistica destinata al tempo libero. In definitiva, si avrebbe la trasmutazione da parco ferroviario a parco urbano, con uno slogan. L’elettrificazione della linea che porterà alla dismissione dei treni con motore diesel che sono inquinanti e rumorosi e ciò garantirà la salubrità dell’aria in quest’area. Si sta parlando di ferrovia, la quale, ad ogni modo, rientra in un tema più generale, quello del sistema dei trasporti, sia su ferro che su gomma. Non del tutto casualmente nelle vicinanze della stazione c’è il Terminal degli autobus il quale è connesso alla viabilità urbana e extraurbana da una serie di svincoli, fino a configurarsi una sorta di rondò: si è venuto a costituire, lo si ripete non del tutto casualmente, un polo intermodale con il traffico ferroviario, quello delle autolinee e quello automobilistico che interagiscono fra loro. È una buona combinazione quella del treno impiegato per le lunghe percorrenze, con quello dei pullman, destinato ai tragitti interni al territorio regionale, e con quello delle auto private che sono, volente o nolente, un comparto notevole della mobilità. Ciò, è scontato, ad esclusione della Metropolitana Leggera, tutta un’altra storia. 

Il Terminal non lo si è introdotto nel discorso in corso solamente per questo, ma anche quale “pietra di paragone” con lo scalo ferroviario, in quanto è dalla comparazione che emergono le peculiarità. La stazione dei bus, chiamiamola così in assimilazione a quella di treni, è un’opera di impianto, come si dice in gergo architettonico, figlia di un disegno progettuale definito, a differenza dell’altra che, nella sua conformazione attuale, è il frutto di numerose aggiunte, assai più che di sottrazioni. In comune hanno la caratteristica di essere essenzialmente dei vuoti, sì, anche il Terminal pure se coperto per intero, ma si tratta, la copertura, di una vasta tettoia, la quale non è altro che una vasta pensilina. A dare la sensazione che siamo dentro una entità spaziale vuota è la distesa di pannelli traslucidi in policarbonato che si estende sopra di essa i quali hanno la capacità di togliere consistenza alla pur sempre volumetria, la quale quasi si dissolve alla luce. Lo scalo ferroviario attraverso la collaborazione che riceve dal Terminal incrementa la sua attrattività. Si ha l’impressione che non regga il confronto riguardo alla frequentazione da parte della cittadinanza (i viaggiatori, non chi va lì a bighellonare) con lo scalo isernino pur essendo, lo si ribadisce, entrambe un fulcro della struttura urbanistica. Sarà perché qui l’edificio-stazione è allo stesso livello delle banchine di arresto e avvio dei treni, mentre a Campobasso l’ingresso all’edificio-stazione è ad una quota sfasata, superiore a quella dei binari e, pertanto, almeno psicologicamente, il fatto che si è costretti a scendere per salire in carrozza, secondo un’espressione antica, dissuade dall’uso del treno. E poi metti la trasparenza delle pareti della stazione di Isernia che sono (a pianoterra, di certo) interamente vetrate, dal lato della piazza e da quello del parco ferroviario, in ciò suggerendo l’osmosi, vista con gli occhi degli psicologi e degli architetti, tra lo spazio urbano e quello del seducente universo delle strade ferrate, una visione d’incanto.

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