MOLISE SFUSO

Il recupero delle torri
Per le torri è più difficile trovare una nuova funzione. Ciò specialmente quando sono manufatti sì collegati a un castello e però formanti corpi a sé, quando cioè sono tangenti al maniero, il cilindro, stiamo parlando di torri circolari, è ben definito. Quando invece le torri costituiscono protuberanze, più o meno protratte all’esterno della planimetria della struttura castellana, in genere in posizione angolare esse vengono ad essere estensione di uno dei suoi vani, per quanto detto prima quello che sta in un angolo. Tale locale avrà, di conseguenza, una parete curvilinea avendo inglobato la torre. È quanto succede nel castello di Macchiagodena in cui non vi è uno specifico problema di rifunzionalizzazione dello spazio semicurvo nel quale è ricompresa la torre.
Si tratta quella di cui abbiamo parlato di un torrione piuttosto che di una torre, ma nello stesso paese vi è anche una torretta che è attaccata ad un caseggiato sorto sulle mura medioevali; l’insieme torretta, la quale ha una superficie appena sufficiente per ospitare la scaletta che conduce al primo piano e lo stabile collegato di due livelli forma una attrezzatura culturale polivalente, biblioteca e collezione museografica. La più frequente destinazione d’uso attribuita alle piccole torri è stata quella di “stanzino di comodo” come si chiamavano un tempo i WC e molte torrette furono aggiunte ai palazzotti signorili nel XIX secolo, dunque non torri preesistenti bensì sopraggiunte, per creare dei gabinetti in case che prima di quel periodo quando fece la comparsa l’acqua corrente non esistevano.

Fu data a tali minuscoli locali sopravvenuti la sembianza di torri con un richiamo esplicito ai palazzi baronali, un’immagine che nobilitava i possessori del fabbricato. Il passo da opera di servizio a opera ornamentale è stato breve. In età contemporanea vi è una certa varietà di modi di reinterpretare le torri, non solamente a fini utilitaristi. Tra questi si cita, è il primo caso, la riproduzione idealizzata dell’ambiente in cui visse segregata Delicata Civerra alla quota terranea della torre Terzano di Campobasso. Il secondo caso è la trasformazione in studiolo d’artista per la pittrice Elena Ciamarra del piano sommitale della torre del castello di Torella la quale svetta sul resto dell’organismo architettonico, l’unico castello insieme a quello di Carpinone in cui vi sono torri che sopravanzano in altezza le pareti del mastio. Il terzo caso è quello della torre all’interno del castello di Vastogirardi, poligonale una configurazione geometrica che è un’autentica eccezione nel panorama delle costruzioni turriformi molisane, adattata a cellula abitativa; il riconoscimento del cambio d’uso è reso possibile dal decreto Salvacasa. La torre “abitabile” ha un precedente nella torre di Casalvatico di Cercemaggiore la quale è un’utile pietra di paragone per diversi aspetti. Uno è il fatto che quest’ultima presenta più vani di un’unica abitazione, uno per piano,
contro l’unità immobiliare che si sviluppa al piano terraneo del castello del centro altomolisano la quale consta di un solo locale. Il secondo è che essa è quadrangolare, quindi un poligono e ciò la accomuna a quella di Vastogirardi in cui, però, è maggiore il numero di lati, e la distingue dalla gran quantità delle torri della regione che sono cilindriche. Il terzo è che nella frazione di Cercemaggiore la torre sta isolata, non attigua ad un volume architettonico. Il quarto è che mentre a Vastogirardi la torre ha assunto una funzione residenziale in seguito, non cioè al momento della sua edificazione a Caselvatico essa è sorta proprio come casa-torre. Lasciando questa numerazione e riprendendo la precedente dal numero in cui ci eravamo fermati vediamo il quarto caso che è quello della “torretta saracena” al confine tra Termoli e Petacciato sulla linea di costa diventata un ristorante; un impiego dell’opera che rischia di far perdere ad essa se non la propria dignità la propria identità, da corpo di fabbrica di carattere militare a artefatto destinato al diletto. Il quinto caso è quello delle torrette in cui sono state ricavate scale a chiocciola, una combinazione ben riuscita tanto che anche i diversi fabbricati attuali tali tipi di scale vengono racchiusi in torricelle; un esempio si ha anche nell’800


nel casino Selvaggi posto nella piana di S. Massimo. Da tutto quanto sopra esposto non si deve, comunque, dedurre che le torri abbiano una notevole versatilità in quanto a ipotesi di rivitalizzazione. Non c’è niente tra le testimonianze delle ere antiche di più irriducibile alle esigenze funzionali della contemporaneità. Si tratta quelli elencati di episodi singolari, di soluzioni di riattamento originali, non riproducibili in serie, ogni torre è un caso, i casi descritti, a sé, molto dipende dal contesto in cui sono inserite. C’è una resistenza intrinseca in una torre alla possibilità di alloggiamento nella sua cavità di attività moderne. Antichità versus modernità. Non è, poi, detto che le torri debbano essere necessariamente cave, ve ne sono tante che sono piene e ciò lo si rileva riscontrando sulla sua superficie di inviluppo l’assenza di aperture aeroilluminanti senza le quali non ci si può vivere dentro e anche di feritoie come quando le torri vengono a costituire corpi di guardia. Le antesignane illustri qui da noi di torri di quest’ultimo tipo sono quelle di Altilia che sono prive di bucature.
I tipi di danni nei borghi antichi
Elenchiamo di seguito, con atteggiamento simile a quello dei periti che valutano gli infortuni i quali nel nostro caso sono quelli che accadono al patrimonio culturale, alcune tipologie di alterazioni che si riscontrano nei centri storici molisani. Le parole chiave per descrivere i tipi di danno rilevabili nelle zone di origine medievale sono: sventramento, diradamento, superfetazione, sopraelevazione, sostituzione edilizia, inserimento di nuovi volumi, demolizione, vuoto urbano, lacuna. Procediamo avvertendo che non seguiremo un ordine preciso. Sventramento è il termine che si addice all’operazione di rimozione della torre angioina che troneggiava al centro del paese di Sepino ancora nel XIX secolo per ricavare al suo posto in quel sito una piazza, azione simile a quella compiuta nel medesimo periodo a S. Massimo di abbattimento delle case che fronteggiavano la chiesa-madre per fare nel loro sedime uno slargo.
Passando dalle piazze alle strade si può chiamare sventramento, non siamo in area urbana bensì periurbana, la soppressione della fascia di orti terrazzata posta al limitare dell’abitato e in stretta connessione con esso per far spazio al passaggio della strada provinciale, siamo a Civitanova; è lo sventramento di un paesaggio. A Pescolanciano è ancora la provinciale a sventrare una parte dell’intorno del borgo antico, non il borgo lo si ripete bensì un pezzo del suo contorno, con l’edificato che viene a trovarsi, il suo livello basamentale, al di sotto della quota di tale nuova arteria la quale fu costretta per ragioni di livelletta a rialzarsi per un tratto rispetto al piano originario; uno sventramento per così dire di striscio non per questo, però, meno doloroso. L’inserimento di fabbricati contemporanei nei centri storici è un tema assai dibattuto sia in relazione ai connotati architettonici dell’edificio sia in riguardo all’ammissibilità o meno della decisione di procedere a effettuare questi inserti.

Fu data a tali minuscoli locali sopravvenuti la sembianza di torri con un richiamo esplicito ai palazzi baronali, un’immagine che nobilitava i possessori del fabbricato. Il passo da opera di servizio a opera ornamentale è stato breve. In età contemporanea vi è una certa varietà di modi di reinterpretare le torri, non solamente a fini utilitaristi. Tra questi si cita, è il primo caso, la riproduzione idealizzata dell’ambiente in cui visse segregata Delicata Civerra alla quota terranea della torre Terzano di Campobasso. Il secondo caso è la trasformazione in studiolo d’artista per la pittrice Elena Ciamarra del piano sommitale della torre del castello di Torella la quale svetta sul resto dell’organismo architettonico, l’unico castello insieme a quello di Carpinone in cui vi sono torri che sopravanzano in altezza le pareti del mastio. Il terzo caso è quello della torre all’interno del castello di Vastogirardi, poligonale una configurazione geometrica che è un’autentica eccezione nel panorama delle costruzioni turriformi molisane, adattata a cellula abitativa; il riconoscimento del cambio d’uso è reso possibile dal decreto Salvacasa. La torre “abitabile” ha un precedente nella torre di Casalvatico di Cercemaggiore la quale è un’utile pietra di paragone per diversi aspetti. Uno è il fatto che quest’ultima presenta più vani di un’unica abitazione, uno per piano,
Un caso eclatante è la scuola di via Pietro Micca ad Agnone che è stata costruita mezzo secolo fa proprio nel cuore della parte storica della città, autentica città d’arte, a due passi dalla bellissima chiesa di S. Francesco. La sua forma deriva direttamente dalle indicazioni contenute nelle istruzioni ministeriali in materia di edilizia scolastica che non permettono alcun tentativo di “ambientazione”, cioè di riproporre caratteri del costruito tradizionale. Rimaniamo nella “capitale” dell’Alto Molise per trattare di un altro degli argomenti preannunciati che è la sostituzione edilizia. Nell’adeguamento del Palazzo Tirone a sede della Comunità Montana è stato previsto l’affidamento quale struttura portante della sala consiliare a un telaio in cemento armato affiancato alla muratura esistente e così è successo, anche con interventi più radicali, per diversi immobili del comprensorio altomolisano con i fondi per la ricostruzione ex sisma 1984. Rifacimenti completi di epoca recente, la categoria dei lavori è sempre la sostituzione edilizia, previo abbattimento dell’esistente sono, ma siamo fuori del centro storico anche se si è al cospetto di manufatti di interesse storico, quelli dell’ex SAM o ex ENEL che dir si voglia che da rimessa mezzi è diventata supermercato, della Taverna del Cortile per la quale non è contemplato il cambio di destinazione d’uso e, soprattutto, della ex GIL la quale ha subito una profonda rivisitazione delle funzioni, tutti e tre a Campobasso e dintorni.


Visto che ci troviamo nel capoluogo regionale ci restiamo ancora un po' in quanto il suo centro storico ci dà modo di introdurre la questione delle “lacune”. Sono da intendersi tali oltre che quelle fisiche, i veri e propri buchi nella massa edificata, quelle funzionali, lo stabile che ha ospitato l’Archivio di Stato il quale ora versa in uno stato di assoluta fatiscenza. La differenza tra lacune e vuoti, urbani, sta nelle dimensioni della superficie in cui non c’è nulla, nei secondi essa è molto più estesa. Un vuoto era l’attuale piazza di Busso adiacente al centro storico che si sviluppò lì dove un tempo c’era un’aia comune; uno spazio che non è più utilizzato per la trebbiatura, il quale invece di essere riempito da volumi è stato dotato di elementi di arredo urbano per farne un luogo di incontro. Anche a Campodipietra c’era un vuoto al centro del paese, una sorta di corte in comune tra le schiere edilizie che lo cingevano da ogni lato, una sorta di retro di queste cortine architettoniche, non visibile dalla viabilità circostante: togliendo un tassello di questa cintura di fabbricati, un corpo di fabbrica basso adibito a deposito posto di fronte alla parrocchiale il cui ingombro non consentiva di ammirare con agio la sua stupenda facciata, è venuto alla luce questa particella vuota che si presta a diventare lo slargo della chiesa. Rimangono da vedere le superfetazioni le quali non necessariamente sono oggetti sgradevoli, prendi la sequenza ininterrotta di bagni pensili in una via secondaria di Baranello, davvero caratteristica, e le sopraelevazioni che non è detto che per forza debbano essere eliminate, di sicuro non l’aggiunta volumetrica che si sovrapponeva alla chiesa di S. Mercurio a Campobasso la quale andava conservata, non tolta poiché segno storico. Incidentalmente si fa notare che un braccio dell’episcopio di Boiano non si pone sopra la chiesa di S. Erasmo bensì dentro, alla stregua di un soppalco. Una fattispecie di danneggiamento nel Molise non c’è ed è il diradamento, neanche a Termoli è venuto in mente di allargare il vicolo più stretto d’Italia tagliando delle fette degli immobili che lo delimitano.

PENSILINE NEL PAESAGGIO
La pensilina è un oggetto che non è oggetto di progettazione architettonica, bensì preformato come lo sono una vasta categoria di cose: dai lampioni per l’illuminazione alle pale eoliche, dalle cabine spogliatoio negli stabilimenti balneari ai bagni autopulenti installati, ad esempio, nella fiera del Corpus Domini a Campobasso fino ai recenti cassoni per la raccolta differenziata. Nell’elenco non si è inserita la cabina di trasformazione “secondaria” dell’Enel perché vi sono stati casi qui da noi, vedi quella in mattoni a Baranello, paese con una tradizione importante nel campo dei laterizi, la quale ha sul fronte una lunetta tripartita, in cui essa risulta frutto di un progetto specifico, non è cioè standardizzata. Le Corbusier diceva che l’ideazione di
qualsivoglia prodotto, appunto dal cucchiaio al grattacielo, richiede l’apporto dell’architetto. Per le entità ripetibili, soggette a produzione industriale, il progettista, o meglio il designer, interviene nella definizione della matrice dello stampo, oggi stampa in 3D, ed esse sono generalmente da collocarsi al chiuso, per altre, quelle da posizionarsi all’aperto, il tecnico deve confrontarsi con le caratteristiche del sito, adattando ad esso, volta per volta, la forma della realizzazione. Sinteticamente il design è per l’interno e l’architettura è per l’esterno. Il territorio molisano è ovunque di elevato interesse paesaggistico per cui un tema di grande rilievo è l’inserimento ambientale dei manufatti. Occorre, dunque, garantire la coerenza con il
paesaggio circostante delle pensiline. Dalla tradizione costruttiva non si possono trarre esempi ispiratori. Di certo, non vi erano corpi di fabbrica chiamati ad assolvere a compiti analoghi a quelli delle pensiline. È cambiato totalmente, oltre che assai accresciuto, il sistema di mobilità ed è aumentata la quota del trasporto collettivo. Quest’ultimo prevede, se guardiamo a quello su gomma e ai piccoli centri i quali sono privi di terminal bus, la raccolta su strada dei viaggiatori: di qui il fabbisogno inedito di pensiline a protezione degli utenti in attesa. Una via per perseguire la conformità di un fabbricato con l’ambiente è l’utilizzo dei materiali del posto o, perlomeno, impiegati nel patrimonio edilizio storicizzato.

Essi sono la pietra e il mattone, ma li si scarta a priori poiché essi sono deputati a costruzioni durature, non ad artefatti che devono essere potenzialmente spostabili, movibili per assecondare i mutamenti delle linee delle autolinee. Quelle relativamente stabili sono le pensiline che a mo’ di gazebo compaiono nei parchi pubblici per l’ombreggiamento delle persone sedute a riposare sulle panchine, sempre che l’area non sia alberata, le quali sono pensate unitariamente allo spazio verde di cui sono a servizio. Solo il legname tra le materie in uso nel passato fa eccezione e sarebbe raccomandabile per le pensiline lungo le arterie che corrono nei boschi, mimetizzandole con le piante se non fosse che il legno che è opaco cozza con un imprescindibile requisito prestazionale che le pensiline devono possedere, quello della trasparenza.
È fuor di dubbio che l’essere trasparente riduce l’incidenza visiva della struttura nei quadri panoramici e ciò compensa l’estraneità alle tecniche edificatorie di un tempo e nello stesso tempo l’essere l’involucro della pensilina trapassabile visivamente, dall’interno all’esterno, consente il pronto avvistamento dell’arrivo del pullman da chi sta nella pensilina, e, dall’esterno verso l’interno, permette un controllo sociale attraverso la vista di ciò che accade nella pensilina, una garanzia contro le molestie, evitando che si ingeneri uno stato d’ansia in chi vi staziona. Il contorno della pensilina è, pertanto, fatto da lastre in plexiglass o in vetro satinato il che, si aggiunge, conferisce leggerezza al manufatto che non significa, comunque, scarsa resistenza agli agenti atmosferici.
Le pensiline hanno bisogno oltre che della scontata copertura pure di pareti laterali per la protezione dal freddo, è un semiguscio, dalla neve e dalla pioggia, ambedue ventati, dal sole e dal vento quale fattore climatico a sé stante. Le pensiline possono essere formate da un’unica scocca oppure da un telaio, in genere di esile profilo, in stile, per così dire, minimalista architettonicamente parlando. Sono presenti diverse varianti della pensilina, in base al numero di individui che sono in grado di ospitare, alla dotazione o meno di sedili, di angoli per il deposito dei bagagli “a mano”, di posti, questi indispensabili, per accogliere passeggini e sedie a rotelle, per i quali occorre l’altrettanto indispensabile adeguamento alle norme sull’accessibilità del parco autovetture.
Affiancata o inserita nel volume della pensilina vi è la tabella con gli orari di partenza e di arrivo delle corse, così come sull’estradosso trovano posto, evitando comunque di provocare oscuramento dell’abitacolo, cartelloni pubblicitari. Il tettuccio, se non deve fungere da piano di appoggio di pannelli fotovoltaici nel qual caso è inclinato, è curvo, curvilineità ammessa per la copertura e, però, mai nella sezione orizzontale, le pensiline in planimetria sono costantemente rettangolari. Eppure una pensilina planimetricamente curvilinea, magari solo leggermente incurvata, costituirebbe un “segno” non banale, se non attraente. Per poter immaginare soluzioni innovative come quella della curvatura in pianta, esercitare la creatività anche in questo settore occorre optare per la lavorazione su misura al posto della prefabbricazione. Quale margine di libertà di scelta l’industria lascia solamente la facoltà di incremento dei moduli base consentendo l’accrescimento della dimensione delle pensiline in lunghezza (l’estensione in larghezza della pensilina porterebbe ad una sua configurazione quale tettoia ed è ciò che avviene nei termina bus di Termoli e Campobasso).

I NOMI DELLE BORGATE COINCIDONO CON I NOMI DELLE FAMIGLIE
Guardiamo cosa succede a S. Massimo, ma una situazione simile la ritroviamo anche in quasi tutti gli altri piccoli centri alle falde del Matese. Osservando da valle la distribuzione delle costruzioni rurali si nota una progressiva rarefazione delle stesse man mano che si sale in alto. In basso stanno le principali borgate, le 2 Canoniche, le Vicenne, S. Felice e i Grondari. Sulle prime pendici del monte si sviluppano le Cipolle un insediamento lineare in salita che, non supera la quota su cui si erge il paese, paese alla stessa quota ma distante in linea d’aria; la stessa cosa fa la frazione Monte S. Angelo che ha una evoluzione, su una dorsale inclinata, simile, anche se la continuità dell’edificato è minore a quella della Cipolla al quale annucleamento è parallelo. Oltrepassato il borgo i corpi di fabbrica diventano sparuti, in ordine sparso vi sono minimi aggregati edilizi, da un lato, del Pisciariello e dall’altro lato, dei Fiorilli e, poi, del Raffio il quale chiude la serie delle presenze insediative nell’agro, più su non c’è niente.
La predetta successione dei popolamenti extraurbani insediamenti sempre più minuscoli, segue quella delle colture agrarie che spariscono una volta che si è raggiunta la Pincera, località alla medesima attitudine del Raffio, la quale la si indica perché posta lungo la strada provinciale per Campitello e, quindi, ben identificabile, un punto certo. Di lì in poi l’agricoltura lascia il posto al bosco, prima, e, dopo, al pascolo. Ritornando ai nuclei abitativi agresti è interessante notare che la gran parte portano il nome di famiglie del posto e così abbiamo i Farrace, “di sopra” e “di sotto”, coincidenti con le due Canoniche citate, rispettivamente “superiore” e “inferiore”, i Tortorelli e i Micone che insieme formano le Cipolle già dette, i Fiorilli, anch’essi nominati in precedenza, gli Amici, il cognome esistente è D’Amico, che nella toponomastica ufficiale si chiamano Vicenne, si è menzionata prima, i Paoli, cognome invece sparito, che “all’anagrafe” si denomina S. Felice, i Grosso, ufficialmente Grondari, richiamato sopra e, infine, i Selvaggi.

Questa corrispondenza tra nome del luogo e nome del nucleo famigliare è rivelatrice del fenomeno verificatosi agli inizi del XIX secolo ovvero alla fine del feudalesimo della colonizzazione a seguito della spartizione delle terre feudali da parte di persone consanguinee di alcuni pezzi dell’agro, in gruppo non individualmente. Del resto sarebbe stata difficile la “conquista” di zone a tratti boscose per trasformarle, disboscandole, in campi da arare a opera di singoli. Di tale stato delle cose se ne lamenta il coevo Vincenzo Cuoco temendo che il dissodamento possa provocare per via del taglio delle piante l’innesco di frane, ma a discolpa vi è il fatto che la grande crescita demografica registrata nel nostro continente in quel periodo impose per soddisfare l’aumentato fabbisogno alimentare l’incremento di terre da coltivare. Un inciso: che siamo a non oltre 2 secoli fa, quindi non tanto tempo fa, è dimostrato dall’attribuzione alle contrade dei nomi coincidenti con i cognomi, non è un gioco di parole, di famiglie sanmassimesi tuttora presenti in loco. Il concentrarsi dei coltivatori, di solito parenti fra loro, nei descritti raggruppamenti abitativi permette di procedere congiuntamente a “scassare” il terreno per ricondurlo a coltura e ciò, il lavoro comunitario, ci fa riflettere sul fatto che si trattava di un’economia agraria in cui era assente la competitività.
Nel settore economico cosiddetto Primario la concorrenza non esiste, almeno ad una certa scala, quella delle aziende di taglia ridotta. Le unità aziendali di dimensioni contenute non sono portate a rivaleggiare fra loro, i prezzi dei prodotti agricoli esposti sui banchi di un mercato urbano come potrebbe esserlo il Mercato Coperto di Campobasso di solito sono uniformi, si reclama la bontà della merce, sovente a voce alta, ma il costo per segmento merceologico è uguale. Tale tendenza a non porsi in gara con gli altri produttori dell’identico bene deriva da un modo di sentire ancestrale che concepisce il frutto del lavoro della terra finalizzato all’autoconsumo, solo in seconda battuta al commercio. Ad ogni modo, occorre superare l’incapacità a cooperare attestata dai tanti tentativi falliti qui da noi di fondare cooperative, non basta che non vi sia una contesa fra gli operatori del ramo per quanto riguarda la vendita. Pur con l’annotazione formulata ora si è propensi ad immaginare che possano avere successo progetti a livello di territorio piuttosto che di impresa agricola una per una.


A differenza che nel campo industriale in cui le varie marche, mettiamo di dentifricio, si sfidano a colpi di campagne pubblicitarie per accaparrarsi il maggior numero di consumatori, in quello agricolo si promuove il prodotto unitariamente attraverso le DOP, DOC, IGT. Alle fiere campionarie dove si presentano gli artefatti fabbricati dalle industrie si contrappongono manifestazioni come ad esempio Cantine Aperte le quali tendono a valorizzare le attività del comparto enologico di un distretto. Si spera che la recente istituzione del Parco del Matese in cui ricade S. Massimo spinga alla creazione per i latticini di un brand unitario associato a questa notevole emergenza ambientale, tenendo conto che il latte, teoricamente, viene dalle vacche che in alpeggio brucano nei pascoli montani.
IL PENDOLARISMO NEI PICCOLI COMUNI

La crisi dei borghi è in effetti una crisi di sistema. Il sistema è il sistema territoriale costituito, in quasi ogni comprensorio regionale, da un centro di una certa consistenza demografica cui fanno riferimento per una molteplicità di servizi, commerciali, scolastici, terziari in genere, i comuni che vi stanno intorno, una sorta di entità satelliti.
Per l’alto Molise il polo che eroga tali prestazioni, diciamo così, di tipo direzionale è Agnone, per il medio Trigno è Trivento, per l’area del Fortore molisano è Riccia, per l’ambito matesino è Boiano e così via. La perdita di funzioni che ha colpito queste cittadine intermedie tra paese e città (le uniche città nel Molise sono i due capoluoghi di provincia e Termoli) con la soppressione di alcuni istituti di istruzione superiore (a Larino non c’è più il liceo classico), la chiusura, da molto tempo, delle Preture, l’eliminazione, da poco tempo, delle Comunità Montane, per citarne alcune, nell’indebolire la struttura socioeconomica dei comuni in cui erano insediate provocano a catena la riduzione delle opportunità di servizi per gli abitanti dei paesi circostanti ad essi; ne diciamo una, viene impedito di poter usufruire di scuole secondarie nelle vicinanze di casa. Oltre al peggioramento
della situazione di contesto giocano negativamente nel decadimento dei borghi anche la fine dell’artigianato, resiste solo la fabbricazione dei coltelli di Frosolone, e il declino delle attività agricole, zootecniche e forestali, cioè di tutto il comparto primario delle cosiddette aree interne. Le conseguenze sono una vistosa diminuzione degli occupati che ha portato progressivamente, i flussi migratori più consistenti si sono avuti negli scorsi anni ’60-’70, insieme alla carenza di attrezzature civili di cui si è detto, ai minimi termini la popolazione, non solo la degli “attivi”, che li vive. Il numero di abitazioni rimaste vuote è altissimo e non si riescono a individuare soluzioni valide per riempirle nuovamente, cioè per il ripopolamento. Le proposte formulate dai Sindaci sono molteplici, quella maggiormente ricorrente è la vendita di case a 1 euro.
Si tratta di una cifra simbolica che è poco più che uno slogan, addirittura potrebbe apparire come una soluzione liquidatoria. Il problema della rivitalizzazione dei borghi non ammette ricette semplificate. Aver avuto in regalo un edificio che è collocato, mettiamo, in un vicolo ormai deserto a fianco di fabbricati fatiscenti non invoglia, di certo, a trasferirsi in quel comune. Occorrono, piuttosto, progetti di rigenerazione urbana con la configurazione di offerte abitative aderenti ai nuovi modi di vita e diversificate in base alle varie tipologie familiari e sociali e con alloggi dalle prestazioni energetiche elevate, meglio se facenti parte di Comunità Energetiche. Solamente una visione “futurista” potrà salvare gli agglomerati “tradizionalisti”.Non è futuribile bensì attuale la prospettiva occupazionale derivante dalla introduzione dello smart working come modalità di lavoro sostituendo la scrivania dell’ufficio con quella casalinga.

Così i borghi potranno diventare attrattivi per i giovani i quali sono disposti al cambiamento non solo per una questione generazionale ma perché sono cresciuti quando la comunità era ormai in corso di abbandono, senza nostalgia perciò per il mondo tradizionale che non hanno mai vissuto e perciò sono disponibili a reinventare il proprio paese. Parliamo adesso di un problema specifico della vita quotidiana di tanti che vivono nei paesi che è quello del pendolarismo casa-lavoro, dello spostamento giornaliero dei lavoratori residenti nei comuni delle “aree interne”, i centri minori, verso le sedi delle attività produttive o degli enti in cui sono impiegati, in genere collocate nei centri maggiori. Si ritiene sia una tematica, o meglio una problematica decisiva la cui risoluzione-attenzione, non si è detto abolizione – potrebbe favorire la permanenza nei posti di origine di molte famiglie.
Risoluzione, lo si ripete, che qui non si intende come eliminazione ma come miglioramento delle condizioni di trasporto. Non è, in definitiva, un obiettivo minimo piuttosto un obiettivo concreto. Per diverse persone, una quota magari non maggioritaria del totale, l’essere pendolare viene sentito più che come un problema una opportunità utilizzando la nota espressione vichiana, non, di certo, quelli che sono costretti ad usare l’auto privata per raggiungere i luoghi di lavoro, non essendo questi serviti da mezzi pubblici perché non localizzati in Zone Industriali o all’interno di agglomerati abitativi, cioè le aziende del terziario. Troppo stress per la guida e troppi costi dover usare la propria automobile. Anche per evitare l’inquinamento dell’aria prodotto dai gas di scarico questa tipologia di pendolarismo dovrebbe scomparire, c’è poco da migliorare.

Tutt’altro discorso per chi viaggia in treno o in autobus: la distanza, non chilometrica bensì temporale che separa la postazione lavorativa dalla residenza può servire a creare un distacco, più che fisico psicologico, tra i due ambienti, a separare la dimensione del lavorare, con i relativi pensieri, da quella famigliare, a far stemperare la tensione accumulata durante l’esecuzione delle mansioni assegnate; stiamo parlando, lo si sarà capito, del rientro. Tutto ciò se il tragitto non è superiore, come durata, a mezz’ora poiché se si sorpassa tale soglia si possono avere effetti negativi sull’equilibrio psicologico di un individuo sottraendogli, è il danno principale, ore al sonno specialmente mattutino. A parte i riflessi deleteri sulla salute qui si vuole segnalare un’altra conseguenza negativa del tempo passato viaggiando è che esso va a detrimento della possibilità di frequentare una palestra, di seguire qualche corso formativo, di non poter sfruttare quelle opportunità ricreative che sono presenti in loco, anche una semplice passeggiata o l’incontro con gli amici, cose molto importanti per la qualità dell’esistenza. L’ottimale per il trasferimento da casa a lavoro sarebbe il quarto d’ora secondo lo slogan propugnato oggi dagli urbanisti della “città a 15 minuti”, non a 30 minuti, la mezzoretta di cui sopra, non è assolutamente realistico proporre il km. 0 tra casa e lavoro.
Vedendo ora le cose da un altro punto di vista, quello di Campobasso che è la meta più “accorsata” dei lavoratori pendolari, dobbiamo evidenziare che se non è bello che di giorno i borghi si spopolino per via del fenomeno del pendolarismo non sarebbe neanche bello il contrario, cioè privare la città dei pendolari in quanto essi sono parte integrante della vita cittadina. Il capoluogo di regione, infatti, sembra animarsi, in particolare la zona centrale dove sono gli uffici, al mattino e al pomeriggio, i due momenti topici dello sbarco e della dipartita dei pendolari. Questo flusso in entrata e in uscita di persone dal nucleo urbano ha acquisito il valore di un fattore identitario rappresentando un’immagine caratteristica della “capitale” del Molise. Forse, però, è solo un fatto sentimentale, un modo di sentire romantico, non è politically correct ed allora è da auspicare l’aumento di ore di smart working per permettere agli impiegati di non muoversi dal bucolico villaggio natio con buona pace dell’interscambio tra le persone, della frequentazione di ambienti differenti, metà giornata, il lavoro, da una parte e metà, il tempo libero, dall’altra, degli stimoli che ricevono gli individui nel partecipare ad una dimensione metropolitana in cui la città e i comuni vicini non sono entità distinte e separate, il nostro spazio esistenziale sempre più nel futuro.
I TANTI MODI DI INTENDERE L'ARTE URBANA
C’è una differenza tra arte pubblica e arte negli spazi pubblici ed è sostanziale.
La seconda è quella legata ad un modo di sentire personale dell’autore, una espressione dei propri sentimenti, una sua creazione che può giungere anche ad essere in contrasto con la sensibilità generale, mentre la prima contiene, appunto, contenuti emozionali condivisi da tutta, o gran parte, della comunità. Si pensi a questo proposito a diversi murales comparsi sui muri di Campobasso che hanno quale contenuto il rifiuto della guerra, siamo al Terminal, o la rappresentazione dei “grandi della Terra” posti l’uno accanto all’altro, un auspicio alla concordia, nel quartiere di S. Giovanni dei Gelsi, oppure ancora il piacere di muoversi in bici in città, in via Trivisonno. Almeno per i murali realizzati sulle facciate dei condomini sarà necessario, di sicuro, chiedere il consenso ai condomini dello stabile anche in riguardo al soggetto trattato nella rappresentazione pittorica, oltre che l’assenso della municipalità e, quindi, della cittadinanza nella sua interezza, non solo di chi vive nel quartiere.
Può essere tanto arte pubblica quanto arte negli spazi pubblici, lo si ricorda l’una che affronta temi di interesse comune, l’altra che è il frutto di uno stato d’animo individuale, quello dell’artista, le operazioni artistiche che mirano a riqualificare luoghi degradati, l’importante è che li si recuperino; in questo senso si sarebbe potuta accogliere la proposta formulata di sua sponte da un privato, che poi sarebbe stato l’esecutore del lavoro, di installazione della sagoma di un guerriero sannita nella ex cava di Civita Superiore a Boiano. Ancora peggio dei luoghi che hanno subito alterazioni sono i cosiddetti non-luoghi ai quali occorre conferire una identità. Il caso rappresentativo di quest’ultima categoria di luogo è la rotonda viaria posta all’ingresso del Terminal degli autobus del capoluogo regionale dove è stata collocata una statua di Pasquale Napoli. La stazione dei pullman come quella dei treni sono dei classici non-luoghi, non-luoghi a tutto tondo perché aventi una destinazione esclusivamente funzionale, la funzione è la mobilità, non sono polifunzionali come si converrebbe ad un luogo urbano;

qui accanto agli stalli per le fermate si potrebbe immaginare la predisposizione di spazi per l’intrattenimento dei passeggeri in attesa. Gli svincoli, sempre a Campobasso, sono alla ricerca di una immagine autonoma da quella della infrastruttura stradale: in quello che sta a Colle delle Api sono posizionate le 6 torri, in miniatura, che sono il simbolo della città, nello spartitraffico di via Mazzini vi è la riproduzione in piccolo della Grotta di Lourdes, un ulteriore richiamo religioso vi è nell’aiuola posta tra via Mons. Bologna e via Trivisonno dove forse sarebbe stato utile un salvagente per l’attraversamento di questo punto cruciale della viabilità cittadina. Nei crocevia, comunque qualsiasi oggetto di una certa dimensione rischia di ingombrare la visuale degli automobilisti e nel caso pure che fossero opere d’arte vengono viste con distrazione dagli stessi intenti a imboccare la direzione giusta.
Con questa sottolineatura si vuole anche dire che l’arte pubblica e l’arte negli spazi pubblici, le due tipologie di cui sopra, non è indispensabile che siano poste in siti che godono di grandi visibilità. Il Poeta di Casacalenda, conosciutissimo, sta in un bosco lontano dagli occhi della gente, le persone per vederlo devono andare a cercarlo nel folto di una distesa boschiva a una qualche distanza dall’abitato. Tra le arti vi è anche l’architettura la quale viene concepita a volte alla stregua di manufatto iconico, quasi fosse un monumento, assimilabile a un monumento scultoreo, una sorta di archiscultura il che la fa rientrare nella fattispecie dell’arte pubblica. L’esempio più calzante in riguardo è la Piramide di Campitello diventata una icona della località sciistica; a proposito di ciò, cioè a proposito di una struttura architettonica che assurge al rango di bandiera di un insediamento è da evidenziare, ad ogni modo, che i vessilli di un agglomerato urbanistico sono destinati a cambiare in continuazione. Allorché si è esaurito l’effetto novità l’attrattività di quell’aggregato urbano tende ad essere affidata ad un corpo di fabbrica sopraggiunto, è la legge della pubblicità turistica che richiede sempre nuovi motivi di interesse per attirare visitatori. Nella stazione di sport invernali matesina si è passati come richiamo pubblicitario dall’edificio a ferro di cavallo del Montur alla Piramide giustappunto.


Con i fabbricati edilizi siamo passati all’arte urbana di grande scala e adesso torniamo agli artefatti minuti spostandoci a quelli, in verità uno solo, il cosiddetto ricciolo che è ai piedi della Collina di San Giovannello a Campobasso per parlare di 3 aspetti dell’urban art. Il primo è che non è detto che le opere debbano essere per statuto espressioni artistiche da contemplare ma che le si può toccarle, addirittura infilarvisi dentro, come succede nel predetto ricciolo, come se fosse un gioco per bimbi, il “parente” di un’altalena. Il secondo è che le realizzazioni di arte urbana non è obbligatorio che siano seriose, è consentito che siano gioiose ovvero giocose, vedi il ricciolo, rimanendo, è ovvio, creazioni colte. Il terzo è che, va da sé, siano pezzi unici, non repliche di cose viste altrove né intese come attrezzature da parco-giochi, prodotte in serie, con buona pace di Walter Benjamin e della sua teoria sulla “riproducibilità dell’opera d’arte”. Il ricciolo è fatto in pietra peraltro e ciò garantisce sulla sua durabilità nel tempo, non è soggetto a deperimento il materiale calcareo a differenza del legno di cui sono fatti i supporti degli scivoli e i castelletti e tante componenti delle giostrine. Infine, il ricciolo non è smontabile, è un pezzo unico in tutti i sensi, e per il suo peso non è trasportabile.
IL MUSEO DI ARTE CONTEMPORANEA DI CASACALENDA

Non c’è un museo di arte contemporanea uguale all’altro. Sarà perché è una categoria museale estremamente recente non è ancora arrivata ad una definizione compiuta della sua organizzazione spaziale. Siamo ancora nella fase di sperimentazione delle soluzioni architettoniche, ognuna diversa dall’altra. È in corso un processo che si immagina che sarà simile a quello che ha, a cavallo tra XIX e XX secolo, portato alla fissazione delle tipologie architettoniche delle nuove attrezzature urbane, dal carcere alla stazione ferroviaria, al mercato. Il percorso è composto dalla messa a punto di modelli, in un certo numero, i quali sono rappresentati dalle realizzazioni concrete o ideazioni rimaste sulla carta a cui è seguito un vaglio critico consistito nella verifica dell’appropriatezza di ciò che si è costruito o progettato rispetto allo specifico tema, lo si ripete, tanto un’opera igienica quanto una culturale, pronta per essere replicata, magari con alcuni adattamenti, connessi a situazioni contingenti, all’infinito. Vale la pena aggiungere che alla base di tale operato vi è il pensiero di teorici settecenteschi che propugnavano il legame tra “forma” e “funzione”. Esso è necessariamente biunivoco per cui ad una particolare esigenza funzionale, mettiamo l’esposizione di creazioni di arte contemporanea, deve corrispondere una precisa architettura e viceversa. Tutto questo, nel campo di cui ci stiano occupando, non è a tutt’oggi avvenuto come detto all’inizio, sarà perché tanti progettisti, a cominciare dalle archistar, concepiscono il museo piuttosto che un contenitore efficiente di espressioni artistiche, un’espressione artistica esso stesso. Del resto è questo che chiedono loro gli stessi committenti ritenendo che il miglior veicolo pubblicitario di una raccolta di opere d’arte sia proprio la sua veste formale, l’involucro che la contiene, la cui immagine, perciò, deve essere accattivante. Le considerazioni espresse non valgono per ogni museo, specie per quelli che sono dedicati all’arte classica, la cui aura, in qualche modo, solenne striderebbe, a meno che non si tratti dei lavori dei Futuristi, con, di nuovo in qualche modo, l’aggressività della struttura edilizia (Pei nel Louvre, il tempio della classicità, è innovativo per via dei materiali utilizzati, l’acciaio e il vetro, ma la sua piramide è un solido geometrico che rimanda all’antico). Le collezioni museali di opere dell’antichità, di età medioevale, di arte rinascimentale o neoclassica ben si prestano ad essere ospitate in palazzi, come si usa dire, d’epoca, mentre qualche perplessità la suscita la loro destinazione a musei d’arte contemporanea. A Casacalenda succede propriamente così perché la Galleria Civica d’Arte Contemporanea ha sede nel palazzo municipale che è del primo ‘900. Comunque, la collocazione delle opere è al secondo piano del Municipio (il terzo livello se si conta da via Roma e il secondo se, invece, lo si fa da via De Gennaro che è, poi, il vero ingresso della Galleria) il quale è il preesistente sottotetto recuperato nel restauro dell’edificio eseguito alla fine degli anni ’80.


È da osservare che un soffitto è un luogo nella fantasia popolare carico di mistero essendo inabitato, destinato a conservare gli oggetti, non più utilizzati, di un tempo, qualcosa di non lontano dai prodotti artistici, almeno per il fatto che anche questi ultimi sono manufatti di alcuna utilità (corrente) e la finiamo qui su tale raffronto. Le mansarde sono efficienti specie quando hanno il solaio a vista che fa molto di rusticità o di archeologia industriale alla stregua di un’officina o di un deposito, se le dimensioni dei locali sono ampie, come si ha a Casacalenda. La Galleria è ripartita in 3 vani i quali, è una caratteristica dei sottotetti, non hanno finestre (neanche a filo di falda, peraltro) e dunque per l’assenza di illuminazione diretta non avrebbero potuto avere destinazioni d’uso ordinario e ciò deve essere stata una delle ragioni che spinse l’amministrazione comunale a renderli disponibili per mostre, oltre che, ovviamente, la sensibilità culturale. L’assenza di aperture nelle pareti ha permesso di “appendervi” i quadri. I dipinti costituiscono, non certo per tale motivo, la maggioranza delle espressioni d’arte qui presenti, ma non mancano installazioni d’artisti, si noti non sculture, la cui presenza è consentita dalla larga superficie vuota disponibile negli ambienti, aspetto molto apprezzato nell’arte contemporanea. La pittura, però, lo si rimarca, rimane la branca figurativa privilegiata, la più rappresentata. La generosità dello spazio in queste grandi sale non produce un effetto dispersivo e, anche per l’assenza di vedute verso l’esterno, è garantita la concentrazione di chi osserva pure in presenza di affollamento (negli eventi di richiamo). Si ritiene di dover evidenziare, per completezza, che in prossimità dell’entrata di monte, quella di via De Gennaro, vi è una corte coperta con copertura amovibile che si presterebbe, accanto all’usuale impiego per convegni, lezioni e conferenze (non per spettacoli perché la cittadina è dotata di un prezioso teatro comunale), all’effettuazione di happening tenuti da performer nei quali il pubblico è chiamato a partecipare all’azione dell’artista, basta liberare in tali occasioni questo ex cortile dalle sedie. Il museo non è solo conservazione di oggetti. In definitiva, l’area assegnata alla Galleria è abbastanza informale e di conseguenza non riesce a intimidire le persone, al contrario dei musei “ufficiali” siti in immobili di livello (in verità pure questo lo sarebbe se non fosse che la raccolta occupa il terzo “livello”, il soffitto), che diventano un’aulica casa delle muse. Riprendiamo ora la questione, per arrivare a delle conclusioni, con la quale siamo partiti, quella della ricerca tipologica che meno si è spesa, è bene sottolinearlo, nello studio dell’adattabilità di fabbricati esistenti all’uso quale sede museale; l’esperienza di Casacalenda sembra dimostrare che ciò è fattibile anche perché, in effetti, un museo, ridotto all’osso (quindi senza bookshop, caffetteria o non so che), è, dal punto di vista distributivo nel senso di espositivo nella versione minimale, un problema progettuale facile da risolvere, non essendovi speciali vincoli funzionali da rispettare. La visita al museo è, in effetti, un percorso da compiere: l’allineamento delle stanze della nostra Galleria o un corridoio, specialmente quando si tratta di una quadreria (ad es. il Corridoio Vasariano), sono il cosiddetto minimo sindacale. Percorso che prosegue a Casacalenda al di fuori del palazzo civico per vedere opere che sia perché site specific sia per la loro grandezza non possono essere contenute dentro; un’autentica teoria di opere, 20, si sviluppa nel centro abitato e financo in campagna per merito di quella ormai trentennale iniziativa di contaminazioni urbane di Kalenarte la quale si associa all’istituzione del Museo all’Aperto di Arte Contemporanea (MAACK).


IL POETA DI CASACALENDA
È un intervento artistico particolare, con molteplici particolarità per cui sollecita una molteplicità di riflessioni. Ci concentreremo su tre aspetti cominciando da quello della sua monumentalità al quale seguiranno quello della sua collocazione nel bosco e quello della sua, diciamo così, ritrosia a farsi ammirare. Non è una scultura e, peraltro, non ha neanche la pretesa, o l’aspirazione, di esserlo anche perché, al di là di tutto, non è a scala umana a differenza, con l’eccezione del celebre Colosso di Rodi, della generalità delle opere scultoree; in specie di quelle che intendono raffigurare l’uomo come fa il colossale, aggettivo non casuale, individuo pietrificato di Casacalenda. Si è citato incidentalmente il Colosso di Rodi e, però, non è stato un mero incidente in quanto tale citazione è funzionale pure ad un altro ragionamento che è il seguente: la grandezza inusitata di questa statua suscitò un’enorme meraviglia nell’antichità da divenire una delle 7 Meraviglie del Mondo, cosa, la dimensione fuori scala, beninteso umana, che oggi non stupirebbe particolarmente dati i mezzi tecnici che abbiamo attualmente per realizzarla. L’installazione di Kalenarte è stata resa possibile dai montacarichi a motore per sollevare le pesanti lastre lapidee che la compongono, dai camion per il trasporto di tali lastre, dal cemento, il materiale simbolo della modernità, per renderle solidali l’un l’altra. Su un simile intervento le questioni logistiche devono aver avuto un notevole peso tanto più che non si è trattato di un cantiere ordinario, bensì in ambito forestato, si pensi al transito a zig-zag dei veicoli tra le piante. Il secondo dei tre punti da trattarsi è proprio quello dell’inserimento dell’arte-fatto art-istico in una superficie boscata. Si è innestato un elemento antropico, e per di più grosso, l’uomo di pietra, in un ambiente naturale, il bosco è il massimo della natura, ed è evidente che ci sarebbe stato un qualche attrito tra questi due fatti completamente diversi fra loro. Tale distonia è emersa con forza al momento del taglio, programmato della sezione boschiva (parole del gergo tecnico) in cui rientra l’uomo di pietra: essa ha messo a nudo, letteralmente, il gigante calcareo che è rimasto scoperto, o meglio coperto solamente dal muschio e dai licheni che vi si sono aggrappati sopra nel tempo. È un’immagine, quella della nudità di quest’omone, non di certo oscena, che nell’arco di vita di una persona si ripresenterà, ciclicamente, quattro volte; infatti, il turno della ceduazione


(ancora un termine tecnico gergale) per il cerro è di venti anni, mentre la nostra esistenza ha durata, in media, di ottant’anni. In tali scadenze ventennali il misterioso personaggio rimasto impietrito per chissà quale ragione rimane completamente denudato, ma ciò si verifica anche, anche se in maniera parziale, dalla “cintola in su” direbbe il Poeta, con cadenza, ovvero scadenza, bistagionale allorché in autunno cadono le foglie delle essenze arboree di latifoglia che formano questo querceto. In qualsiasi caso, sia nel caso della fluttuazione delle stagioni, sia nel caso dei turni di taglio stabiliti dalle norme forestali, l’uomo di pietra, concepito, o così mi pare, per rappresentare la condizione esistenziale contemporanea di essere un essere isolato nella folla, impersonata quest’ultima dagli alberi che affollano, appunto, il boschetto, solo temporaneamente è solo, decontestualizzato; ogni primavera il fogliame ricrescerà, ogni due decenni le antiche e vigenti tutt’ora regole del ceduo, nuove piantine si svilupperanno dalla base dei tronchi abbattuti. Cambiando ipotesi interpretativa, quel che succede nel bosco di Casacalenda può essere sentito come la contrapposizione tra il mondo minerale, simboleggiato dall’uomo di pietra, e quello vegetale, la formazione boschiva; il primo è immutabile, si pensi alle rocce, il secondo è in perenne evoluzione, è soggetto a fasi alternate di crescita e di deperimento, è in continua trasformazione. Va, comunque, segnalato che, per legge nazionale, è vietato mutare la destinazione del suolo coperto da vegetazione forestale e ciò ne garantisce la perpetuità. Ciò che potrà succedere è che a modificare la scena pensata dall’artista ora assimilabile ad uno scenografo non è la distruzione del bosco, il fondale del palcoscenico, la tempesta Vaira qui non è preventivabile, quanto piuttosto il crollo dell’uomo di pietra, il protagonista assoluto, a seguito di una violenta scossa sismica il territorio essendo ad elevata sismicità; beninteso sempre che l’area non diventi teatro, adesso una tragedia teatrale, di eventi bellici, al momento uno scenario (sinonimo di scena) non credibile anche se viviamo in tempi di guerra. In un’operazione di Land Art il prodotto autoriale si relaziona al contesto paesaggistico in cui viene calato e da qui scaturisce il rimando alla messa in “opera” proposto nel periodo precedente. Per concludere su questo punto, il n. 2 della serie che ci si era prefissa, il bosco, essendo intangibile, è il luogo più sicuro per le azioni di Land Art; esse altrove rischiano di venire vanificate, subire la perdita di senso a causa della modificazione dell’intorno. Infine, finalmente, siamo giunti al terzo aspetto che è quello della scelta dell’autore di realizzazione della sua creazione in un angolo defilato
e gli indizi che lo fanno presupporre sono tre. I primi due sono connessi all’ubicazione in un areale piantumato in cui è facile mimetizzarsi nascosti fra le piante e in cui regna l’oscurità impedendo le fronde della fitta piantumazione la penetrazione della luce. Il terzo segnale di quanto poco interesse l’artista abbia verso gli sguardi del pubblico è la scelta di ubicare il suo lavoro lontano dall’abitato. Tutto ciò contrasta con il suo essere, quantomeno per la stazza, spettacolare, non, di certo, un oggetto discreto; è contraddittorio, lo si ammette, però è così. La ricerca di riservatezza da parte dell’opera d’arte è plausibile sia connessa al rifiuto di interagire con i luoghi della quotidianità per sottrarsi al meccanismo dell’assuefazione della vista. Desidera venire scoperta a seguito di una qualche fatica, anche quella di individuare la località, le sue coordinate geografiche; si noti che non si è usata l’espressione “venire alla luce” perché il bosco è scuro ed è tale sia di giorno che di notte quando il buio si accentua e la visione dell’uomo di pietra acquista un non so che di spettrale, un autentico effetto speciale che non si sarebbe potuto ottenere nel centro urbano per via dell’illuminazione cittadina. E, poi, mettete, mettendovi nei panni di questo uomo, cosa c’è di meglio che stare in contatto con la natura.

L’opera di Costa Varatsos denominata Il Poeta è posta in un bosco nei dintorni di Casacalenda e questa è già un’annotazione significativa perché fatta com’è di pietra “al naturale” (anche se non pietre del posto) avrebbero avuto minor senso se fosse stata realizzata in un luogo urbano. Infatti, essendo il suo significato il legame uomo-natura in ambito cittadino non si sarebbero potuti reperire materiali naturali da utilizzare, è scontato. La land art, corrente artistica cui appartiene l’opera casacalendese, ha tra le sue caratteristiche precipue proprio l’uso di oggetti appartenenti alla dimensione naturalistica, quest’ultima è la sua essenza più profonda. In ciò si distingue dall’ “arte minimalista” e dall’ “arte povera” pur avendo con esse alcune affinità. Anche se non è escluso che nell’ “arte
ambientale” si impieghino quale “materia prima” materie di riciclo, meno costose, come è stato fatto nel monumento antistante il palazzo dell’INAIL a Campobasso, specificando che non va confusa la parola ambientale con sostenibile. Nella creazione di Varatsos l’adesione all’ambiente è assai più marcata poiché si sfruttano elementi del mondo naturale così come si trovano “in natura”, senza manipolazioni, senza trasformarli in nessun modo. Qui i pezzi lapidei sono tenuti insieme dal cemento e quindi vi è un manufatto duraturo, ma talvolta si adoperano componenti minuti dell’ambiente per effettuare installazioni temporanee ed è il caso del lavoro di Agostino Senese sulla non distante spiaggia adriatica, a Campomarino il quale con la sabbia e con i sassi disegna cerchi destinati evidentemente a sparire, non c’è niente di più mobile di un arenile.

La pietra, quella di Costa Varatsos è resistente nel tempo, anzi è l’emblema della durata al contrario di composizioni formate da materiale sabbioso il quale è effimero per antonomasia. Nel ribadire che il Poeta è un “oggetto” permanente nel medesimo tempo si deve rilevare che il contesto in cui ricade non lo è. Il Poeta vive in simbiosi con gli alberi al contorno, Varatsos ha tratto ispirazione proprio dalla formazione arborea che connota il sito per cui una volta, è successo qualche anno fa, che si procede al taglio della particella boschiva l’opera viene ad essere decontestualizzata. Tra i precetti da seguire nell’adesso, eseguire un’azione di land art vi è quello di non procedere al modellamento del terreno oppure all’eliminazione di alberi, salvo lo stretto indispensabile per installare l’opera d’arte. Qui sono state tolte solo le piante che occupavano lo spazio in cui piantare, termine nella situazione in questione appropriato, il capolavoro, è un autentico capolavoro quello di Costa Varatsos.
L’esperienza di Casacalenda ci insegna, il fatto che l’operazione nel momento dell’effettuazione della ceduazione sia divenuta monca, la “statua” senza i fusti di quercia tutt’intorno, che un progetto di land art per risultare completo richiede l’acquisizione dell’appezzamento di terreno di una certa estensione nel quale rientra il “segno” artistico. È un po’ come in una sala museale dove occorre curare il modo di esporre il quadro o cultura che sia, tanto più che qui lo spazio espositivo, il bosco, è parte integrante della creazione d’arte. Si potrebbe procedere da parte delle autorità preposte alla tutela del paesaggio all’apposizione di un, per l’appunto, apposito vincolo il quale, comunque, costituirebbe un unicum per una fattispecie del genere da noi, oppure più realisticamente, all’acquisizione della proprietà del suolo per una sufficiente ampiezza da parte del Comune, magari destinandolo a giardino pubblico, nella tenuta Caradonio De Blasio, il che non appare irragionevole.


Esempi da cui trovare spunti per la soluzione di questo problema in territorio regionale non ve ne sono, ma subito dopo il confine sì, nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise in cui sorge, in un’area boscata, Arteparco il quale ha, però, una problematica differente in quanto contiene una pluralità di opere d’arte contemporaneo che ne fa un museo a cielo aperto, non un’unica come a Casacalenda. Occorre a questo punto per questo punto che si è appena trattato, quello dell’alterazione dell’ambiente, tranquillizzare gli amatori del Poeta che per il bosco, in base alla normativa vigente, non è ammesso il cambio di destinazione d’uso e ciò lo fa, su per giù, intoccabile. Ben diverso sarebbe il pericolo se la località fosse interessata da una rettificazione della Sannitica, il che non è teoricamente impossibile, la quale comporterebbe una radicale trasformazione del paesaggio e, peraltro, rapida, altro che il ventennio che deve trascorrere tra due turni di taglio. Il Poeta verrebbe ad assomigliare, essendo, presumibilmente, non troppo distante dal nuovo tracciato della statale 87, al Sannita dello scultore Mario Cavaliere sulla superstrada tra Campobasso e Benevento in agro di Fragneto M. eccetto che per l’altezza nonostante l’alto piedistallo su cui poggia il guerriero dell’antico Sannio, più alto della stessa statua, cosa davvero inusuale.

Già la land art propriamente detta è ricca di numerose varianti le realizzazioni dipendono oltre che dalla volontà espressiva dei singoli autori dalle specificità dei siti in cui si inseriscono, ma se a questa si aggiunge l’arte urbana allora le manifestazioni nelle quali l’arte all’aperto, l’insieme delle due arti sopradette, si invera diventano di quantità pressoché illimitata. A Casacalenda dove vi sono tanto creazioni di land art, ovviamente nell’agro, quanto di arte urbana, cioè cittadina, ve n’è un autentico campionario. Noi, però, per illustrare tale ampia diversificazione tra tali opere non partiremo da qui bensì da un altro comune, S. Giuliano di Puglia. In questo centro così gravemente colpito dal terremoto del 2002 è nato il Giardino della Memoria per ricordare i bambini e la loro maestra uccisi dal crollo della scuola. Il progetto consiste nella “piantagione”, sono effettivamente piantati, di steli artificiali, una sorta di canne, non naturali simboleggianti le vittime i quali ondeggiano mossi dal vento. È da dire che la progettazione ha quale fine il compianto delle vite umane e nello stesso tempo la celebrazione del vento che è una forza della natura, un elemento vitale. Di quest’ultimo non si sente il rumore che è solitamente prodotto dalla spinta che esercita sulle fronde degli alberi,
gli steli poiché non hanno foglie non si oppongono alle folate di vento, le assecondano piegandosi. È una scena muta in quanto manca l’acustica, è uno spazio silenzioso come si conviene ad un luogo di meditazione. Manca pure il canto degli uccelli mancando le piante sui cui rami poter fare i nidi. Ciononostante l’effetto anche senza il sonoro è di un posto animato. Gli steli che di sera si illuminano, sospinti dalle folate o semplici aliti di vento dondolano fanno pensare a qualcosa di organico se non vivente, è viva la memoria delle persone defunte. Il vento, dunque, come materiale progettuale. Si ripete, le opere di ambient art siano esse collocate nel paesaggio, siano esse situate nell’ambito urbano sono differenti fra loro, non ve n’è una uguale all’altra, sono degli unicum proprio come questo Giardino di S. Giuliano di Puglia. Tornando a Casacalenda che si è detto è caratterizzata dalla presenza di espressioni sia della land art sia di arte urbana, vediamo ad un tempo opere spettacolari (il Poeta, l’uomo di pietra alto 9 metri nel bosco), che creazioni discrete (le alzate colorate con colori differenti dei gradini di una scalinata nel nucleo abitativo), si è andati dall’enorme al minuto, una grande divaricazione dimensionale

fra le opere. Lasciando nuovamente Casacalenda e ponendoci rasoterra, cioè al livello del terreno troviamo anche a questa quota, quota zero, forme minimali di land art, le lucine proposte per illuminare il percorso pedonale che conduce al castello di Roccamandolfi, e di arte urbana, la targa metallica applicata sul marciapiede antistante la casa dove abitò Giuseppe Tucci un campobassano deportato in un campo di concentramento nazista. Ci intratteniamo ora sui monumenti classici nonostante non siano in stile contemporaneo che è quello adottato normalmente nelle opere di arte urbana; in verità c’è un’eccezione a questo riguardo ed è la scultura in piazza XX Settembre a Isernia, una persona stilizzata con le braccia alzate per implorare pietà o secondo una diversa interpretazione per proteggersi dal bombardamento.
Quasi ogni comune ha il suo Monumento ai Caduti, finanziato dai concittadini, oggi per la gran parte decontestualizzati a causa dell’eliminazione degli alberi ognuno dedicato ad un soldato perito in guerra facenti parte di Parchi e Viali delle Rimembranze, l’unico rimasto è quello del capoluogo regionale. Le amministrazioni comunali, ad eccezione, lo si ripete di Campobasso, hanno nel tempo tolti tali alberature per far posto a parcheggi, spazi-giochi, ecc. Di personaggi celebri il Molise ne ha avuti molti ma pochi hanno avuto l’onore di aver avuto riprodotta la propria immagine in bronzo e in marmo, materiali che garantiscono una durata perenne. Solo Gabriele Pepe tra questi è a figura intera, degli altri si è fatto solo il busto; i mezzobusto vanno da Antonio Cardarelli, Luigi D’Amato e Francesco D’Ovidio nella città-capoluogo a Enzo Selvaggi a S. Massimo per citare un comune grande e uno piccolo. Invariabilmente come succede per i Monumenti ai Caduti essi ricadono in un giardinetto.


Più che con le immagini scultoree le personalità di rilievo sono “omaggiate” con lapidi le quali sono più facili da rimuovere in presenza di un cambio di umore come è successo per quella dedicata a Titina Maselli a Pescolanciano. I monumenti oramai storicizzati perché la maggioranza ha ormai superato il secolo di vita parlano ancora oggi a noi poiché rimandano a valori tutt’ora condivisi, in primis l’amore per la Patria. Pure la statuaria religiosa negli spazi urbani, a onor del vero scarsissima numericamente nella nostra regione la quale rivela una laicità non proprio scontata, tende a posizionarsi anch’essa in aiuole, la statua dell’Immacolata che sta lungo la favolosa scalinata di Trivento in un microgiardino recintato, che rimandano all’immagine che ci portiamo dietro dell’Eden, in infinitesimo di certo.
CHIESE CON I PORTONI CHIUSI
Non è che qui si voglia invocare la “pubblicizzazione” delle chiese, il riconoscere, cioè, un certo ruolo dell’autorità pubblica nella gestione del patrimonio chiesastico ma si vuole però ricordare che quando si è andato formando l’asse ecclesiastico lo Stato e la Chiesa, adesso con la C maiuscola, con erano poi due sfere, la civile e la religiosa, così tanto separate fra loro. Se non esplicitamente implicitamente lo erano di certo se non altro perché le istituzioni governative rinunziavano a svolgere alcuni compiti che “per statuto” apparterrebbero loro lasciando libero un ampio campo d’azione a favore di enti di natura confessionale. Si citano alcuni settori: l’istruzione che avveniva nei seminari, l’assistenza agli infermi, le suore fino a ieri presenze fisse nelle corsie ospedaliere, le sepolture negli edifici di culto. Il pubblico rinunziava a imporre tributi alla popolazione delegando in qualche modo vescovi e parroci a sostituirlo in molti comparti sostenuti dalle elemosine.
La differenza tra le imposte statali e le contribuzioni dei fedeli è che se entrambe erano di fatto “progressive”, in base al reddito, non poteva essere altrimenti, le prime erano obbligatorie le seconde su base volontaria, differenti metodi di riscossione, nei fatti sono equivalenti. Ci si è avventurati in una disquisizione complicata che forse non è del tutto convincente e allora usiamo un altro argomento per dire la stessa cosa che è quello che le architetture sacre e i beni artistici in esse contenuti non possono essere di esclusiva proprietà degli organi religiosi in quanto sono manifestazioni, le principali, della cultura del nostro popolo ispirate alla fede la quale è uno dei valori più profondi della società. A scopo provocativo se non dissacratorio, avvertiamo che si tratta di un caso limite, offriamo come oggetto di valutazione a proposito del possesso la Cattedrale di Isernia la quale poggia le sue fondamenta su un templio pagano, consapevoli che non c’è nessuno, sono passati millenni, che possa rivendicare la compartecipazione nella

proprietà di questo monumento doppiamente sacro, per la religione pagana e per quella cattolica. Il cittadino è impossibilitato a godere delle bellezze custodite negli edifici di culto, a prescindere di chi ne sia proprietario, sia quando questi sono in degrado e perciò è pericoloso entrarvi, sia quando rimangono chiuse per mancanza di custodia. Si riconosce che è un impegno enorme mantenere in efficienza l’intera eredità ecclesiastica e ciò succede in ogni comune, non solo molisano perché riguarda anche le regioni maggiormente sviluppate. In effetti vi è una sovrabbondanza di fabbricati religiosi il cui numero è ridondante rispetto alle esigenze cultuali, vi sono chiesette di campagna e pure di paese che si aprono solo il giorno della festività della divinità cui esse sono dedicate. Ci sono cappelle, tanto è elevato il loro quantitativo, addirittura dimenticate, a volte vengono sconsacrate. Non più officiata a S. Massimo è S. Filomena di cui si conserva il volume edilizio privato delle suppellettili liturgiche perché per un periodo di tempo è stata adibita ad officina e la memoria del culto in essa praticato è affidata semplicemente al toponimo.
Molte chiese rimangono con il portone serrato perché prive di impianti di allarme a difesa delle opere d’arte che stanno all’interno. Vi sono chiese, una minoranza, delle quali comunque è garantita l’apertura quotidiana e ciò sia per consentirne la visita ad, appunto, i visitatori sia per permettere ai fedeli di recitarvi una preghiera. Non vi è nessun edificio di culto accessibile a pagamento che se per assurdo vi fosse non potrebbe essere uno dove sono presenti tombe perché significherebbe rendere oneroso l’esercizio della commemorazione dei defunti. È da dire a questo proposito che le ultime sepolture nelle chiese sono precedenti alla nascita voluta da Napoleone dei cimiteri per cui le persone lì sepolte sono di epoca remota, i discendenti non provano più un sentimento di attaccamento filiale. I Pignatelli, titolari di numerosi feudi, scelsero la chiesa di S. Giacomo a Roccamandolfi per il loro sepolcreto e così i Petra la chiesa di S. Nicola a Vastogirardi e i Capecelatro la parrocchiale di Lucito; oltre queste tombe di famiglia ve ne sono di individuali anche successive all’editto napoleonico sui camposanti, si tratta sempre di personaggi di rilievo come lo Iacampo nella chiesa madre di Vinchiaturo o quella di Antonio Petrecca nella chiesa parrocchiale di Cantalupo del quale è stata eliminata la lapide commemorativa non sostituita neanche da una targhetta in corrispondenza del punto della giacitura del suo corpo.


Il flusso turistico non costituisce disturbo, allo stato, ai riti ordinari neanche in chiese di pregio come quella di S. Francesco a Isernia dove il “cappellone”, una cappella laterale, è capace di ospitare chi è interessato ad assistere alla messa senza il disturbo di presenze estranee, manca solo l’ingresso separato. Ci sono, infine, chiese diventate abituali location di matrimoni (S. Maria della Strada), trasformate per l’occasione in sale di concerto (S. Antonio Abate a Campobasso) ovviamente di musica sacra anche se non sarebbe indecorosa neppure la musica classica, un bene culturale la musica in un bene culturale l’architettura.
L’orso marsicano è definito una specie bandiera perché costituisce, per la sua rarità, un simbolo della biodiversità che in quanto tale riesce ad appassionare le persone e così spingerle ad impegnarsi per la difesa dell’ecosistema. Con questa definizione ci stiamo muovendo nel campo delle idealità mentre entriamo in quello della pratica ovvero delle azioni concrete da porre in essere per la protezione dell’ambiente con un’altra coppia di parole l’orso come specie ombrello. La necessità per la sua sopravvivenza di vasti spazi naturali ci obbliga per salvaguardare quest’animale a proteggere gli ampi habitat che frequenta. Il Parco Nazionale d’Abruzzo nacque proprio per garantire la permanenza in vita di tale sottospecie della famiglia degli orsi e a partire dall’esigenza di assicurare la perpetuazione di questa particolare varietà di fauna selvatica venne sottoposta a vincolo di conservazione un grande comprensorio, principalmente abruzzese, con notevoli valenze naturalistiche, salvare le foreste, i corsi d’acqua, le praterie, ecc. per salvare tale specie animale. Dunque, le due cose, orso e circondario ambientale, si tengono strettamente insieme. Sotto l’ombrello idealmente sorretto dall’orso vi è un ulteriore valore accanto a quelli legati al mondo della natura connesso invece alla cultura, alla sfera culturale che è la selvaticità. Infatti appartiene alla dimensione antropologica ed emozionale l’entrare in contatto con luoghi non civilizzati, una condizione che rimanda alle ere primordiali del pianeta e ciò li rende davvero fascinosi.
È un’esperienza esistenziale che ci arricchisce l’imbatterci con l’altro da noi che ormai abitiamo contesti “addomesticati”, appunto domestici. L’incontro, assolutamente virtuale, con l’orso l’emblema per eccellenza degli spazi selvaggi ci stimola a riflettere sulla stessa nostra essenza umana nel rapporto tra civiltà e naturalità. Sono le sensazioni che si sperimentano nelle escursioni del Club Alpino Italiano che di frequente si svolgono nell’ambito di questo Parco (evidentemente e obbligatoriamente escludendo dagli itinerari le zone soggette a tutela assoluta). Questo in generale, per il Parco nel suo complesso, ma vi sono luoghi specifici e circoscritti in cui la sensazione di trovarsi in un contesto primitivo è meno forte. È il caso dell’areale circostante il Lago della Montagna Spaccata, una specie di enorme vasca cementizia contenuta com’è da ben 3 dighe costruita quando le Mainarde non erano ancora ricomprese interamente nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Ai tempi d’oggi per l’accresciuta sensibilità ecologista non sarebbe stata possibile la realizzazione di una simile opera se non che con forti contestazioni, tanto meno in un’area protetta. È da dire che mentre il predetto lago che è in alta quota è considerato tuttora, come è giusto che sia, un elemento estraneo all’ambiente il Lago di Castel San Vincenzo che è a valle, a bassa quota, collegato al primo tramite un complesso di condotte idriche (è un sistema articolato ricomprendente la centrale di Pizzone intermedia tra i 2 laghi) viene sentito quale segno addirittura identitario del paesaggio della vallata dell’alto Volturno.

In riguardo all’aspetto paesaggistico è da precisare che l’intervento da realizzarsi denominato Pizzone II, un impianto di pompaggio, produrrebbe effetti negativi sulle vedute panoramiche non per i manufatti fisici, le tubature in cui l’acqua viene trasportata mediante pompe da giù a su e da su e giù per caduta sono previste interrate ma per l’oscillazione del livello della superficie del bacino ovvero Lago di Castel San Vincenzo (il nome odierno, all’inizio era chiamato Lago di S. Lorenzo) il quale è avvertito attualmente come un fatto della natura, uno specchio d’acqua naturale non ha sbalzi del “pelo d’acqua”, non come un artefatto, un fatto dell’uomo. Va riconosciuta la necessità di una stabilizzazione del sistema elettrico, riequilibrando e integrando l’energia prodotta dalle centrali idroelettriche con quella fornita dagli impianti eolici e fotovoltaici, la quale è incostante, oltre che dalle centrali convenzionali, da un lato, e, dall’altro lato, che si è in ritardo nella ideazione di altri modi di bilanciamento della rete dell’elettricità.
A tale scopo, cioè per bilanciare l’energia, si pensa di far ricorso a questa enorme “batteria d’accumulo” con l’immagazzinare l’acqua, alternativamente, in due serbatoi (allo scoperto), superiore e inferiore i quali sono nel caso in questione rispettivamente il Lago della Montagna Spaccata e il Lago di Castel S. Vincenzo, riempiti dal medesimo quantitativo idrico che viaggia da sopra a sotto e all’incontrario. L’alternativa, dato che è in gioco la permanenza dell’orso marsicano nella fascia di territorio interessata dall’opera, sarebbe quella, allo stato, di dislocare da qualche altra parte questa megastruttura con la consapevolezza che i costi sarebbero ancora più elevati dovendosi approntare il tutto da zero mentre qui ci sono già due invasi idrici belli e pronti e, cosa non da poco, che sarebbe difficile trovare territori disposti ad accoglierla.
VIVERE O PREGARE IN GROTTA
È possibile che non ci si ricordi dove, ma sicuramente tutti abbiamo visto nell’uno o nell’altro paese molisano una edicola votiva a forma di grotta in cui è collocata la statua della Madonna Immacolata. Il caso estremo è quello di Campobasso in cui all’interno dell’aiuola che fa da spartitraffico fra via XXIV Maggio e via IV Novembre vi è una versione in formato mignon di tale sorta di tempietto devozionale; è da rilevare che qui il fedele non può certo raccogliersi in preghiera per via delle auto che vi scorrono intorno tutto il giorno. In ogni caso, anche quando la raffigurazione della Madre di Dio è a scala 1:1 si tratta della miniatura di una grotta, quest’ultima non ha mai le dimensioni di una grotta naturale. Il grottino, perché tale è, è un rimando alla celebre grotta di Lourdes la quale ha rappresentato un po' la consacrazione definitiva di questo elemento della natura quale luogo con valenze spirituali. Fin dalle epoche più remote l’uomo ha avvertito un senso di sacralità nelle cavità naturali.

Ci sono diverse chiesette qui da voi “ricavate” dentro le rocce, si prenda l’originario sito della cappella di S. Luca a Pescopennataro, quella attuale è traslata un po' più in là, la quale era sotto uno sperone roccioso, si stava per dire “pesco” come si usa qui. Oppure si veda la chiesa ipogea di Pietracupa sottostante alla Parrocchiale e, però, è l’occasione per chiarirlo, della quale non si può considerare la cripta in quanto ha un accesso autonomo dall’esterno e non c’è un collegamento diretto, in verticale, tra le due;
a proposito di questo luogo di culto è da aggiungere che è l’unica chiesa rupestre presente in un abitato, le altre stanno nell’agro. La chiesetta di S. Lucia a Miranda e il santuario micaelico di S. Angelo in Grotte hanno in comune il fatto che trattasi di ambienti cultuali in parte ricavati nel sottosuolo, in parte edificati, essendo affiancato alla grotta un corpo di fabbrica per allargare lo spazio interno, dotandolo, nel contempo, di una facciata.È interessante osservare che a S. Angelo in Grotte la grotta, almeno secondo la credenza
popolare, è senza fondo, termina con un cunicolo, appena percepibile, in cui il diavolo inseguito da S. Michele si infilò per riemergere in superficie da un buco, anch’esso un minuscolo pertugio, posto in un vallone che separa questo comune da Macchiagodena. Una prova “inconfutabile” che sia avvenuto proprio così è l’esistenza di un leccio sia all’entrata della grotta che in questa presunta uscita, con il seme della pianta che si era impigliato nella coda del demonio in fuga; il leccio è un’essenza arborea

Il fronte della cappella, sconsacrata, di Busso è la stessa parete rocciosa in cui si apre la grotta, l’ingresso alla caverna non è mascherato da un prospetto architettonico, a sottolineare che si tratta di un posto sacro vi è semplicemente un portale per regolarizzarne l’imboccatura; non vi è, quindi, alcuna discontinuità tra l’ammasso roccioso e lo spazio destinato a funzioni religiose che sta nelle sue viscere. È l’ambiente rupicolo, l’insieme cavità-emergenza lapidea a ispirare sentimenti devozionali. Mancano ancora due annotazioni sostanziali per completare la descrizione di ciò che connota maggiormente le grotte, diciamo così, ad uso ecclesiastico. La prima è che esse sono volumi non scavati, al massimo vengono integrate con strutture fuori-terra, il che serve, peraltro, la creazione di un fronte da cui si entra, a nascondere la fenditura nel blocco roccioso che è il suo imbocco. La seconda annotazione è che le grotte prescelte quali cappelle hanno il basamento piatto, non si scende, in altri termini, alcun gradino per penetrarvi, il piano della grotta è alla stessa quota del, per l'appunto, piano di campagna, mutuando quest’espressione dal linguaggio tecnico.
Non c’è, in definitiva, alcuna deità ctonia da venerare, l’eccezione sono le cripte (Trivento, Guardialfiera, Guglionesi) in cui il percorso, in discesa, per accedervi ha il sapore di un cammino iniziatico. C’è, poi, la questione della dimensione della grotta, quella orizzontale. Qualora le chiese rupestri siano mete di pellegrinaggio è stato necessario, vedi S. Angelo in Grotte, aumentare la superficie dello spazio di culto per consentire la partecipazione ai riti a una massa cospicua di devoti a quel Santo, senza arrivare, però, a relegare la grotta in un angolo residuale della chiesa. Qualora la profondità della grotta è limitata essa è equiparabile, se ne è parlato all’inizio, ad un’edicola votiva in cui, poiché tale, è possibile invocare la figura celeste dal di fuori. Che le cavità siano ricche di rimandi alla religiosità, in ispecie quella popolare, è suffragato dalla circostanza che nei presepi la capanna della Natività è spesso sostituita da una grotta. C’è, infine, il caso speciale di S. Michele a Foce in cui vi è il connubio tra chiesetta e grotta intese quali entità distinte e però non separate. La cappella che è un oggetto architettonico completo in ogni sua parte compresa la copertura è posta al di sotto di un incavo del fronte di roccia soprastante; è protetta perciò sia dal tetto sia dalla sporgenza dell’emergenza rocciosa. Sotto quest’ultima trova riparo pure uno stazzo di ovini e tale vicinanza rimanda al cristianesimo delle origini, al pauperismo il quale è in contrasto (?) con la magnificenza della prossima abazia di S. Vincenzo al V. Un’ultimissima cosa: le grotte per i cristiani hanno una duplice valenza, possono essere tanto il posto, siamo nel ventre della Terra, in cui sono collocati gli inferi, sia un momento di raccoglimento spirituale separate come sono dal “set” in cui si svolge la vita ordinaria.

LE GROTTE COME LUOGHI DI CULTO
Il culto di S. Michele, chiamato anche S. Angelo, vedi S. Angelo in Grotte, o l’Arcangelo, è il nome di battesimo di molti cittadini di Colledanchise dato loro in omaggio all’arcangelo per antonomasia, è molto antico, precedente all’arrivo nella Penisola dei Longobardi i quali lo eleggeranno a loro patrono per la sua immagine guerriera, la spada con cui scaccia il demonio. La sede principale della sua adorazione è Montesantangelo sul Gargano. Sebbene la via Micaelica che qui conduce parta da molto lontano è nell’Italia centro-meridionale dove si intensifica la devozione verso questo Santo. Nella fascia mediana dello Stivale sorgono in numero cospicuo le chiese dedicate all’Angelo e ciò lo si può spiegare con la vicinanza con il Santuario garganico quasi che la prossimità produca una intensificazione della fede. Il dato significativo è che il patrono della maggioranza dei comuni molisani o è S. Michele o è S. Nicola. A sollecitare il credo verso questa divinità è la presenza nel nostro territorio, il cui substrato geologico in larghi tratti è di tipo calcareo, di un numero elevato di cavità le quali richiamano l’immagine della grotta del promontorio pugliese. La sequenza, abbastanza fitta, di chiesette rupestri, secondo una leggenda popolare, segue la linea ideale della fuga di Lucifero inseguito da S. Michele il quale, ogni volta, volta per volta, in corrispondenza delle spelonche lo scaccia all’inferno da cui poi l’Angelo Ribelle, il demonio, riesce a riemergere fino allo sprofondamento definitivo negli inferi che avviene a Montesantangelo.

Senza voler sminuire il significato sacro della successione di chiese nella roccia è possibile ipotizzare che esse si candidano a punti tappa del Cammino Micaelico, quasi a voler intercettare il flusso di pellegrini diretti verso il Gargano e con loro una quota delle offerte destinate a richiedere miracoli all’Arcangelo. Seppure non toccate, anche nel caso che non siano toccate dai pellegrini durante il loro incedere verso la meta del viaggio le chiesette rupestri costituiscono dei “segni” della costante presenza di S. Michele lungo il percorso, una sorta di incoraggiamento per coloro che sono in cammino, utili stimoli per rinsaldare la devozione dando la spinta per completare il tragitto. È possibile distinguere vari tipi di chiesa nella roccia, del quale il più semplice è quello di Busso costituita solamente da un ambiente ipogeo con l’ingresso marcato da un portale nel cui fondo doveva esserci un altare; non è più un luogo di culto officiato e non si sa se essa era dedicata a S. Michele o a qualche altra divinità rupicola. Un’altra tipologia è quella dell’edificio religioso con nessuna sua parete che si appoggia alla roccia,
cioè interamente fuoriterra e, però, interamente sottoterra nel senso che esso, un’architettura del tutto compiuta, è collocato in un antro, assai alto e assai profondo, capace di contenerlo e ciò in località S. Michele, appunto, a Foce. La stragrande maggioranza delle chiesette cosiddette rupestri è tipologicamente formata da una porzione incassata nell’emergenza lapidea, ed è la porzione originaria del luogo di culto, per così dire la sua “ragione sociale”, e una porzione aggiunta in muratura come succede nel già citato S. Angelo in Grotte. Le proporzioni tra le due porzioni variano, è molto più grande quella che coincide con la cavità rocciosa, succede a Miranda e a Sassinoro, chiese entrambe intestate a S. Lucia, e il contrario a Rocchetta al Volturno nella chiesa della Madonna delle Grotte, quindi anch’essa come le due nominate precedentemente non intitolata a S. Michele. Le grotte adottate a sedi di culto hanno generalmente sviluppo orizzontale pure se non sempre sono a livello, il loro piano, del piano di campagna. Ve ne sono alcune posizionate ad una quota inferiore della quota altimetrica cosiddetta “0”.

Si tratta di cripta quando sono sottoposte, nel senso anche di subordinate, ad un fabbricato religioso che costituisce il corpo principale della struttura ecclesiastica, la cripta è il corpo secondario. Nelle cripte le pareti rocciose vengono mascherate per cui appaiono come vani regolari pure se sotterranei. Nella cappella sottoposta alla parrocchiale di Pietracupa l’accesso è separato da quello della chiesa vera e propria e ciò mette in dubbio che si tratti di una cripta. L’ingresso al sottosuolo della chiesa di S. Cristina a Sepino è in comune con il soprassuolo della stessa e solamente dopo aver varcato la soglia i flussi di fedeli si dividono, scendono giù i pellegrini per visitare lo spazio dedicato alla venerazione della Santa e rimangono su coloro che intendono partecipare ai riti liturgici ordinari, ciò per evitare commistioni e disturbo reciproco. Le grotte, va detto per completezza di trattazione, non sono esclusivamente di natura naturale ma ve ne sono anche di natura artificiale quali quelle che, in miniatura, ripropongono la grotta di Lourdes in cui ci si imbatte pressoché ad ogni piè sospinto, pure negli spartitraffico (a via Mazzini a Campobasso ad esempio). A Larino la grotta allestita in modo che richiami quella francese, con la collocazione al suo interno della statua della Madonna Immacolata in scala 1:1 è a grandezza naturale, mentre non è naturale il contesto in quanto fiancheggiata da una arteria di comunicazione dalla fattura moderna con il rumore del traffico che non permette la meditazione sul Mistero Divino, l’ambientazione non è idonea per la preghiera la quale richiede il silenzio. Passando dal sacro al profano ci sono, poi, i “grottini” trasformati in pub ma è tutto un altro discorso.



