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Partiamo senza preamboli ad illustrare alcune scelte localizzative di insediamenti umani nel Molise le quali capita, e questo sì è un preambolo, siano diversissime fra loro. Abbiamo il caso di Guardialfiera che pur si essere in un punto di scolta centrale della valle del Biferno accetta di stare vicino ad un tratto in cui il fiume, prima della realizzazione dell’invaso del Liscione, si impaludava e quindi provocava l’insalubrità dell’area nei dintorni; diversi titolari dell’antica sede vescovile per sottrarsi al pericolo di malaricità, preferiscono così trasferirsi a Castelmauro. Dal fondovalle rapidamente passiamo al più alto dei comuni molisani, Capracotta, il quale, invece, si posiziona in un valico in quota che congiunge i bacini del Trigno e del Sangro; in verità, l’ubicazione del centro abitato è lievemente discosto da tale sella, mentre è esattamente sul percorso, il quale coincide con una strada dell’agglomerato urbano, che conduce al versante opposto di monte Campo dove sta Pescopennataro. Il momento di passaggio tra i 2 lati del monte che è Prato Gentile, non molto lontano dal nostro abitato, è segnato dalla presenza di una casa cantoniera trasformata in una sorta di baita turistica a servizio del carosello di piste da sci assai accorsato dagli appassionati della neve.

Capracotta

Abbiamo visto finora un nucleo insediativo di vallata e uno montano e adesso andiamo in uno propriamente fluviale, cioè toccato dal corso d’acqua che è sempre il Biferno. Esso è Boiano la cui localizzazione adiacente al corpo idrico il quale è indubbiamente fonte di umidità non proprio benefica per la salute dell’uomo, si giustifica per l’essere, poiché siamo alle sue sorgenti, il guado preferenziale del Biferno; nonostante tale situazione favorevole per l’attraversamento il futuro re di Napoli Francesco II, comunque, in viaggio diretto a Campobasso dovette, una volta giunto lì, scendere dalla carrozza e oltrepassare la Fiumara, è il significativo toponimo del pezzo di asta idrica alle porte del centro matesino, a piedi. Boiano, oltre ad essere un cittadina fluviale è anche una cittadina di pianura e non potrebbe essere altrimenti, è ovvio perché i corsi d’acqua scorrono nella piana che essi stessi, peraltro, hanno formato con i loro depositi alluvionali; è interessante a tale proposito far rilevare che è nelle zone pianeggianti che sorgono di regola le città fin dall’epoca dei Romani, qui il Municipium di Bovianum Undecanorum, i quali per le colonie che costruivano seguivano lo schema del castrum, modello che si applica alle superfici piatte. Ad ogni modo, il capoluogo bifernino, nella presente esposizione, si è scelto quale esemplificazione, in verità l’unico caso, degli aggregati abitati fluviali lasciando il compito di rappresentare quelli in piano a Venafro. In quest’ultimo si coglie un altro significato che va attribuito, in relazione alla nascita di un borgo, alle fonti sorgentizie, sicuramente un fattore localizzativo determinante, ma non più perché il transito qui sia agevole, quanto piuttosto perché garantiscono un approvvigionamento idrico perenne, anche durante gli assedi militari. Si tratta delle scaturigini del S. Bartolomeo che, poi, ad una certa distanza da Venafro, confluirà nel Volturno.

sorgenti del Biferno

Si è preannunciato che Venafro è il rappresentante prescelto delle comunità di pianura le quali, oltre che per la particolare conformazione orografica sottolineata in precedenza (ancora il pre-) sono popolose se, ulteriore requisito, vi è una larga disponibilità di acqua da bere. In altri termini, per un impianto urbanistico consistente non basta che il suolo sia orizzontale, occorrendo che vi siano, pure, fontane per dissetare la gente che vi vive. Come si sarà notato, le logiche localizzative delle quali si è parlato costituiscono, in fin dei conti, delle eccezioni nel panorama delle agglomerazioni edilizie della nostra regione e, in coerenza, continuiamo ad interessarci delle singolarità. Si tratta degli abitati rupestri seppure da noi non rappresentino fatti rarissimi. Va sottolineato, nel contempo, che siamo di fronte ad un campionario di paesi estremamente differenti come configurazione fisica fra loro, peraltro tutti bellissimi se non si vuole usare qualcuno degli aggettivi affascinante, fantasmagorico, misterioso. Le differenze sono dovute soprattutto alla diversità degli ammassi lapidei su cui poggiano. La caratteristica saliente di Pietrabbondante è che le “morge”, sono tre e sono riportate nello stemma civico, con le abitazioni solo nella fascia bassa di queste, sembrano servire, disposte come sono solo in un fianco del perimetro cittadino, quello tendenzialmente a nord, a riparare le case dai venti freddi e, conseguentemente, dall’acqua ventata. L’essere soggetti alle pareti calcaree è, per un verso, un vantaggio, quello descritto, e, però, per un altro verso, uno svantaggio in termini di distacco dei massi che sovrastano le residenze il quale si verifica, successe nel 1984, a seguito di scosse sismiche. Vale la pena aggiungere che tale fenomeno ha interessato pure realtà urbane non cresciute sopra una qualche enorme pietra, morgia, rupe, masso o pesco che sia, bensì sotto ed è il caso di Pesche minacciata dalla caduta di lastre di calcare dalla montagna sul cui fianco è appoggiata. Se introduciamo il tema dell’ecosistema urbano vediamo che lo stare appollaiati su uno spuntone pietroso provoca un intenso ruscellamento delle acque di pioggia non potendo esse essere assorbite dal terreno come succede invece lì dove il substrato è terrigno. Giambattista Vico ci ha insegnato che i problemi si trasformano in opportunità se uno li sa cogliere aggiungiamo noi come fecero gli abitanti, monaci e briganti, della morgia, appunto, dei Briganti con lo scavare nella roccia canalette e vasche per raccogliere le acque piovane sfruttando la proprietà di impermeabilità che possiede la pietra. È da dire che nel territorio regionale non si è mai affermata una vera e propria civiltà rupestre tanto che con l’eccezione di pochi episodi come quello appena citato, dopo l’era dell’uomo delle caverne, non si sono più abitate le grotte le quali sono state utilizzate esclusivamente come ricoveri o chiesette (Pietracupa). Nel capoluogo regionale le cavità sono tantissime e però stanno nel sottosuolo, prive di aperture aeroilluminanti, e ciò ha impedito di adattarle ad alloggi (un risvolto positivo vi sarebbe stato ed è che gli antri appaiono insensibili agli eventi tellurici). Per spiegare meglio la situazione campobassana conviene fare una comparazione con quella materana: nella città lucana le cavità, ciascuna per volume rapportabile a quelle della “capitale” del Molise, si sviluppano in lunghezza, a differenza delle seconde che, invece, vanno in profondità. Mediante una facciata aggiunta dotata di portone e che è pure una presa d’aria la quale penetra attraverso le finestre aperte sul fronte le grotte a Matera ricevono aria e luce, le quali sono, al contrario, impossibilitate a penetrare negli ambienti cavernosi di Campobasso in cui si scende da un buco nel pavimento al piano terra dello stabile. Si conclude qui la rassegna delle motivazioni di tipo geografico che sono all’origine della formazione di un certo numero di entità urbanistiche nella nostra regione, quelle eterodosse; è stato impossibile nel lavoro svolto definire precise categorie di classificazione poiché qualsiasi tentativo si scontra con l’unicità dell’«oggetto», delle realtà insediative, le quali se hanno aspetti in comune ne hanno altrettanti divergenti pure in una piccola regione come il Molise e in ciò sta una parte della sua bellezza.

Roccamandolfi

2. Città millenarie

Sul territorio le civiltà che vi vivono imprimono segni, alcune in modo indelebile mentre altre lasciano scarse orme e ciò non dipende dalla loro longevità. Degli insediamenti insediativi dei sanniti non rimane memoria, le uniche testimonianze di questo popolo che abitò per molti secoli la nostra regione essendo unicamente i luoghi di culto e le fortificazioni. L’eredità di tale popolazione italica non la si coglie, in nessuna maniera, nella struttura insediativa attuale in cui, invece, sono ben percepibili le tracce delle successive civilizzazioni a cominciare da quella romana. Le scelte localizzative effettuate da quest’ultima, ma anche dalle successive, sono state confermate nel tempo da coloro che hanno risieduto nel Molise, fino al giorno d’oggi. Ciò che è mancato ai sanniti è stato il concetto stesso di urbano poiché essi dimoravano in semplici villaggi, poco più che raggruppamento di capanne, i vici, e solo dopo di loro si è affermata in quest’area l’“idea” di città, la polis, che non conta siano grandi o piccole, le quali possiedono notevole forza inerziale, insita in loro stesse, in grado di farle durare a lungo. Due forme di urbanizzazioni distinte, quella dell’epoca dell’antica Roma e dell’altomedioevo, diverse profondamente nei caratteri, l’una costituita da centri di una certa dimensione e l’altra da nuclei di consistenza limitata, che sembrava difficile potessero convivere insieme; quando c’erano cioè le cittadine romane, i Municipi, non c’erano i borghi arroccati i quali apparvero contemporaneamente all’abbandono delle prime. Per capire il fenomeno occorre introdurre un’altra distinzione, questa di tipo ambientale in quanto i romani prediligevano la pianura al contrario degli abitatori di quello che una volta era il Sannio che preferivano le alture: il piano, ormai cessato l’Impero, era diventato un luogo ostile innanzitutto per la perdita di capacità di regimentare i corpi idrici e, poi, meno difendibile dalle invasioni barbariche. Dunque, è stato l’ambiente il fattore determinante, sia nell’installazione da parte dei romani delle loro città nelle zone pianeggianti, indubbiamente più favorevoli ad un’organizzazione ordinata dell’abitato purché si sappia tenere a bada le acque, sia nello spostamento sui colli degli agglomerati abitativi già con i Longobardi. La ricomposizione di tale dualità avverrà molto più tardi, dovendosi attendere che il medioevo da “alto” diventi “basso”. Come si può vedere dai modi di insediarsi degli abitanti originari di questa terra, dei sanniti con la loro struttura “vicana” non rimane ricordo (salvo quanto si dirà alla fine).

Bojano, episcopio

Si è detto dello spopolamento delle entità urbane fondate dall’Urbe, ma esso non fu totale rimanendo quale presidio umano la sede vescovile, presenza non da poco. Essa favorì la ripresa della vita in questi che in passato avevano avuto il ruolo di poli territoriali, funzione che man mano si ripristinò proprio per merito dell’autorità religiosa la quale supplì l’assenza di quella civile. Ovunque in Europa il vescovo sta in città, magari in punti rialzati, vedi la cattedrale di Venafro, dell’aggregato urbano non nella zona più piatta dalla quale ci si era ritratti all’indomani della fine del potere imperiale. Ciò è successo dappertutto, dal già citato Venafro ad Isernia, da Trivento a Boiano  (si può notare l’esclusione di Altilia che non si è mai rialzata dal momento che i cittadini se ne andarono via). C’è, pure, Larino, dove l’episcopio non si trova tra i resti di Larinum, bensì nel centro formatosi in età medioevale che, però, sta in adiacenza. Termoli la quale è capoluogo di diocesi da sempre, con Limosano e Guardialfiera che sono più tarde in quanto a sede episcopale non sono ex municipi romani; di esse il centro adriatico che ha la “dignità” di città ha tutt’oggi la cattedra vescovile, a differenza delle ultime due nelle quali ha vita breve, forse, perché non posseggono il medesimo rango urbanistico. L’elencazione fatta dei comuni in cui vi è stato il travaso del compito di comando tra le istituzioni municipali e quella vescovile ci mostra che essi ricadono tutti nel settore territoriale molisano maggiormente ricco di storia la quale risale al periodo delle tribù pentre e frentane (l’ombra dei sanniti, almeno quella, è ancora presente, un imprinting territoriale assai soffice), coincidente con il Contado di Molise. Rimane scoperta l’alta valle del Volturno in cui il ruolo del vescovo è sostituito da quello dell’abate di S. Vincenzo al Volturno; i monasteri nascono proprio lì dove non vi sono entità urbane significative, fungendo essi, proprio per questo, da motore della rinascita economica e sociale delle comunità dopo i “secoli bui”.

San Vincenzo al Volturno

Un ulteriore posto in cui, vista la maglia regolare dei municipi romani, ce ne sarebbe dovuto ricadere uno è il cosiddetto Molise altissimo, connotato dalla presenza unicamente di ridottissimi, dimensionalmente, abitati, motivo per il quale non c’è un vescovo e, però, a differenza della vallata del Volturno non c’è neanche una realtà conventuale importante. La denominazione nelle fonti storiche di tale comprensorio è di Terra Burrelliensis, dal nome della famiglia che qui comandava. Ci si è soffermati a lungo sulle città, le quali non esauriscono  il quadro della rete insediativa poiché a corona di queste vi sono gli aggregati minori. In precedenza si è accennato all’esodo della popolazione dalle unità urbane di fondovalle, terminata la dominazione romana, per rifugiarsi sui rilievi collinari con un processo di giustapposizione degli insiemi abitativi che solamente più tardi diventerà di sovrapposizione, allorché si farà ritorno a valle, parzialmente, rioccupando i siti delle città coloniali. Figurativamente l’espressione che descrive meglio tale movimento è l’andare su e giù fino a stabilizzarsi con la compresenza di poli antropici sopra e sotto, in senso tanto geografico quanto stratigrafico. Quella finora compiuta è stata una lettura di tipo diacronico, quindi seguendo la successione temporale della distribuzione insediativa nel territorio; c’è qualcosa che ricorda le modalità di abitare i luoghi da parte delle genti italiche che, adesso adoperando il metodo sincronico, articolavano le funzioni urbanistiche, la “zona” cultuale (il santuario), quella per la difesa (la cinta fortificata) e quella “residenziale” usando termini del gergo tecnico, in polarità differenti, staccate fisicamente tra loro. È un’abitudine, quella di avere una molteplicità di sedi umane spazialmente separate che deve essere stata acquisita in quell’era così lontana e che non si è mai persa. Un’immagine plastica di tale tendenza, retaggio culturale della civiltà sannita, a giustapporre piuttosto che sovrapporre le sedi umane è il comprensorio di Sepino in cui si vedono contestualmente, ad altitudine differenziata, le mura ciclopiche di Terravecchia, il borgo medioevale e Altilia.

Campochiaro mura del tempio Italico

3. Centri abitati di varia età

Nella fascia che va da Venafro a Sepino, quella pedemontana del massiccio del Matese, i Romani avevano lasciato una ricca eredità di città, i vecchi municipium e cioè Venafrum, Aeserniae, Bovianun e Saepinum. Nel resto della regione c’erano solo Larinum e Terventum, stiamo parlando di città beninteso. Lasciata alle spalle l’antichità nei “secoli bui” dell’alto medioevo, in particolare nel periodo longobardo, si incominciò a strutturare il popolamento umano, fino ad allora disperso in minuscoli villaggi aggiungendosi ai precedenti centri, quali poli di riferimento civile per la popolazione, negli angoli che ne erano privi, opposti fra loro, l’uno nel basso, l’altro nell’alto Molise, due nuovi capisaldi territoriali, cioè sedi di contea, rispettivamente Rotello e Pietrabbondante; è rivelatore del fatto che non si trattava di autentiche realtà urbane come lo erano le ex colonie romane, l’identificazione nella denominazione di quest’ultima con i possedimenti dei Borrello, famiglia di condottieri, Terra Burrelliensis, e non con un abitato. Bisognerà attendere l’età normanno-sveva e soprattutto la dominazione angioina successiva perché si abbia il completamento con ulteriori tasselli della rete di città nella realtà regionale, con il progressivo affermarsi di Agnone, Termoli (che in verità era cattedra vescovile allorché Federico di Svevia fece il castello) e Campobasso, le prime due nelle due ali contrapposte e la terza nel centro della regione. Esse spostavano il suo baricentro allontanandolo dall’Appennino. Per queste tre non si può adoperare il termine «città di nuova fondazione», cioè quelle nate dal nulla perché in quel sito vi era già un nucleo abitato, sia pure minuto e neanche per tutte quelle di epoca tardo repubblicana-imperiale, in quanto sul medesimo promontorio fra il Sordo e il Carpino su cui sorge Isernia insisteva in precedenza un insediamento italico.

Isernia palazzo-de-lellis-petrecca

In relazione ai rimanenti municipi c’è una spiegazione, che non possiamo non fornire a costo di trattenerci a lungo su questa fase storica, al perché Roma decise di costruire ex-novo gli agglomerati insediativi, le “proprie” città ed è, fondamentalmente, la seguente: occorreva riportare a valle le rivoltose tribù del Sannio per controllarle meglio, costringendole ad abitare le città del piano da essa apprestate. Un contributo alla fondazione di nuovi centri, non più città, bensì piccoli borghi, lo diedero alla caduta dell’impero i benedettini con un grande attivismo dell’abbazia di S. Vincenzo al Volturno nel suo intento di colonizzare, di portare coloni, l’area circostante la quale diede vita a diversi comuni (Scapoli, Fornelli, cc.). Al civitanovese monastero De Iumento Albo si deve la creazione di Civitanova e ciò lo denuncia per un verso il nome, ricorrente pure nelle varianti di Terranuova (o Terranova) e di Villafranca (o Francavilla), che esplicita la sua origine recente e, per l’altro verso, l’assenza di una rocca nel punto più alto, cosa che succede regolarmente a Scapoli, Fornelli, ecc. nella Terra S. Vincentii, il che rivela la mancanza, in principio, di un feudatario essendo una proprietà conventuale. Vi è pure un aggregato abitativo di iniziativa regia, Guardiaregia anche se sembra potersi attribuire alla Corona, in vari momenti della storia, l’edificazione piuttosto che di entità castellane, abitate, di sistemi di torri di controllo, disabitate, quello ad est lungo la, linea di costa che è, poi, il “confine di stato” e quella a ovest nel vertice in cui il Molise confina con la Campania e il Lazio, le “torrette” che sovrastano Venafro. Con un salto di molte centinaia d’anni giungiamo all’era contemporanea, ai primordi della stessa, in cui si registra, dopo una stasi durata appunto molte centinaia d‘anni, la comparsa di un insieme urbano di “nuova fondazione” che è Nuova Cliternia frazione di Campomarino. Di scala ridotta nei confronti di questa è Melanico in agro di S. Croce di Magliano, ambedue “figlie” dell’opera di bonifica del basso Molise avviata dalla legge Serpieri a fine 1800. È interessante osservare che mentre i Sanniti furono obbligati a trasferirsi nelle città di pianura volute dall’Urbe, la politica seguita nella epocale opera di bonifica agraria fu quella di attirare i futuri residenti di queste unità urbanistiche con concessione di poderi da coltivare, così come, contestualmente, si fece con le casette coloniche cui è annesso un fondo agricolo di dimensioni standard, rapportato alle esigenze e alle capacità lavorative di una famiglia media (è da immaginare che qualcosa di simile dovette avvenire per le civite nuove, cioè l’allettamento delle persone a risiedervi con offerta di suolo coltivabile).

Torella

Nel corso del XX secolo si sono avuti anche altri tipi di centri ex-novo, non connessi come quelli della Riforma Agraria alla cosiddetta redenzione delle terre, bensì per dare un alloggio a quelle comunità il cui paese, Castellino sul Biferno, o borgate, Pagliarone nel perimetro comunale di Vastogirardi, era minacciato, nel primo caso, o portato via, nel secondo caso, da una frana: sono sorti così Castellino Nuovo, lontano dal borgo matrice, in cui però i castellinesi non hanno voluto traslocare anche perché il dissesto del nucleo originario appare sotto controllo, e Villa San Michele, non distante dalla frazione franata, con le sue fila di linde casette a schiera. Tra i rischi naturali vi è anche il sisma e a S. Giuliano di Puglia una volta terminata la ricostruzione del borgo colpito dal tragico terremoto del 31 ottobre del 2002, i cittadini hanno lasciato i prefabbricati in legno del villaggio ufficialmente temporaneo (dovrà essere di conseguenza smontato oppure riconvertito ad altri usi prima che deperisca). Ci sono, poi, i Comuni danneggiati dalla II Guerra Mondiale, S. Pietro Avellana, S. Angelo del Pesco, Pescopennataro e Capracotta, intere parti dei quali “rifondati” ab imis, cominciando dall’immagine per la prevalenza della tipologia della palazzina plurifamiliare al posto del tradizionale edificio unifamiliare. Si intende per centro di nuova fondazione, un centro d’impianto, quindi seguente un disegno di piano, cosa che non si può di certo dire per le agglomerazioni spontanee di fabbricati tra le quali vi sono gli “insediamenti abusivi” (è la definizione di legge). Codacchi di Trivento e Montalto di Rionero Sannitico si sono sviluppati, poco alla volta, manufatto dopo manufatto, lungo il tratturo occupandone parzialmente il sedime, acquisendo in tal modo la configurazione di un insediamento lineare secondo il gergo dell’urbanistica. Infine occorre citare nella carrellata in corso sugli agglomerati di nuova fondazione i villaggi turistici, senza però non aver fatto rilevare prima che pure Altilia ha inglobato il percorso tratturale, ma non per necessità, bensì deliberatamente per il valore aggiunto che ne derivava dal passaggio della transumanza; ciò che distingue le lottizzazioni per il turismo, tanto marino, Campomarino Lido, Costa Verde di Montenero di Bisaccia, ecc., quanto montano, Campitello, dal resto delle formazioni insediative è che se queste ultime si localizzano in un certo luogo è per motivi di carattere utilitaristico, di ordine difensivo, commerciale, di sicurezza dalle inondazioni e così via, mai per l’apprezzamento del paesaggio che è, invece, la peculiarità delle stazioni di villeggiatura, anche se capita che non si sappia riconoscere le bellezze naturali come le dune costiere le quali vennero distrutte sovrapponendovi i complessi per vacanze.

centro storico Macchiagodena

4. Le cittadine

Nel Molise non è tanto che le città sono minime, quanto il fatto che si tratta di un territorio complessivamente poco popolato. Il rapporto che c’è tra popolazione insediata in centri con dimensioni rapportabili a quelle di una città, seppur piccola, e quella che, invece, vive in paese è di uno a tre: Termoli, Isernia e Campobasso hanno nel loro insieme 100.000 abitanti i quali, dunque, sono circa un terzo del totale dei cittadini molisani. È una percentuale che non si discosta molto dalla media nazionale e, pertanto, il problema che l’area molisana risulti poco abitata non sta nella grandezza delle città, ma nella densità abitativa nella sua interezza, cioè della regione nella sua totalità, che è estremamente ridotta. Non è colpa, in definitiva, delle città se siamo così pochi. Il contributo che esse danno alla demografia regionale è in linea, lo abbiamo detto, con quanto succede altrove, un contributo, per inciso, destinato a crescere se si avvereranno le previsioni dell’ONU che in futuro coloro che risiederanno in città saranno due terzi dell’umanità. Non è che si è tutti convinti della stessa cosa a proposito dell’urbanizzazione. Secondo la classificazione adottata nella statistica ufficiale tedesca gli insediamenti residenziali si distinguono in tre categorie, da quelli più popolosi, superiori a 20.000 persone, a quelli meno, maggiori di 5.000, fino agli agglomerati con almeno 2.000 individui; il resto non li si considera entità urbana, ritenendoli parte del mondo rurale. Si è preso il caso della Germania per far emergere, rimanendo nel nostro medesimo continente, la profonda distanza che c’è tra i vari Paesi a proposito di cosa si intende per urbanità poiché qui da noi si considerano nuclei anche aggregati minuscoli (nel Molise, ad esempio, Castelpizzuto, Castelverrino e Provvidenti, seppure di poco più di un centinaio di anime sono Comuni).

Salcito

È una questione di storia essendo essi, tutti, di origine medioevale quando si diffuse l’incastellamento; al presente proposito è da notare che vi sono raggruppamenti di case, pure consistenti, che sono frazioni e non sedi municipali, prendi Codacchi di Trivento, Montalto di Rionero S., S. Stefano di Campobasso, i quali hanno origine recente, quelli citati successiva all’abolizione della transumanza, altri all’eliminazione del pericolo allagamenti, la località Altilia (e dintorni) di Sepino è un esempio, e così via. In terra germanica non deve essere stato così. Ciò che distingue, parlando di villaggi, l’urbano dal rurale è, inoltre, la composizione sociale, la cui omogeneità per quanto riguarda i nuclei insediativi rurali deriva dalla medesima occupazione per ogni appartenente alla comunità, l’agricola, mentre nelle società urbane vi è una diversificazione delle attività lavorative. In queste ultime troviamo accanto agli addetti al settore primario i commercianti, i professionisti, i muratori, gli artigiani, ecc. e qui la gente, peraltro, viene progressivamente a suddividersi in classi. Man mano che sale la taglia demografica sale il peso del settore terziario oltre che dell’artigianato. Le realtà comunali che superano le 5.000 unità sono anche sede di mercato, il quale si svolge settimanalmente, quasi a turno, la domenica a Trivento, il sabato a Boiano, il giovedì a Isernia. Una certa consistenza abitativa, la varietà dei servizi che vengono offerti, una qualche vivacità economica, non fosse altro che l’edilizia per la costruzione e manutenzione degli alloggi portano ad attribuire statisticamente e anche elettoralmente, in occasione del rinnovo dei consigli comunali, un rango superiore a tali Comuni. Venafro, Boiano, Trivento, Larino, Montenero di B., Campomarino, Riccia e via dicendo non sono, di certo, città, ma neanche semplici borghi; il termine appropriato per definirli è quello di cittadine. Sono circa una decina per cui sommando la popolazione di ciascuno di essi si arriva alla cifra di 50.000 persone le quali aggiunte alle 100.000 delle città fanno sì che all’incirca la metà dei molisani si trova a vivere in zone con connotati, utilizzando un vocabolo non preso a caso, cittadini, cioè sia in città sia in cittadine.

Carro tradizionale Bojano

L’aggettivo di ruralissima dato da Mussolini alla regione si rivela, pertanto, non del tutto appropriato. Se si tiene conto che i centri che hanno da 5.000 residenti in su sono pressoché equamente distribuiti sulla superficie regionale e cioè che sono con passo uguale disseminati nei diversi comprensori sub-regionali e, infine, che le attrezzature presenti nei centri più grandi, proprio per la contiguità tra i nuclei abitati maggiori e minori, sono raggiungibili con facilità da chiunque, per la loro importanza si nominano le scuole, una certa presenza dell’urbano è ovunque. Si ha il riverbero dei servizi collocati nelle cittadine, per quelli a breve raggio, e nelle città, a lungo raggio, sì che in qualsiasi angolo del territorio si possa essere partecipi delle opportunità concesse dai centri principali, anche se, in verità, oggi la vicinanza fisica non è più richiesta in una molteplicità di campi, dal lavoro con lo smartworking, all’acquisto di beni con le vendite on-line, all’informazione con la rete Internet con conseguenze sullo stile di vita che è da un po’ che tende a omologarsi fra città e campagna, almeno da quando sono comparse la TV e l’auto. Rientra nelle abitudini essenziali, se non è, addirittura, una faccenda di mode, pure la modalità alloggiativa e allorché in un dato circondario, nonostante quanto si è detto può capitare ed è capitato al comprensorio dell’alta valle del Volturno, non vi è un consolidato polo urbano di riferimento allora si individua un centro il quale possa assurgere a tale “dignità”, che è Colli al V. dove si edificano palazzine per accogliere le famiglie di Scapoli, Rocchetta al V. e Cerro al V. amanti dell’appartamento il quale ha tanto un’aura cittadina e non della casa individuale che è rurale; tale tendenza, vale la pena evidenziare, sarebbe stata inconcepibile un tempo, all’epoca in cui l’agricoltura imperava, tanto che suscitò perplessità la comparsa di fabbricati di edilizia popolare plurifamiliari nella ricostruzione di Monacilioni, la Pompei molisana, perché privi di annessi agricoli. In ultimo, per specificare e concludere l’argomento Colli, tale paese doveva avere già qualcosa di più degli altri prossimi se è stato assegnato ad esso tale ruolo in quanto non è credibile che qualcuno si trasferisca, mettiamo, da S. Massimo al confinante Cantalupo solo per la disponibilità di un “quartino”. Così come è in corso la formazione di nuovi poli di aggregazione comprensoriali che, poi, evolveranno in cittadine, nel senso di cui sopra, è in corso pure il cambiamento di rilevanza di alcuni di quelli esistenti specie se non collocati lungo l’asse Venafro-Isernia-Boiano-Campobasso dove si concentra una grossa fetta della popolazione della regione.

Duronia

5. Un paese, anzi due, uno a valle uno a monte

Civitanova è emblematica di un fenomeno che ha riguardato diversi Comuni nel Molise, quello del trasferimento di parte della popolazione di un abitato dall’insediamento originario in cui vivevano. Infatti, i suoi abitanti un tempo dovevano risiedere a Duronia, la quale fino al XIX secolo si chiamava Civitavecchia, in contrapposizione, appunto, a Civitanova. La compresenza di questi due toponimi, in verità, deve essere legata ad uno sdoppiamento della comunità, piuttosto che alla sua migrazione in un differente luogo, in quanto paesi tuttora coesistenti. La ragione può essere quella della insufficienza di spazio per l’espansione dell’agglomerato edilizio, magari perché collocato, a scopo difensivo, su un’emergenza rocciosa circondata da pareti scoscese (su un lato Duronia è tangente al tratturo sul quale, è ovvio, non si poteva costruire). Civitanova è esemplare anche per un ulteriore aspetto, questo relativo ad una pluralità di siti insediativi all’interno del medesimo territorio comunale, che si aggiunge a quello della duplicazione dei nuclei abitativi descritto prima; nel suo perimetro amministrativo troviamo il nome di due località, l’una denominata Terravecchia, l’altra Civita, ambedue disabitate (l’unica traccia di una sede umana in epoche antiche è la torre che sta nella prima) e, perciò, a differenza di quanto abbiamo fatto parlando di Duronia, prendendo spunto dal nome, non possiamo dire che si tratta di gemmazione da un nucleo iniziale con il termine usato in precedenza duplicazione che ora sarebbe quadruplicazione, ma di traslazione dell’insieme residenziale. Si evidenzia, per quanto può valere, che Terravecchia e Civitavecchia sono sinonimi e che entrambe le presenze di tipo archeologico civitanovesi sono poste in ambienti inospitali, la Civita in altura e Terravecchia nel fondovalle.

castello Roccapipirozzi

Così esplicitamente, cioè salvo Civitanova e Duronia, non si trovano entità urbanistiche discendenti la prima dalla seconda nella nostra regione, essendovi solo Castelnuovo, qualcosa in più di una frazione, che deve derivare da Scapoli, il capoluogo comunale; una precisazione doverosa è che la denominazione civita rivela un’origine più remota di castello con l’incastellamento risalente ai Normanni. Finora abbiamo osservato la successione temporale delle realtà urbane e non quella geografica; adottando tale punto di vista si coglie una tendenza di una certa consistenza allo slittamento a valle dell’urbanizzazione, specie se nel piano passa una importante via di comunicazione. Non è un processo iniziato oggi, bensì in corso da tempo. Esso è denunciato pure dalla terminologia impiegata per distinguere gli aggregati aggiungendo l’aggettivo alto o basso a seconda se è quello che sta sul rilievo o se sta nella vallata sottostante. Abbiamo Rocchetta Alta (ormai a rudere) e Bassa, Roccapipirozzi Alta e Bassa, Roccaravindola Alta e Bassa, con la sottolineatura della strana coincidenza che tutti e tre gli episodi riguardano strutture insediative denominate rocca, vocabolo da cui discende arroccamento, cioè il collocarsi in una posizione inespugnabile e, quindi, inaccessibile. Sia Roccapipirozzi, sia Roccaravindola sono ufficialmente delle borgate, non, dunque, borghi (non rientrano, pertanto, fra i 136 borghi molisani), rispettivamente di Sesto Campano e di Montaquila, nei quali, a loro volta, sono presenti dei corposi raggruppamenti di case, filiazioni avvenute nella zona sottostante (invece Roccapipirozzi e Roccaravindola sono completamente indipendenti, pure come storia feudale) che sono Taverna a Sesto e Masserie la Corte a Montaquila, autentici centri doppi.

Bojano

Nessuno dei casi di sdoppiamento enumerati, comunque, ha dato vita a enti locali a sé stanti, a differenza di quanto è successo a Civitanova e Duronia. Alto e Superiore significano la stessa cosa: una replica del rapporto tra polo urbano di sotto e di sopra è quello di Boiano dove c’è Civita Superiore. Ciò che distingue la “capitale” del Matese è che qui viene prima la città di pianura, municipio romano, e poi il villaggio in quota sorto intorno a un maniero longobardo. C’è da introdurre il tema generale che caratterizza il sistema insediativo regionale in senso diacronico che è quello della giustapposizione delle fasi, ancora insediative, e non della sovrapposizione, quindi della stratificazione del costruito di età successive su quello preesistente, come accade altrove. Lo si coglie bene a Sepino per la compresenza di tre fatti urbani distinti, Altilia nella fascia pianeggiante, Terravecchia sul monte, e l’attuale cittadina che è in collina, realizzati in momenti storici separati, in ordine, quello della dominazione di Roma, quello sannitico e quello medioevale con, peraltro, un andamento ondivago per cui dalla fortificazione dei Sanniti che è in altitudine ci si sposta nella piana ad opera dei Romani per, infine, tornare sulle pendici della montagna, ma ad altezza minore di quella di Terravecchia; in comune i tre nuclei hanno la radice del nome che è saepio (cingere in latino) perché quello romano si chiamava Saepinum, quello italico Saipins, in lingua osca, e, dunque, Sepino dei nostri giorni. Ci sono, inoltre, comuni formati da più parti differenziate in quanto a periodo di fondazione che stanno affiancate spalla a spalla non distanziate territorialmente: S. Biase è la somma di Borgo Slavo e Borgo Croce, che convivono fianco a fianco e forse in passato accettandosi con reciproca diffidenza a causa dell’etnia (gli slavi sono concentrati in una precisa area sub-regionale loro assegnata con scarsi contatti con gli indigeni per cui S. Biase rappresenta un’anomalia). A Campobasso c’è l’ottocentesco Borgo Murattiano che sorge fuori le mura senza alcun distanziamento dall’abitato primitivo. Distingue S. Maria del Molise il suo essere assurta a capoluogo comunale, pur essendo nata quale semplice contrada, sostituendosi in questo ruolo a S. Angelo in Grotte nel quale fino agli inizi del ‘900 era stabilito il Comune. L’intero escursus compiuto ha riguardato la separazione tra realtà insediative e, in conclusione, quasi a bilanciamento si cita un episodio di unificazione che, però, era nei fatti in quanto fisicamente accostati, Castellone e S. Vincenzo al Volturno.

6. La disseminazione degli edifici nell'agro

Casa rurale

Il proliferare di case in campagna è causa di tanti problemi. Il primo che è stato oggetto di una procedura d’infrazione comunitaria riguardante i comuni di Campobasso e di Isernia dove il fenomeno è maggiore è quello della depurazione delle acque. Le abitazioni isolate non consentono la realizzazione di una rete fognaria, bensì obbligano all’installazione di dispositivi individuali, tipo le fosse settiche con dispersione dei reflui che residuano al trattamento nel terreno. La diffusione insediativa provoca danni tanto alla comunità nel suo insieme quanto a coloro che abitano nelle residenze sparse, oltre che per l’ambiente. Per la collettività si tratta di addossarsi spese per le infrastrutture, dalle strade alle fogne, dalle linee elettriche all’illuminazione viaria, e per i servizi, dalla raccolta dei rifiuti allo scuola bus. Per i privati i costi sono legati al doversi spostare, per raggiungere i servizi cittadini e, quando è il caso, i luoghi di lavoro con l’auto propria. A questo proposito è da evidenziare che i disagi negli spostamenti si incrementano per le categorie sociali più deboli diventando addirittura fattore di esclusione dalla fruizione delle attrezzature urbane per chi non guida come i bambini, gli anziani e i disabili i quali sommati tra di loro costituiscono circa la metà della popolazione. L’elevato prezzo del carburante potrebbe indurre i poveri a limitare i movimenti. Il settore dei trasporti, per quanto riguarda le ricadute sull’ecosistema, è tra le principali cause di inquinamento atmosferico. Sempre a proposito delle conseguenze sulla qualità dell’aria è da dire che i fabbricati staccati dagli altri portano a consumare molta energia per il riscaldamento dell’alloggio anche se, in verità, è negli spazi liberi che è possibile realizzare impianti fotovoltaici i quali andrebbero a compensazione dello spreco energetico. Per chi vive in edifici situati nell’agro rurale una preoccupazione legittima è quella della difesa dai furti per cui occorre dotarsi di sistemi antintrusione se non di costose recinzioni. Il vivere nel territorio agricolo non consente lo sviluppo di relazioni sociali in mancanza del vicinato e ciò è penalizzante specie per i single. Dal punto di vista ambientale c’è la questione del consumo di suolo, una priorità nelle agende dei governi a livello planetario, che significa riduzione delle superfici coltivabili. All’eccezione appena posta si potrebbe obiettare che in larghe zone del Molise si registra la ritrazione dell’agricoltura da una quota significativa di appezzamenti un tempo coltivati: non si tiene conto, occorre obiettare, che l’eliminazione dello strato pedologico per tirar su una struttura edilizia è qualcosa di irreversibile, mentre si spera che il settore primario possa riprendersi prima o poi. Accanto al fatto che costruire equivale a sottrarre aree per le colture vi è un’altra conseguenza che è l’impermeabilizzazione del terreno, nociva in quanto riducendo la sua permeabilità non è più in grado di assorbire l’acqua piovana.

bosco Popolo

Nei vari Piani per la Difesa del Suolo presenti nella nostra regione l’allargamento della crosta edificata e asfaltata è vista come una minaccia sia per l’aumento del rischio inondabilità che per quello a frana. Sotto l’aspetto ecologico la trasformazione degli ambiti agricoli, specie quelli dove si pratica un’agricoltura tradizionale, significa una perdita di naturalità che è tanto più grave se tali ambiti sono posti fra due Siti di Importanza Comunitaria (che da noi sono più di ottanta divisi fra i vari comprensori sub-regionali) essendo in grado di svolgere il ruolo di aree di connessione della rete ecologica europea, una sorta di “corridoio ecologico” di tipo areale e non lineare. Tra i valori ambientali che la dispersione di residenze nell’ambito agreste compromette vi è, di certo, pure il paesaggio. Si vengono ad alterare i connotati dell’organizzazione agraria del passato ancora leggibile in alcuni tratti del nostro territorio. L’agricoltura tipica ben si associa con quadri paesistici integri, senza l’intrusione di manufatti edilizi. Le architetture moderne si pongono in contrasto con le antiche dimore contadine vicine e, ancora di più, con le grandi sedi delle aziende mezzadrili ottocentesche. Se si riconosce che il paesaggio è uno dei principali fattori di sviluppo sui quali puntano le istituzioni locali si può comprendere quali effetti negativi producano le case sparse di recente edificazione.

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Il più interessante dei paesaggi molisani è quello collinare e proprio qui si registra il maggior quantitativo di abitazioni a sé stanti. E, del resto, questa è una tendenza storica come dimostra l’assenza di episodi insediativi nelle zone extraurbane nell’alto Molise che è montagnoso e nel basso Molise che è pianeggiante. La collina è il luogo privilegiato per abitare da sempre, dove si incrementa la tendenza a realizzare costruzioni isolate perché vi sono le condizioni migliori di clima, di soleggiamento e, insieme, di panoramicità. La punta più elevata di diffusione di residenze in campagna è rappresentata da Campobasso in cui si è reso necessario predisporre un piano di recupero per «gli insediamenti abusivi» nelle aree rientranti nella apposita «perimetrazione» secondo la normativa regionale conseguente al Condono edilizio. Una delle questioni maggiormente preoccupanti è quella della viabilità che serve queste fasce edificate, davvero estese vivendovi migliaia di cittadini. Le strade interpoderali e vicinali non hanno una sezione adeguata , in ogni pezzo, per garantire il passaggio contemporaneo di due mezzi che viaggiano in direzione opposta e ciò è davvero pericoloso se ad incontrarsi sono un’ambulanza o un camion dei vigili del fuoco e nell’altro verso un’automobile privata. Durante le emergenze tale situazione può risultare molto rischiosa. In altri termini, la viabilità occorre che sia pensata pure in termini di “via di fuga”, valutando la presenza di percorsi alternativi, magari perché vi è una ridondanza di tracciati viari (salvo scartando quelli che risultano vulnerabili per la presenza di un ponte non adeguato dal punto di vista sismico, se la calamità è il terremoto). Si riscontra, ad ogni modo, che nel Molise non vi sono “lottizzazioni abusive”, con un frazionamento dell’appezzamento, cioè, finalizzato alla formazione di lotti edificabili. Gli insediamenti abusivi sono il frutto di una serie di assensi rilasciati per la costruzione di volumi dichiarati agricoli che vengono poi sanati in vani residenziali. Pure paesaggisticamente ciò stona poiché il “segno” deve essere corrispondente alla “funzione” detto diversamente il “significato” al “significante” se si vuole un’opera architettonica ben fatta come sostenevano nel 1700 i trattatisti Lodoli, Laugier, Silvatico.

7. I nuovi materiali da costruzione

architettura moderna

La modernizzazione della regione dal punto di vista dell’organizzazione urbana nonché territoriale è avvenuta anche per merito dei nuovi materiali che sono cominciati a comparire già alla fine del XIX secolo. In verità, non solo nuovi materiali, ma pure nuovi processi di produzione dei materiali e ciò vale per il laterizio. I nuovi materiali sono, ovviamente, materiali artificiali, in questi è compreso il cemento, cioè materiali che in natura non si trovano già belli e pronti per essere utilizzati, come la pietra che è stato in passato qui da noi il materiale principe nelle costruzioni. Sono cambiati i materiali e quando ciò non è avvenuto si è modificata la tecnica di lavorazione ed il caso del legno che da allora viene tagliato in segherie azionate a motore (è, in effetti, una macchina inventata al termine del 1700 mossa a lungo dall’energia idraulica e di questo tipo di segheria c’era un esempio a Boiano sul fiume Calderari). I materiali ai quali ci stiamo riferendo si sono rivelati indispensabili per permettere la crescita urbanistica, forte nel II Dopoguerra, dei principali centri molisani. Le “palazzine” hanno la struttura portante in calcestruzzo armato e la tompagnatura realizzata con blocchetti forati in laterizio e per quanto riguarda questi ultimi va fatta una annotazione la quale è l’essere di fronte ad una rivoluzione per certi versi, per la modifica delle dimensioni del mattone che sono state le stesse per oltre mezzo millennio; i pezzi con la classica misura multipla di 2,5 centimetri vengono impiegati da ora in poi prevalentemente per i rivestimenti a faccia vista. Si tratta dei mattoni tradizionali che uscivano dalle fornaci tradizionali, presenti un po’ dovunque nel Molise, soppiantate in seguito dagli opifici industriali, di cui quello campobassano dei Petrucciani è uno dei maggiori.

cava di argilla

a fabbricazione dei mattoni non passa più da tante piccole fornaci concentrandosi in grosse unità produttive. La localizzazione dei laterifici non è più condizionata, a differenza di quanto avveniva per le “pincere”, esclusivamente dalla disponibilità della materia prima, l’argilla, ma anche da altri fattori. Il citato stabilimento Petrucciani è nelle vicinanze della “capitale” della regione dove, è evidente, la “domanda” è più forte, mentre quello di Cantalupo o quello di Baranello oppure quello di S. Pietro Avellana si posizionano in prossimità della linea ferroviaria per ragioni legate al trasporto dei prodotti. Il cambiamento oltre che delle dimensioni è pure quello delle tecnologie, in passato molto semplici, legate all’avvento del forno Hoffman. Da queste fabbriche per l’epoca innovative escono fuori insieme a mattoni, tegole e pavimenti, cioè materiali edili come, del resto, facevano pure le fornaci di un tempo, gli elementi modulari delle tubazioni, utilizzati per le reti idriche e fognarie delle quali gli insediamenti abitativi nella seconda metà del secolo scorso si andavano dotando. In verità, nel medesimo periodo fanno la loro comparsa e prendono il sopravvento i tubi in calcestruzzo, magari con il cemento fornito dal cementificio che è sorto a Guardiaregia all’incirca 70 anni fa. Già prima dell’ultimo conflitto mondiale, però, il cemento ha iniziato ad essere un protagonista di enorme peso nel mondo delle costruzioni. Sarebbe interessante che durante i lavori di rifacimento dei percorsi stradali nel momento in cui ci si imbatte in vecchi tubi se ne lasciasse traccia attraverso riprese fotografiche, per capire di quale sostanza sono costituiti, cementizie o argillose; si potrebbe documentare, inoltre, la pavimentazione stradale preesistente, se venne o no applicato il metodo Mc Adam nel qual caso il bitume utilizzato potrebbe provenire dalla cava Pallante di Frosolone, ottenuto mediante la cottura del calcare che permette la fuoriuscita del materiale bituminoso dalla pietra.

S.S.17 viadotto bojano

Quello delle arterie di scorrimento è un altro tema importante dell’ingresso nella modernità della nostra realtà regionale, che ha avuto un grande impulso negli anni ’70 del secolo scorso, con la realizzazione della fondovalle del Biferno e del Trigno con ampio uso del cemento nelle solette e nei piloni dei viadotti che sono in c. a.. Si è parlato della tecnica del cemento armato per quanto riguarda le infrastrutture viarie, lo si è appena fatto, e le abitazioni per coloro che si andavano inurbando trasferendosi dai borghi minori nei capoluoghi di provincia e a Termoli, dove si stavano affermando alcune presenze industriali, accennando solamente ad una delle due componenti del c.a., il cemento e non si è detto nulla dell’armatura, del ferro. Anche quest’ultimo materiale ha avuto un peso notevole nel cammino di questo territorio verso l’era odierna. Non è che non si conoscesse in precedenza essendo presente già nell’antichità come risulta dai ritrovamenti di oggetti vari, dalle armature alle fibbie, databili all’epoca sannita e al periodo della dominazione romana e, nella civiltà contadina, la quale è notoriamente senza tempo, i manufatti in ferro erano numerosi, vedi i diversi attrezzi agricoli, la zappa, la falce, l’aratro, ecc., ma non era utilizzato in edilizia, salvo i serramenti e le ringhiere dei balconi. All’approssimarsi dell’età moderna il ferro, tanto trasformato in ghisa quanto, successivamente, in acciaio, fa la sua comparsa nelle costruzioni sotto forma di tettoie, quelle del Mercato Coperto di Campobasso, di copertura dei lavatoi, succede ad esempio a Baranello, e di pensiline delle stazioni ferroviarie, si è conservata quella originaria a Larino. Nel filo del discorso che si sta seguendo, quello dell’evoluzione del comparto residenziale e dell’apparato infrastrutturale in senso moderno, rientrano anche le vie di comunicazione, c’è stato un breve richiamo sopra, tra le quali vi sono le strade, appunto, ferrate. Di ferro sono fatti i binari e sempre con tale materiale sono fatti i ponti ferroviari, uno per tutti quello ottocentesco sul Rio Bottone nella tratta Bosco Redole-Isernia che è stato sostituito, o, addirittura, rifatti, uno sta sulla tratta Campobasso-Termoli, che è stata di recente ammodernata, in agro di Ripabottoni. In città il ferro punteggia la maglia viaria sotto specie di palo di illuminazione e di ferro è, in aggiunta, il sistema reticolare che ingabbia il gasometro, una delle prime attrezzature civili di Campobasso. L’introduzione del ferro nel campo delle opere di interesse collettivo antecede quello del cemento il quale, comunque, recupera subito terreno, mettendosi ben presto alla pari con l’altro e anzi venendo a stringere con esso una proficua collaborazione come testimonia il calcestruzzo armato. Conservano ad ogni modo identità distinte per cui vi sono campi, i serbatoi degli acquedotti che si trovano in tutti i paesi, specifici del cemento differenti da quelli del ferro, quindi i silos dove il Consorzio Agrario ammassava il grano che sono formati da pannellature metalliche.

cemento armato

8. L'era del cemento

Le grandi trasformazioni del nostro territorio avvenute negli ultimi 50 anni, così come la crescita intensa dei principali comuni molisani, in particolare Campobasso, Isernia e Termoli, sono state consentite dalla diffusione dell’impiego del cemento armato nelle costruzioni. Per quanto riguarda il paesaggio è negli ultimi decenni del XX secolo che si sono avute le maggiori alterazioni, addirittura più consistenti di quelle prodotte agli inizi del nuovo millennio dagli impianti eolici; ci si sta riferendo specialmente alle grandi arterie che hanno occupato le fondovalli con i lunghi viadotti in conglomerato cementizio (le travature in ferro compaiono in seguito), nel rinnovato tracciato della strada che congiunge il capoluogo regionale con Casacalenda . L’impatto percettivo fu notevole anche perché subitaneo mentre si era abituati in precedenza ad evoluzioni lente dell’assetto territoriale. Quasi di colpo con queste opere fummo ricacciati dal medioevo alla contemporaneità, almeno in riguardo all’aspetto paesaggistico; luoghi che erano rimasti come immagine fermi per centinaia e centinaia di anni cambiano improvvisamente la fisionomia consolidata. Tutto ciò per merito o per colpa del cemento armato.

mangimificio

Non solo del calcestruzzo armato, in verità, perché ad incidere su alcuni angoli della regione è pure un’altra categoria di opere, le dighe le quali sono state realizzate qui da noi in terra in quanto in tal modo capaci di resistere alle sollecitazioni sismiche che possono essere estremamente violente in una regione appenninica, il cui loro crollo provocherebbe l’inondazione della intera fascia costiera e non solo delle aree immediatamente sottostanti agli sbarramenti di Chiauci, Occhito e del Liscione. Si è detto degli ambiti rurali e ora guardiamo il peso che ha avuto il cemento armato nello sviluppo degli insediamenti abitativi. Senza l’adozione del metodo costruttivo in c.a. non si sarebbero potuto avere le cosiddette palazzine, gli edifici pluriplano che costituiscono il modulo-base dei quartieri residenziali sorti al contorno dei nuclei storici e delle appendici ottocentesche dei due capoluoghi di provincia e nella periferia termolese. Nella versione aggiornata delle “palazzine”, le prime delle quali sono cominciate ad apparire già alla fine dell’ultimo conflitto mondiale, compare l’ascensore che adesso viene considerato una dotazione indispensabile dei fabbricati alti; in altri termini tale tipologia edilizia così pervasivamente presente negli agglomerati urbani anche di taglia ridotta lega la sua fortuna nel presente al conglomerato cementizio da un lato, e cioè per metà, e dall’altro, quindi per la restante metà, ai mezzi meccanici d’elevazione. Hanno a che fare con il cemento i pannelli prefabbricati con i quali sono stati realizzati i capannoni destinati ad attività produttive, agricole e per il commercio dispersi nell’agro o concentrati negli agglomerati industriali. La prefabbricazione ben si addice a manufatti che, seguendo le tendenze di un’economia, quella odierna, caratterizzata da continui cambiamenti, possono variare di dimensioni nel tempo, in quanto scomponibili oppure possono mutare destinazione. Per quanto riguarda quest’ultimo punto è da evidenziare che il vocabolo capannone che li identifica è sinonimo, in qualche modo, della parola contenitore, impiegata nel gergo architettonico per indicare volumi edilizi capaci di accogliere funzioni differenti in quanto spazi non calibrati esattamente su uno specifico uso. Pure questi sono un segno della modernità che ha inciso a volte molto su gran parte dei comprensori rurali e periurbani regionali. Il cemento armato in questo sistema costruttivo realizzato “fuori opera”, ovvero in stabilimento è indispensabile così come lo è per quelle componenti delle strutture che vanno eseguite necessariamente “in opera”, ossia in cantiere, tipo le fondazioni.

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Un’esigenza imprescindibile delle opere fondali è che esse siano impermeabili e il cemento è un materiale che risponde a tale requisito per cui è impiegato pure per i capannoni metallici. Da sola l’introduzione della tecnica del cemento armato non avrebbe consentito il concepimento dei centri commerciali le cui necessità di spazio impongono la progettazione di capannoni “dilatati”, cioè pur sempre capannoni ma volumetricamente assai ampi, assai più ampi di quelli usuali; anche in questo caso, come in quello delle abitazioni che abbiamo visto in precedenza, l’ammodernamento delle attrezzature, intese sia come case che come locali di vendita, passa per l’introduzione contestuale di apparati tecnologici e di soluzioni strutturali (il c.a.) nuove. Qualcosa di analogo la si può constatare a proposito dell’acciaio che è tornato ad essere un protagonista nel mondo edile da quando la scienza applicata ha risolto il problema della prevenzione incendi, in precedenza temuti perché il ferro è intrinsecamente sensibile al fuoco. Tale preoccupazione aveva indotto in precedenza ad abbandonare tale tecnologia, affermatasi specialmente nelle architetture per l’industria, portando a privilegiare quella fondata sul c.a., dove il cemento protegge dal fuoco l’armatura in ferro che sta al suo interno. Con una sorta di rincorsa continua, il ferro che era l’attore unico sulla scena degli spazi di grande luce nel XIX secolo (dopo negli schemi a telaio gli diventa figlio), viene sostituito in tale ruolo dal c.a. ma a questo sorpasso esso risponde con una ripresa del suo impiego e la competizione si conclude con un pareggio, sancito non troppo tempo fa. In ogni settore dell’infrastrutturazione civile che ha accompagnato il progresso economico della nostra società a partire dagli anni del “boom” il conglomerato cementizio ha una parte (ancora la metafora del teatro) importante: da quelle per lo sport (palazzetti e piscine) a quelle culturali (auditorium, museo, biblioteca e scuola), da quelle industriali a quelle per i servizi di vendita, da quelle ricreative e turistiche a quelle alloggiative, da quelle sanitarie a quelle igieniche. Vi sono, poi, a sostegno dello sviluppo le infrastrutture stradali nelle quali sono compresi i viadotti (il “Molise 1” sulla Bifernina è l’antesignano) e i ponti (non il più antico, però il più interessante è quello denominato “3 Archi” essendo sostenuto il piano carrabile dall’alto, non dal basso) e le infrastrutture idrauliche (le tubazioni degli acquedotti della Cassa per il Mezzogiorno e quelle per l’irrigazione della pianura costiera, oltre ai serbatoi che svettano su quasi tutti i borghi tradizionali, funzionali all’approvvigionamento idro-potabile della popolazione). Degli impianti per l’agricoltura e della zootecnia se ne è già fatto cenno. Trattandosi di opere di più di 50 anni di vita il futuro ci vedrà impegnati in azioni di manutenzione straordinaria.

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