MOLISE SFUSO

Il recupero delle torri
Per le torri è più difficile trovare una nuova funzione. Ciò specialmente quando sono manufatti sì collegati a un castello e però formanti corpi a sé, quando cioè sono tangenti al maniero, il cilindro, stiamo parlando di torri circolari, è ben definito. Quando invece le torri costituiscono protuberanze, più o meno protratte all’esterno della planimetria della struttura castellana, in genere in posizione angolare esse vengono ad essere estensione di uno dei suoi vani, per quanto detto prima quello che sta in un angolo. Tale locale avrà, di conseguenza, una parete curvilinea avendo inglobato la torre. È quanto succede nel castello di Macchiagodena in cui non vi è uno specifico problema di rifunzionalizzazione dello spazio semicurvo nel quale è ricompresa la torre.
Si tratta quella di cui abbiamo parlato di un torrione piuttosto che di una torre, ma nello stesso paese vi è anche una torretta che è attaccata ad un caseggiato sorto sulle mura medioevali; l’insieme torretta, la quale ha una superficie appena sufficiente per ospitare la scaletta che conduce al primo piano e lo stabile collegato di due livelli forma una attrezzatura culturale polivalente, biblioteca e collezione museografica. La più frequente destinazione d’uso attribuita alle piccole torri è stata quella di “stanzino di comodo” come si chiamavano un tempo i WC e molte torrette furono aggiunte ai palazzotti signorili nel XIX secolo, dunque non torri preesistenti bensì sopraggiunte, per creare dei gabinetti in case che prima di quel periodo quando fece la comparsa l’acqua corrente non esistevano.

Fu data a tali minuscoli locali sopravvenuti la sembianza di torri con un richiamo esplicito ai palazzi baronali, un’immagine che nobilitava i possessori del fabbricato. Il passo da opera di servizio a opera ornamentale è stato breve. In età contemporanea vi è una certa varietà di modi di reinterpretare le torri, non solamente a fini utilitaristi. Tra questi si cita, è il primo caso, la riproduzione idealizzata dell’ambiente in cui visse segregata Delicata Civerra alla quota terranea della torre Terzano di Campobasso. Il secondo caso è la trasformazione in studiolo d’artista per la pittrice Elena Ciamarra del piano sommitale della torre del castello di Torella la quale svetta sul resto dell’organismo architettonico, l’unico castello insieme a quello di Carpinone in cui vi sono torri che sopravanzano in altezza le pareti del mastio. Il terzo caso è quello della torre all’interno del castello di Vastogirardi, poligonale una configurazione geometrica che è un’autentica eccezione nel panorama delle costruzioni turriformi molisane, adattata a cellula abitativa; il riconoscimento del cambio d’uso è reso possibile dal decreto Salvacasa. La torre “abitabile” ha un precedente nella torre di Casalvatico di Cercemaggiore la quale è un’utile pietra di paragone per diversi aspetti. Uno è il fatto che quest’ultima presenta più vani di un’unica abitazione, uno per piano,
contro l’unità immobiliare che si sviluppa al piano terraneo del castello del centro altomolisano la quale consta di un solo locale. Il secondo è che essa è quadrangolare, quindi un poligono e ciò la accomuna a quella di Vastogirardi in cui, però, è maggiore il numero di lati, e la distingue dalla gran quantità delle torri della regione che sono cilindriche. Il terzo è che nella frazione di Cercemaggiore la torre sta isolata, non attigua ad un volume architettonico. Il quarto è che mentre a Vastogirardi la torre ha assunto una funzione residenziale in seguito, non cioè al momento della sua edificazione a Caselvatico essa è sorta proprio come casa-torre. Lasciando questa numerazione e riprendendo la precedente dal numero in cui ci eravamo fermati vediamo il quarto caso che è quello della “torretta saracena” al confine tra Termoli e Petacciato sulla linea di costa diventata un ristorante; un impiego dell’opera che rischia di far perdere ad essa se non la propria dignità la propria identità, da corpo di fabbrica di carattere militare a artefatto destinato al diletto. Il quinto caso è quello delle torrette in cui sono state ricavate scale a chiocciola, una combinazione ben riuscita tanto che anche i diversi fabbricati attuali tali tipi di scale vengono racchiusi in torricelle; un esempio si ha anche nell’800


nel casino Selvaggi posto nella piana di S. Massimo. Da tutto quanto sopra esposto non si deve, comunque, dedurre che le torri abbiano una notevole versatilità in quanto a ipotesi di rivitalizzazione. Non c’è niente tra le testimonianze delle ere antiche di più irriducibile alle esigenze funzionali della contemporaneità. Si tratta quelli elencati di episodi singolari, di soluzioni di riattamento originali, non riproducibili in serie, ogni torre è un caso, i casi descritti, a sé, molto dipende dal contesto in cui sono inserite. C’è una resistenza intrinseca in una torre alla possibilità di alloggiamento nella sua cavità di attività moderne. Antichità versus modernità. Non è, poi, detto che le torri debbano essere necessariamente cave, ve ne sono tante che sono piene e ciò lo si rileva riscontrando sulla sua superficie di inviluppo l’assenza di aperture aeroilluminanti senza le quali non ci si può vivere dentro e anche di feritoie come quando le torri vengono a costituire corpi di guardia. Le antesignane illustri qui da noi di torri di quest’ultimo tipo sono quelle di Altilia che sono prive di bucature.
I tipi di danni nei borghi antichi
Elenchiamo di seguito, con atteggiamento simile a quello dei periti che valutano gli infortuni i quali nel nostro caso sono quelli che accadono al patrimonio culturale, alcune tipologie di alterazioni che si riscontrano nei centri storici molisani. Le parole chiave per descrivere i tipi di danno rilevabili nelle zone di origine medievale sono: sventramento, diradamento, superfetazione, sopraelevazione, sostituzione edilizia, inserimento di nuovi volumi, demolizione, vuoto urbano, lacuna. Procediamo avvertendo che non seguiremo un ordine preciso. Sventramento è il termine che si addice all’operazione di rimozione della torre angioina che troneggiava al centro del paese di Sepino ancora nel XIX secolo per ricavare al suo posto in quel sito una piazza, azione simile a quella compiuta nel medesimo periodo a S. Massimo di abbattimento delle case che fronteggiavano la chiesa-madre per fare nel loro sedime uno slargo.
Passando dalle piazze alle strade si può chiamare sventramento, non siamo in area urbana bensì periurbana, la soppressione della fascia di orti terrazzata posta al limitare dell’abitato e in stretta connessione con esso per far spazio al passaggio della strada provinciale, siamo a Civitanova; è lo sventramento di un paesaggio. A Pescolanciano è ancora la provinciale a sventrare una parte dell’intorno del borgo antico, non il borgo lo si ripete bensì un pezzo del suo contorno, con l’edificato che viene a trovarsi, il suo livello basamentale, al di sotto della quota di tale nuova arteria la quale fu costretta per ragioni di livelletta a rialzarsi per un tratto rispetto al piano originario; uno sventramento per così dire di striscio non per questo, però, meno doloroso. L’inserimento di fabbricati contemporanei nei centri storici è un tema assai dibattuto sia in relazione ai connotati architettonici dell’edificio sia in riguardo all’ammissibilità o meno della decisione di procedere a effettuare questi inserti.

Fu data a tali minuscoli locali sopravvenuti la sembianza di torri con un richiamo esplicito ai palazzi baronali, un’immagine che nobilitava i possessori del fabbricato. Il passo da opera di servizio a opera ornamentale è stato breve. In età contemporanea vi è una certa varietà di modi di reinterpretare le torri, non solamente a fini utilitaristi. Tra questi si cita, è il primo caso, la riproduzione idealizzata dell’ambiente in cui visse segregata Delicata Civerra alla quota terranea della torre Terzano di Campobasso. Il secondo caso è la trasformazione in studiolo d’artista per la pittrice Elena Ciamarra del piano sommitale della torre del castello di Torella la quale svetta sul resto dell’organismo architettonico, l’unico castello insieme a quello di Carpinone in cui vi sono torri che sopravanzano in altezza le pareti del mastio. Il terzo caso è quello della torre all’interno del castello di Vastogirardi, poligonale una configurazione geometrica che è un’autentica eccezione nel panorama delle costruzioni turriformi molisane, adattata a cellula abitativa; il riconoscimento del cambio d’uso è reso possibile dal decreto Salvacasa. La torre “abitabile” ha un precedente nella torre di Casalvatico di Cercemaggiore la quale è un’utile pietra di paragone per diversi aspetti. Uno è il fatto che quest’ultima presenta più vani di un’unica abitazione, uno per piano,
Un caso eclatante è la scuola di via Pietro Micca ad Agnone che è stata costruita mezzo secolo fa proprio nel cuore della parte storica della città, autentica città d’arte, a due passi dalla bellissima chiesa di S. Francesco. La sua forma deriva direttamente dalle indicazioni contenute nelle istruzioni ministeriali in materia di edilizia scolastica che non permettono alcun tentativo di “ambientazione”, cioè di riproporre caratteri del costruito tradizionale. Rimaniamo nella “capitale” dell’Alto Molise per trattare di un altro degli argomenti preannunciati che è la sostituzione edilizia. Nell’adeguamento del Palazzo Tirone a sede della Comunità Montana è stato previsto l’affidamento quale struttura portante della sala consiliare a un telaio in cemento armato affiancato alla muratura esistente e così è successo, anche con interventi più radicali, per diversi immobili del comprensorio altomolisano con i fondi per la ricostruzione ex sisma 1984. Rifacimenti completi di epoca recente, la categoria dei lavori è sempre la sostituzione edilizia, previo abbattimento dell’esistente sono, ma siamo fuori del centro storico anche se si è al cospetto di manufatti di interesse storico, quelli dell’ex SAM o ex ENEL che dir si voglia che da rimessa mezzi è diventata supermercato, della Taverna del Cortile per la quale non è contemplato il cambio di destinazione d’uso e, soprattutto, della ex GIL la quale ha subito una profonda rivisitazione delle funzioni, tutti e tre a Campobasso e dintorni.


Visto che ci troviamo nel capoluogo regionale ci restiamo ancora un po' in quanto il suo centro storico ci dà modo di introdurre la questione delle “lacune”. Sono da intendersi tali oltre che quelle fisiche, i veri e propri buchi nella massa edificata, quelle funzionali, lo stabile che ha ospitato l’Archivio di Stato il quale ora versa in uno stato di assoluta fatiscenza. La differenza tra lacune e vuoti, urbani, sta nelle dimensioni della superficie in cui non c’è nulla, nei secondi essa è molto più estesa. Un vuoto era l’attuale piazza di Busso adiacente al centro storico che si sviluppò lì dove un tempo c’era un’aia comune; uno spazio che non è più utilizzato per la trebbiatura, il quale invece di essere riempito da volumi è stato dotato di elementi di arredo urbano per farne un luogo di incontro. Anche a Campodipietra c’era un vuoto al centro del paese, una sorta di corte in comune tra le schiere edilizie che lo cingevano da ogni lato, una sorta di retro di queste cortine architettoniche, non visibile dalla viabilità circostante: togliendo un tassello di questa cintura di fabbricati, un corpo di fabbrica basso adibito a deposito posto di fronte alla parrocchiale il cui ingombro non consentiva di ammirare con agio la sua stupenda facciata, è venuto alla luce questa particella vuota che si presta a diventare lo slargo della chiesa. Rimangono da vedere le superfetazioni le quali non necessariamente sono oggetti sgradevoli, prendi la sequenza ininterrotta di bagni pensili in una via secondaria di Baranello, davvero caratteristica, e le sopraelevazioni che non è detto che per forza debbano essere eliminate, di sicuro non l’aggiunta volumetrica che si sovrapponeva alla chiesa di S. Mercurio a Campobasso la quale andava conservata, non tolta poiché segno storico. Incidentalmente si fa notare che un braccio dell’episcopio di Boiano non si pone sopra la chiesa di S. Erasmo bensì dentro, alla stregua di un soppalco. Una fattispecie di danneggiamento nel Molise non c’è ed è il diradamento, neanche a Termoli è venuto in mente di allargare il vicolo più stretto d’Italia tagliando delle fette degli immobili che lo delimitano.

PENSILINE NEL PAESAGGIO
La pensilina è un oggetto che non è oggetto di progettazione architettonica, bensì preformato come lo sono una vasta categoria di cose: dai lampioni per l’illuminazione alle pale eoliche, dalle cabine spogliatoio negli stabilimenti balneari ai bagni autopulenti installati, ad esempio, nella fiera del Corpus Domini a Campobasso fino ai recenti cassoni per la raccolta differenziata. Nell’elenco non si è inserita la cabina di trasformazione “secondaria” dell’Enel perché vi sono stati casi qui da noi, vedi quella in mattoni a Baranello, paese con una tradizione importante nel campo dei laterizi, la quale ha sul fronte una lunetta tripartita, in cui essa risulta frutto di un progetto specifico, non è cioè standardizzata. Le Corbusier diceva che l’ideazione di
qualsivoglia prodotto, appunto dal cucchiaio al grattacielo, richiede l’apporto dell’architetto. Per le entità ripetibili, soggette a produzione industriale, il progettista, o meglio il designer, interviene nella definizione della matrice dello stampo, oggi stampa in 3D, ed esse sono generalmente da collocarsi al chiuso, per altre, quelle da posizionarsi all’aperto, il tecnico deve confrontarsi con le caratteristiche del sito, adattando ad esso, volta per volta, la forma della realizzazione. Sinteticamente il design è per l’interno e l’architettura è per l’esterno. Il territorio molisano è ovunque di elevato interesse paesaggistico per cui un tema di grande rilievo è l’inserimento ambientale dei manufatti. Occorre, dunque, garantire la coerenza con il
paesaggio circostante delle pensiline. Dalla tradizione costruttiva non si possono trarre esempi ispiratori. Di certo, non vi erano corpi di fabbrica chiamati ad assolvere a compiti analoghi a quelli delle pensiline. È cambiato totalmente, oltre che assai accresciuto, il sistema di mobilità ed è aumentata la quota del trasporto collettivo. Quest’ultimo prevede, se guardiamo a quello su gomma e ai piccoli centri i quali sono privi di terminal bus, la raccolta su strada dei viaggiatori: di qui il fabbisogno inedito di pensiline a protezione degli utenti in attesa. Una via per perseguire la conformità di un fabbricato con l’ambiente è l’utilizzo dei materiali del posto o, perlomeno, impiegati nel patrimonio edilizio storicizzato.

Essi sono la pietra e il mattone, ma li si scarta a priori poiché essi sono deputati a costruzioni durature, non ad artefatti che devono essere potenzialmente spostabili, movibili per assecondare i mutamenti delle linee delle autolinee. Quelle relativamente stabili sono le pensiline che a mo’ di gazebo compaiono nei parchi pubblici per l’ombreggiamento delle persone sedute a riposare sulle panchine, sempre che l’area non sia alberata, le quali sono pensate unitariamente allo spazio verde di cui sono a servizio. Solo il legname tra le materie in uso nel passato fa eccezione e sarebbe raccomandabile per le pensiline lungo le arterie che corrono nei boschi, mimetizzandole con le piante se non fosse che il legno che è opaco cozza con un imprescindibile requisito prestazionale che le pensiline devono possedere, quello della trasparenza.
È fuor di dubbio che l’essere trasparente riduce l’incidenza visiva della struttura nei quadri panoramici e ciò compensa l’estraneità alle tecniche edificatorie di un tempo e nello stesso tempo l’essere l’involucro della pensilina trapassabile visivamente, dall’interno all’esterno, consente il pronto avvistamento dell’arrivo del pullman da chi sta nella pensilina, e, dall’esterno verso l’interno, permette un controllo sociale attraverso la vista di ciò che accade nella pensilina, una garanzia contro le molestie, evitando che si ingeneri uno stato d’ansia in chi vi staziona. Il contorno della pensilina è, pertanto, fatto da lastre in plexiglass o in vetro satinato il che, si aggiunge, conferisce leggerezza al manufatto che non significa, comunque, scarsa resistenza agli agenti atmosferici.
Le pensiline hanno bisogno oltre che della scontata copertura pure di pareti laterali per la protezione dal freddo, è un semiguscio, dalla neve e dalla pioggia, ambedue ventati, dal sole e dal vento quale fattore climatico a sé stante. Le pensiline possono essere formate da un’unica scocca oppure da un telaio, in genere di esile profilo, in stile, per così dire, minimalista architettonicamente parlando. Sono presenti diverse varianti della pensilina, in base al numero di individui che sono in grado di ospitare, alla dotazione o meno di sedili, di angoli per il deposito dei bagagli “a mano”, di posti, questi indispensabili, per accogliere passeggini e sedie a rotelle, per i quali occorre l’altrettanto indispensabile adeguamento alle norme sull’accessibilità del parco autovetture.
Affiancata o inserita nel volume della pensilina vi è la tabella con gli orari di partenza e di arrivo delle corse, così come sull’estradosso trovano posto, evitando comunque di provocare oscuramento dell’abitacolo, cartelloni pubblicitari. Il tettuccio, se non deve fungere da piano di appoggio di pannelli fotovoltaici nel qual caso è inclinato, è curvo, curvilineità ammessa per la copertura e, però, mai nella sezione orizzontale, le pensiline in planimetria sono costantemente rettangolari. Eppure una pensilina planimetricamente curvilinea, magari solo leggermente incurvata, costituirebbe un “segno” non banale, se non attraente. Per poter immaginare soluzioni innovative come quella della curvatura in pianta, esercitare la creatività anche in questo settore occorre optare per la lavorazione su misura al posto della prefabbricazione. Quale margine di libertà di scelta l’industria lascia solamente la facoltà di incremento dei moduli base consentendo l’accrescimento della dimensione delle pensiline in lunghezza (l’estensione in larghezza della pensilina porterebbe ad una sua configurazione quale tettoia ed è ciò che avviene nei termina bus di Termoli e Campobasso).

I NOMI DELLE BORGATE COINCIDONO CON I NOMI DELLE FAMIGLIE
Guardiamo cosa succede a S. Massimo, ma una situazione simile la ritroviamo anche in quasi tutti gli altri piccoli centri alle falde del Matese. Osservando da valle la distribuzione delle costruzioni rurali si nota una progressiva rarefazione delle stesse man mano che si sale in alto. In basso stanno le principali borgate, le 2 Canoniche, le Vicenne, S. Felice e i Grondari. Sulle prime pendici del monte si sviluppano le Cipolle un insediamento lineare in salita che, non supera la quota su cui si erge il paese, paese alla stessa quota ma distante in linea d’aria; la stessa cosa fa la frazione Monte S. Angelo che ha una evoluzione, su una dorsale inclinata, simile, anche se la continuità dell’edificato è minore a quella della Cipolla al quale annucleamento è parallelo. Oltrepassato il borgo i corpi di fabbrica diventano sparuti, in ordine sparso vi sono minimi aggregati edilizi, da un lato, del Pisciariello e dall’altro lato, dei Fiorilli e, poi, del Raffio il quale chiude la serie delle presenze insediative nell’agro, più su non c’è niente.
La predetta successione dei popolamenti extraurbani insediamenti sempre più minuscoli, segue quella delle colture agrarie che spariscono una volta che si è raggiunta la Pincera, località alla medesima attitudine del Raffio, la quale la si indica perché posta lungo la strada provinciale per Campitello e, quindi, ben identificabile, un punto certo. Di lì in poi l’agricoltura lascia il posto al bosco, prima, e, dopo, al pascolo. Ritornando ai nuclei abitativi agresti è interessante notare che la gran parte portano il nome di famiglie del posto e così abbiamo i Farrace, “di sopra” e “di sotto”, coincidenti con le due Canoniche citate, rispettivamente “superiore” e “inferiore”, i Tortorelli e i Micone che insieme formano le Cipolle già dette, i Fiorilli, anch’essi nominati in precedenza, gli Amici, il cognome esistente è D’Amico, che nella toponomastica ufficiale si chiamano Vicenne, si è menzionata prima, i Paoli, cognome invece sparito, che “all’anagrafe” si denomina S. Felice, i Grosso, ufficialmente Grondari, richiamato sopra e, infine, i Selvaggi.

Questa corrispondenza tra nome del luogo e nome del nucleo famigliare è rivelatrice del fenomeno verificatosi agli inizi del XIX secolo ovvero alla fine del feudalesimo della colonizzazione a seguito della spartizione delle terre feudali da parte di persone consanguinee di alcuni pezzi dell’agro, in gruppo non individualmente. Del resto sarebbe stata difficile la “conquista” di zone a tratti boscose per trasformarle, disboscandole, in campi da arare a opera di singoli. Di tale stato delle cose se ne lamenta il coevo Vincenzo Cuoco temendo che il dissodamento possa provocare per via del taglio delle piante l’innesco di frane, ma a discolpa vi è il fatto che la grande crescita demografica registrata nel nostro continente in quel periodo impose per soddisfare l’aumentato fabbisogno alimentare l’incremento di terre da coltivare. Un inciso: che siamo a non oltre 2 secoli fa, quindi non tanto tempo fa, è dimostrato dall’attribuzione alle contrade dei nomi coincidenti con i cognomi, non è un gioco di parole, di famiglie sanmassimesi tuttora presenti in loco. Il concentrarsi dei coltivatori, di solito parenti fra loro, nei descritti raggruppamenti abitativi permette di procedere congiuntamente a “scassare” il terreno per ricondurlo a coltura e ciò, il lavoro comunitario, ci fa riflettere sul fatto che si trattava di un’economia agraria in cui era assente la competitività.
Nel settore economico cosiddetto Primario la concorrenza non esiste, almeno ad una certa scala, quella delle aziende di taglia ridotta. Le unità aziendali di dimensioni contenute non sono portate a rivaleggiare fra loro, i prezzi dei prodotti agricoli esposti sui banchi di un mercato urbano come potrebbe esserlo il Mercato Coperto di Campobasso di solito sono uniformi, si reclama la bontà della merce, sovente a voce alta, ma il costo per segmento merceologico è uguale. Tale tendenza a non porsi in gara con gli altri produttori dell’identico bene deriva da un modo di sentire ancestrale che concepisce il frutto del lavoro della terra finalizzato all’autoconsumo, solo in seconda battuta al commercio. Ad ogni modo, occorre superare l’incapacità a cooperare attestata dai tanti tentativi falliti qui da noi di fondare cooperative, non basta che non vi sia una contesa fra gli operatori del ramo per quanto riguarda la vendita. Pur con l’annotazione formulata ora si è propensi ad immaginare che possano avere successo progetti a livello di territorio piuttosto che di impresa agricola una per una.


A differenza che nel campo industriale in cui le varie marche, mettiamo di dentifricio, si sfidano a colpi di campagne pubblicitarie per accaparrarsi il maggior numero di consumatori, in quello agricolo si promuove il prodotto unitariamente attraverso le DOP, DOC, IGT. Alle fiere campionarie dove si presentano gli artefatti fabbricati dalle industrie si contrappongono manifestazioni come ad esempio Cantine Aperte le quali tendono a valorizzare le attività del comparto enologico di un distretto. Si spera che la recente istituzione del Parco del Matese in cui ricade S. Massimo spinga alla creazione per i latticini di un brand unitario associato a questa notevole emergenza ambientale, tenendo conto che il latte, teoricamente, viene dalle vacche che in alpeggio brucano nei pascoli montani.