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ARCHITETTURE TRADIZIONALI

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LE FORNACI PER LATERIZIO TRADIZIONALI

Il boom edilizio che si è registrato in Italia nel secolo scorso, specialmente nei decenni successivi alla II Guerra Mondiale, in particolare nelle grandi città, ha avuto un eco anche nel Molise. Per far fronte alla richiesta di materiali da costruzione al fine di soddisfare il bisogno di nuove case si è dovuto, necessariamente, passare da una produzione artigianale dei laterizi ad una industriale. Tale passaggio dall’artigianato all’industria è stato favorito da un’importante innovazione tecnologica, la comparsa già ai primordi del ‘900 del forno Hoffmann che accelerava la fornitura di mattoni. Quest’ultima non era più intermittente come succedeva nelle “pincere” bensì continua con il fuoco nella fornace degli stabilimenti moderni che non solo non veniva mai spento ma che conservava costantemente la temperatura idonea alla cottura dei laterizi; nella pincera occorreva, una volta completata la cottura, che si sfornassero i mattoni per poi procedere ad un’altra infornata mentre nelle nuove fabbriche le pile di mattoni crudi vengono introdotte in molteplici fornetti posti in serie con la fiamma che muovendosi su un carrello che corre su binari cuoce le diverse cataste durante il suo incedere. In definitiva, pure in questo settore come nel resto dei rami industriali si afferma il “ciclo continuo” il quale si associa alla “catena di montaggio”, novità assolute che hanno rivoluzionato la fabbricazione di oggetti, libri, ecc. oltre che la vita dei lavoratori e della società in genere. Se questa è l’ “innovazione di processo”, l’innovazione del processo produttivo, non si è avuta, però, l’ “innovazione di prodotto”, il prodotto è sempre lo stesso, il mattone. Infatti, salvo che nel caso della prefabbricazione, ma l’impiego dei pannelli prefabbricati qui da noi è stato molto limitato, si è continuato a costruire, in abbinamento o meno con il cemento armato, con i mattoni. Questi hanno fin da epoche remote dimensioni costanti, altezza cm. 5,5, larghezza cm. 12, spessore cm. 5,5, misure rapportate a quelle della mano dell’operaio che lo deve, appunto, maneggiare e che tiene conto dello strato di malta da applicare, quel cm. 0,5 che manca per fare cifra tonda, per sovrapporre i mattoni in filari. Inoltre, e adesso introduciamo un ulteriore concetto che ha sempre più preso piede nella produzione industriale, quello della “qualità del prodotto” per garantire la quale il mattone non può essere più spesso altrimenti la cottura e la successiva asciugatura non avviene in maniera uniforme.

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Riprendiamo un po' fiato prima di riattaccare l’esposizione senza, comunque, cambiare discorso che è quello che abbiamo appena toccato della qualità la quale dipende anche dall’omogeneità del prodotto. Questa dipende dalla “materia prima” utilizzata. L’impasto con il quale era formato il mattone presentava nel passato una grande variabilità, essendo differente nelle tante pincere, l’argilla utilizzata dipendeva dalla cava disponibile in loco. I laterifici odierni presuppongono un sito di estrazione del materiale argilloso di grande estensione per cui l’argilla ha le medesime caratteristiche il che permette di avere materiali qualitativamente identici. È questo della vicinanza con un giacimento estrattivo di consistente ampiezza (Petrucciani sopperisce ad una non immediata contiguità con l’area di prelievo dell’argilla mediante una teleferica) una condizione necessaria ma non sufficiente. È richiesta pure la prossimità ad una linea ferroviaria rivelandosi capace lo stabilimento di influenzare la stessa ubicazione della stazione per favorire il pronto carico dei laterizi sui treni merce (succede così a Baranello, a S. Pietro Avellana, a Ripalimosani, a Petacciato, è addirittura una regola e allorché si deroga ad essa, accade con la SILS a Castellone di Boiano, si va incontro a problemi irrisolvibili).

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L’ubicazione di tali fabbriche di mattoni dovrebbe privilegiare le moderne aree urbane se non fosse che i fumi emessi dalle altissime (e bellissime) ciminiere potrebbe provocare l’inquinamento dell’aria cittadina e perciò, consapevolmente o inconsapevolmente, se ne stanno discoste (a Isernia il mattonificio sta nei pressi del fiume Cavaliere). I motivi per cui dovrebbe lo stabilimento stare in contatto con la città è, da un lato, il motivo principale, che essa è il principale mercato di sbocco dei manufatti laterizi, quindi la riduzione dei costi di trasporto e, dall’altro lato, che un tempo era difficile il pendolarismo della forza-lavoro (Petrucciani si preoccupò di realizzare allo scopo delle casette per gli operatori all’interno del perimetro dello stabilimento). Rimanendo in tema ma spostandoci dal fronte dei laterifici a quello delle pincere vediamo che anche queste sono in connessione stretta con gli agglomerati insediativi. Innanzitutto va detto che sono moltissime perché sono moltissimi i comuni molisani. A Boiano che è un insediamento di rilievo le pincere sono numerose, in genere sono una per paese, e raggruppate nella medesima borgata che prende il nome proprio di Pincere. Ciò fa pensare ad un qualche rapporto mutualistico non fosse altro che la cava, la quale è in località Mucciarone, viene sfruttata in modo condiviso. C’è da immaginare pure che ci deve essere stata una certa relazione fra i pinciaioli i quali dovevano evidentemente collaborare fra loro in presenza di un forte fabbisogno di mattoni per soddisfare la domanda. È lecito presupporre inoltre che vi sia stato un intermediario che provvedeva a smistare fra i numerosi pinciaioli le richieste dei costruttori, all’esatto identico modo del mercante il quale è una figura fondamentale in quella fase della storia dell’economia europea denominata Mercantilismo, un tipo di sistema economico che si associa alla nascita dell’industria, pure quella dei laterizi, e dunque precede il Capitalismo.

IL CASINO DEL DUCA DI PESCOLANCIANO
Casino del Duca di Pescolanciano - ingresso

È' estremamente raro nelle nostre campagne incontrare degli edifici destinati alla villeggiatura di famiglie signorili di epoca ottocentesca, destinazione esclusiva. Non solo da noi perché ovunque, si prendano le ville venete, alla residenza padronale di vacanza si affiancano annessi agricoli, magari, l’abitazione del colono. La proprietà è dei duchi D’Alessandro, signori in epoca feudale e, quindi, fino al 1805, di Civitanova, Pescolanciano, Duronia, Pietrabbondante e Carovilli, Comuni fra di loro confinanti tanto da configurare, in qualche modo, un unico feudo, alla stregua di una “signoria”. Il casino risulta baricentrico rispetto ai primi quattro centri e ciò non deve essere un caso. Un altro fattore geografico che ne giustifica la localizzazione è il passaggio nelle vicinanze, immediate, del tratturo Celano-Foggia il quale si ricollega con il tratturo Castel di Sangro-Lucera tramite un breve percorso tangente tanto al Casino del Duca quanto all’abitato di Civitanova, probabilmente il più breve possibile; tale percorso, seppure non inscritto tra i Tratturelli, si rivela essenziale per chiudere la maglia tratturale. In definitiva il casino dei D’Alessandro è in una posizione strategica oltre che estremamente visibile da un ampio circondario, non solo dall’arteria di grande circolazione che lo sfiora, la Trignina. Non è il “quartier generale” di un’azienda rurale, funzione che sarebbe compatibile con il villeggiare dei proprietari che, anzi, soggiornandovi nei periodi di raccolto avrebbero potuto controllare il lavoro dei contadini, perché mancano i locali per il deposito delle derrate, le stalle, ne è, non ne ha proprio il carattere nonostante le garitte munite di feritoie (indirizzate verso i muri) appese a tutti gli spigoli e i corpi di guardia ai lati del cancello che introduce alla corte, un fortilizio perlomeno per le troppe bucature nelle pareti. È qualcosa di inedito nel panorama agreste molisano, salvo qualche sparuta casina di caccia come quella di Torcino appena al di fuori dei confini regionali appartenuta al re di Napoli, un luogo per gli ozi di una famiglia patrizia e dei suoi ospiti tra i quali vi deve essere stato il famoso archeologo Mommsen ospite dei D’Alessandro iniziatore degli scavi di Pietrabbondante (è credibile la sua presenza lì perché la villa, c’è scritto all’ingresso, è del 1856). È inconsueto, o meglio era, dato lo stato di abbandono di tanti fabbricati nell’agro, trovare edifici come doveva essere questo che per lunghi periodi dell’anno era lasciato vuoto, animandosi soltanto durante le ferie qui trascorse dai famigliari del duca, non necessariamente nella stagione estiva, è ovvio e con probabilità non quelle due volte l’anno che passava la transumanza, troppo frastuono. È tempo per tornare ad una caratteristica del manufatto evidenziata prima, quella delle garitte, una specie di torrette sospese in sommità dei 4 angoli del volume edilizio per sottolineare che se non è una rarità trovare delle torri affiancate ad una costruzione isolata nei  campi, vedi quella del casino Tommasi a Spinete, quella del casino Selvaggi a S. Massimo, ecc. e neanche lo è la loro funzione difensiva (seppure altrove servono anche a sorvegliare i possedimenti, non solo la casa) lo è il combinato disposto tra esse e gli avancorpi affiancati all’ingresso dello spazio recintato immediatamente antistante la villa, le une disposte in alto, gli altri in basso. I presidi difensivi sono collocati, e ciò è singolare, in cima e ai piedi della struttura architettonica, non in maniera continua, cioè da cielo a terra.

Casino del Duca di Pescolanciano

Al di là dell’anomalia segnalata, quella di uno sviluppo in verticale incompleto dell’apparato di protezione, viene da pensare che le esigenze di sicurezza, comunque giustificate per via dell’ “endemico” fenomeno del brigantaggio (lo stesso Mommsen fu assalito dai briganti), non fossero esclusive, ma a determinare la scelta di dotare la magione nobiliare di simili accorgimenti militari si ritiene vi siano state anche ragioni di prestigio, il richiamo formale alle architetture castellane. Dunque, le garitte come elemento fondamentalmente ornamentale. Colpisce la discrasia presente nelle residenze dei D’Alessandro, con il castello nel centro urbano di Pescolanciano che rimanda ad un palazzo rinascimentale per via del loggiato sorretto dai beccatelli rientranti tra gli apparecchi murari, a sporgere, guerreschi e il casino di campagna il cui massiccio impianto murario è alleggerito, figurativamente, dalle aeree garitte, pur essendo anch’esse accorgimenti ingegneristici dell’arte della guerra. In altri termini, un manufatto per la “dolcevita” che vuole sembrare un castello e un castello che vuole assomigliare ad un manufatto per la “dolcevita”. Vale la pena pure far notare che mentre il maniero deve essere inespugnabile e perciò la sua entrata è regolata da un ponte levatoio, il casino è preceduto da un lungo viale contornato da ombrosi pini che costituisce una sorta di invito ad accedervi. Ciò che condiziona la veduta paesaggistica è tanto la bella fabbrica quanto la deliziosa passeggiata alberata che ad essa conduce, le quali vengono a costituire un tutt’uno. È da sottolineare che non rappresenta un’alterazione dell’intorno, una compromissione della sua pregevolezza, il passaggio ad un centinaio di metri di distanza della Trignina perché questa è una superstrada che nell’Altomolise corre prevalentemente su viadotti e, come nelle vicinanze del Casino del Duca, in galleria, non interagendo con l’assetto agrario, non è, certo, una fondovalle. Per la sua volumetria, di molto superiore a quella delle dimore contadine, il casino assume il ruolo di punto focale dei panorami per un largo raggio, ma è possibile leggerlo anche quale land mark, di rilevanza assoluta, di un paesaggio lineare che è quello tratturale i cui altri nodi di elevata pregnanza sono la torre di S. Bartolomeo su una sponda del Trigno e su quella opposta il Torrione di Sprondasino, località quest’ultima dove c’è un attraversamento nevralgico del fiume mediante un ponte cui si affiancava una taverna: un insieme di emergenze culturali alcune delle quali sono ammirabili dal belvedere situato sul tetto del casino, sebbene in lontananza.

Casino del Duca di Pescolanciano - cortile

La villa dei duchi D’Alessandro è uno dei rari esempi nel Molise di dimora signorile di campagna. Bisogna premettere che nella nostra regione è poco accentuata la dualità città-campagna, addirittura tale binomio qui da noi è scarsamente significativo, la sua pregnanza è inficiata dalla ridotta rilevanza di uno dei due poli della predetta dicotomia, la città. Se la villa risponde all'esigenza di evasione dalla vita cittadina la quale produce stress in una terra, quella molisana, in cui le realtà urbane sono tutte, anche le maggiori, di esigua consistenza, essa perde di significato, cioè non ha più il significato che di solito attribuiamo a un manufatto di tal genere di buen retiro. Non è che da noi non esistano i cosiddetti casini di campagna i quali si differenziano dalle ville, per rimanere a Civitanova dove sta pure la villa D’Alessandro il casino Cardarelli, perché assolvono anche al ruolo di "attrezzature" funzionali alle attività agricole trovando posto in tali architetture gli "annessi agricoli" e l'alloggio del mezzadro accanto a quello del proprietario del fondo, residenze per il primo stabile per il secondo saltuaria; casini nel senso forse di piccole case, tanto quella del colono quanto quella del signore. La villa ha un collegamento flebile con l'agricoltura, è molto meno coinvolta nello svolgimento delle lavorazioni dei campi rispetto al casino; è al fattore che è affidata la cura del podere, il padrone ha una parte minimale nella gestione aziendale. La villa D’Alessandro non ha specifici vani destinati né alla rimessa delle derrate, né al deposito degli attrezzi né tantomeno al ricovero delle bestie, sia quelle da lavoro sia quelle d'allevamento. La distanza dell'edificio di cui trattiamo dal centro abitato qualora fosse a servizio di un'azienda ad indirizzo zootecnico avrebbe una ragion d’essere decisiva nella necessità di allontanamento degli animali dalle abitazioni degli, appunto, abitanti di quell’agglomerato, perlappunto, abitativo a causa degli odori molesti, della sporcizia delle strade, dei rumori fastidiosi prodotti dalle bestie. Altra motivazione dirimente non la si coglie, non è una giustificazione per l'ubicazione in aperta campagna, lontano dal nucleo urbano il desiderio di stare in contatto con la natura poiché già i piccolissimi comuni, Pescolanciano con il suo castello che è un po' il quartier generale dei D’Alessandro è uno di essi, sono in genere immersi nell'ambiente naturale, e neanche la voglia d’isolamento, del resto cosa c'è di più utile di un ponte levatoio quale quello del castello di Pescolanciano per separarsi dal resto del mondo.

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Forse quello che manca al maniero è un giardino per lo svago che proprio non lo si può ricavare sul colmo dello sperone roccioso, appena sufficiente per contenere la pianta del fortilizio, su cui si erge. L'emergenza lapidea è intimamente legata all'organismo castellano rivelandosi un complemento della murazione, un masso quale sussidio alle opere di difesa. Rocca e roccia sono due parole molto simili fra loro, arroccarsi significa costruire la rocca sulla roccia diventando le due cose, l’una artificiale e l'altra naturale, interdipendenti. I ricevimenti in estate probabilmente si svolgono nella villa visto il capace spazio esterno a disposizione che consentiva di organizzare feste all'aria aperta, il piazzale pavimentato che circonda la villa è ben più ampio e luminoso della corte del castello, un cavedio tutto sommato di grande formato o poco più. Nella villa per la gradevolezza del risiedervi si dava accoglienza ad ospiti di riguardo come il Mommsen il quale qui soggiornò anche per la vicinanza con gli scavi archeologici di Pietrabbondante che egli stava conducendo. Il castello venuti a cadere in età moderna le necessità militari si era andato trasformando in un palazzo signorile; ci si sofferma ora su tale sorta di mutazione genetica del fabbricato per evidenziare la "stranezza" che mentre il castello tende ad abbandonare i caratteri di presidio guerresco, i beccatelli definiti apparati a sporgere, adesso servono per sorreggere il lungo loggiato, la villa sorta quale luogo di "delizie" si dota di ben 4 garitte ancorate agli spigoli della cortina muraria; a continuare a qualificare, a farne permanere la qualifica, la fabbrica di Pescolanciano, e in maniera forte, quale castello è la passerella retraibile la quale fa il paio in quanto ad accorgimento per il controllo dell'accesso con i corpi di guardia collocati ad entrambi i lati del cancello d'ingresso all’area di pertinenza della villa. Si potrebbe pensare in base a ciò che si è detto prima che mentre il castello è naturalmente protetto dalla sua ubicazione sopra lo spuntone calcareo per cui le ulteriori misure miranti a contrastare gli attacchi dei nemici non siano poi così indispensabili, per la villa che è effettivamente esposta, dato che sta isolata in aperta campagna, alle razzie dei predoni (l’edificazione risale all'epoca del brigantaggio) è opportuno provvedere alla messa in sicurezza; seppure sia quella appena illustrata una tesi con qualche fondamento si propende a credere che i gabbiotti sospesi agli angoli delle pareti dotati di feritoie e i casotti a quota, all'opposto, del terreno a vigilanza dell'entrata siano frutto più che di esigenze militari di una volontà estetica. Proseguendo con il parallelo tra il castello e la villa notiamo un'altra, per così dire, incongruenza: la loggia che ci saremmo aspettati di vedere in una dimora patrizia di campagna la troviamo, invece, in un castello, davvero una singolarità. Andiamo oltre spingendo il parallelismo anche alla volumetria e vediamo che la villa è un blocco compatto, simile stereometricamente ad un torrione, al contrario il castello è un volume vuoto all'interno per la presenza di un cortile ed una corte porticata come questa di derivazione da modelli dell'architettura rinascimentale non si confà, è quasi una nota stonata nonostante sia un elemento di pregio, abbia una fattura pregiata, alla destinazione del presente organismo architettonico la quale è guerresca. La spiegazione di tale metamorfosi va cercata nell'evoluzione della figura del feudatario da bellicoso dominus del feudo a esponente dell'aristocrazia di corte, non, attenzione, del suo maniero bensì regia, per cui la villa lo viene a rappresentare maggiormente.

Casino del Duca di Pescolanciano - cortile

È difficile immaginare Cola di Monforte o Giacomo Caldora a villeggiare in tenute agricole in qualche loro feudo. Troppo rudi questi condottieri per poterli pensare capaci di apprezzare i piaceri di una vacanza agreste, gli agi di comode dimore immerse nell'ambiente naturale nelle quali oziare nel periodo di ferie tra una battaglia e l’altra. La villa della famiglia plurifeudale di Pescolanciano, Pietrabbondante, Carovilli, Civitanova sita nel territorio di quest'ultimo comune ci rivela una diversa faccia della classe nobiliare molisana, differenti valori esistenziali, modi di sentire il mondo che emergono all'indomani della fine del feudalesimo che è quella di una componente della società denominata Alta Società amante della, per così dire, bella vita assimilando i costumi della borghesia ormai divenuta la categoria sociale di riferimento portatrice di nuovi orientamenti ovvero concezioni dal campo della cultura e della politica a quello della moda, fino, giù giù, a quello dell'abitare e dell'impiego del tempo libero. Un segno del processo di imborghesimento della vecchia nobiltà è proprio il gusto per l'evasione dalla città verso la Villa che condivide con il ceto borghese. Anche il proprietario di una bottega bene avviata, il professionista, il funzionario di un certo rango nutrono il mito dell'abitazione indipendente isolata dalle altre costruzioni, dotata di giardino, meglio se circondata interamente da una superficie a verde, distaccata dalle strade per cui nelle periferie urbane si sviluppano viali lungo i quali si attestano, al di là del filare di alberi che è a corredo di tale particolare tipo di viabilità, edifici unifamiliari che non nascondono, per le loro fattezze, pretese da villa. Viale Elena nel capoluogo regionale ne è un classico esempio con la sua teoria di villette in stile liberty che si conclude con Villa, di nome e di fatto, Maria. Una prima distinzione tra villa e villetta non è tanto di tipo dimensionale quanto di collocazione, la villa sta in aperta campagna, la villetta nel suburbio. Forse, però, è ancora più significativa la differenza sotto l'aspetto funzionale, mentre la villetta accoglie una residenza stabile, la villa invece è destinata ad una permanenza saltuaria, in cui si dimora prevalentemente nella stagione estiva. Da qui ne discende che la villa è evidentemente complementare ad una situazione alloggiativa in città, al contrario della villetta che è essa stessa un alloggio cittadino. Proseguendo con la comparazione tra villa e villetta la quale è finalizzata, lo si sarà capito, a far venir fuori la singolarità della villa e soffermandoci ora su una discriminante decisiva tra le due categorie architettoniche che è quella dell'ubicazione nell’agro della villa vediamo che tale scelta localizzativa è legata non solo alla voglia di stare in contatto con la natura, ma pure al desiderio di godimento dei panorami, non c'è niente da fare, dalle finestre di una villetta si traguardano inevitabilmente stabili che bloccano, nonostante si sia in ambiti periferici siamo pur sempre in area urbanizzata, che bloccano o quantomeno riducono le visuali verso l'esterno dell'abitato; se non succede adesso succederà in un prossimo futuro per il fenomeno dell’espansione costante degli agglomerati abitativi.

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Dalla villa, invece, si può spaziare con la vista fino a fondali percettivi più o meno distanti in dipendenza della morfologia del suolo, cioè della sussistenza di rilievi orografici che limitano la visione o di distese boscose che si approssimano alla fabbrica tanto da fungere da schermo alle aperture finestrate. Nel caso della villa dei D’Alessandro non vi sono barriere, né vegetali né morfologiche, che riducono la visibilità. La scelta localizzativa per quanto riguarda la panoramicità del sito è perfetta, esso è ad una curva di livello intermedia tra il fondovalle solcato dal fiume Trigno e il crinale montagnoso che incornicia la vallata. È in una posizione estremamente favorevole, non troppo in alto altrimenti sarebbe stato difficile scorgerla, né troppo in basso, cioè non infossata, stando in un fosso non si riesce a guardare, e ovviamente ad esse guardati, oltre l'orlo superiore ovvero il bordo della concavità. È alla medesima quota degli insediamenti umani del comprensorio dai quali, come dalla rete viaria dell’intorno, la villa è visibilissima e per il principio della reciprocità degli sguardi dalla villa se ne riesce a contare tantissimi essendo vastissimo il bacino di intervisibilità. Per i borghi alto-molisani essa viene a costituire un autentico punto focale nella percezione del paesaggio. Che la villa sia stata pensata anche per ammirare il contesto paesaggistico, peraltro assai pregevole, è presto dimostrato: nel fabbricato in questione il tetto inteso quale sistema di falde la cui inclinazione serve ad allontanare la neve che vi si deposita, abbondante nell'alto Molise, non copre interamente l'ultimo livello della costruzione, al centro è sormontato da un terrazzino scoperto. In altri termini un pezzo del tetto viene sacrificato per far posto ad un belvedere, si antepone all'esigenza di avere una copertura integrale con spioventi quella di avere un osservatorio il che testimonia la passione per gli scorci panoramici. Il terrazzo, piccolo, in sostituzione di un loggiato più o meno grande, come ci sarebbe stato da aspettarsi, ma, tutto sommato, la copertura piana, parziale, presenta il vantaggio, oltre che di abbracciare l'orizzonte a 360 gradi, di rimirare la volta celeste, cosa che in una loggia non è ammesso in quanto affaccio coperto. Il lastrico che conclude la porzione centrale del volume architettonico ha quale appellativo, di norma, solarium forse perché vi si può prendere il sole e, quindi, è sfruttabile sia di giorno, per abbronzarsi o per gustare il panorama, sia di notte, per contemplare il firmamento. Torniamo per un attimo al confronto con le villette suburbane da cui non si riescono a inquadrare scorci dell'agro e neppure a intravvedere le stelle per colpa dell'inquinamento luminoso che è costantemente in crescita negli ambiti urbanizzati e riscontriamo la profonda diversità. La geometricità della villa la quale è a pianta quadrata con i lati della medesima misura dell'altezza, una sagoma, in definitiva, iscritta in un cubo ideale, la rende oltremodo riconoscibile anche da lunga distanza risaltando in qualsiasi canale ottico che si apra verso di essa perché in contrasto con le forme regolari che caratterizzano il luogo. Detto diversamente la razionalità cartesiana di questo parallelepipedo regolare, un solido platonico, si sono scomodati 2 filosofi per descrivere la struttura, se lo merita, è in contrapposizione con l'irrazionalità della natura.

Casino del Duca di Pescolanciano - ingresso
I materiali da costruzione del passato
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Di pavimentazioni urbane davvero antiche nei nostri paesi è rimasta solo qualche traccia. Sorprendentemente sono pervenute a noi quelle di epoca romana (il decumano di Altilia e quello riemerso durante la sistemazione al Calderari a Boiano) e non del periodo successivo. È da dire che nei centri minori le strade dovevano essere, in prevalenza, semplicemente sterrate e quando nel secolo scorso si è proceduto a pavimentarle si sono ricoperti con nuovi materiali anche quei tratti della rete viaria che erano selciati: nel rifacimento del manto stradale, magari a seguito dei lavori sulle condotte idriche o fognarie, sono emersi spezzoni di ciottolati in diversi comuni tra i quali Castropignano. Spesso si è fatto ricorso al bitume lì dove i percorsi cittadini sono destinati al transito delle automobili e per queste ultime si sono sacrificate pure le caratteristiche scalinate dei nostri borghi (penalizzando, nel medesimo tempo, i pedoni che preferiscono i gradini in presenza di innevamento). Asfalto, ma per rendere carrabili le vie cittadine vanno bene, anzi meglio, il porfido o il basalto. Il porfido è una roccia vulcanica che si è andata formando quasi 300 milioni di anni fa e proviene dalla catena alpina; l’evocazione di un’era geologica tanto remota e il rimando emotivo alle Alpi ne fanno un elemento assai affascinante, ma se tali connotati sono apprezzabili non è questa, di certo, la  ragione che ha portato all’impiego tanto esteso di questa pietra di colore viola scuro con riflessi quarziferi la quale utilizzata in cubetti, disposti spesso a “coda di rondine”, si rivela resistente sia all’attrito delle auto sia alle intemperie.

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Meno usato adesso rispetto al passato è il basalto (viene anch’esso dal vulcano) nella pavimentazione viaria, sia in forma di sanpietrini alla stessa maniera del porfido, lo si vede in certi vicoli a Roccamandolfi, sia in forma di basole (ad esempio in piazza Prefettura a Campobasso). Non sono, comunque, solo questi elementi lapidei adoperati nelle percorrenze stradali degli insediamenti storici molisani (è di questi che ci stiamo occupando, vale la pena precisarlo) essendocene pure altri, dalla “pietra di Apricena” (a Spinete) al “verdello” (a Duronia e Ferrazzano) al “serpentino” (corso Marcelli a Isernia) e così via. Uno dei rari casi in cui la pietra è locale è quello dell’arenaria di Agnone con cui non molto tempo fa è stata rifatta la piazza Plebiscito del capoluogo altomolisano. Va pure detto che molto diffuse sono le betonelle in cemento con le quali risulta pavimentato il corso Fedele Cardarelli di Civitanova del Sannio, la scelta delle quali per la loro colorazione grigia permette di mettere in risalto i fronti edilizi al contorno, non imponendosi alla vista la superficie viaria, una sorta di tinta neutra. Se i fondi dei percorsi sono così variegati lo sono meno i prospetti delle case, almeno quelli non intonacati che sono di solito tinteggiati in modo differente l’uno dall’altro, fatti come sono prevalentemente della pietra del posto.

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Un inciso doveroso è che la roccia da cui si estrae il materiale da costruzione è diversa nei vari comuni per cui in alcuni si trova il flysh numidico, in altri la breccia, in altri ancora l’arenaria, ciascuna con una propria tonalità coloristica. Le tecniche costruttive pure sono differenziate potendosi incontrare paramenti dove la cortina lapidea è interrotta a cadenza regolare da filari di mattoni, una intercalazione presente già nelle domus dei Romani, il cui esemplare migliore però non è in centro storico bensì in località Casino del Duca di Cantalupo. Se non vi sono differenze cromatiche ve ne sono tra il trattamento delle pietre, cioè grezze, sbozzate o se sono conci

regolari, il quale conferisce una qualche varietà alle facciate. Per i prospetti costituiti da pietre lavorate non è ammissibile il ricoprimento con intonaco che, invece, va consentito per quelli fatti con pietrame rozzamente lavorato per i quali prima si procedeva ad eseguire all’esterno una semplice scialbatura con latte di calce. Si tende allorché si effettua l’intonacatura a lasciare a vista i cantonali costantemente blocchi lapidei di grandi dimensioni squadrati se non lo zoccolo basamentale, quando di buona fattura. Il laterizio è presente in copertura con i coppi e nelle cornici delle aperture mentre è inconsueto nelle pavimentazioni urbane (pure dove il mattone era stato adottato verso la fine del secolo scorso quale materiale di pavimentazione, vedi il centro storico di Campodipietra, si va procedendo alla sua rimozione). Pietra, argilla che è la componente del laterizio, e il legno delle travi e degli infissi costituiscono la materia prima disponibile e permettono l’integrazione della costruzione con l’ambiente fisico circostante, perché da qui sono stati prelevati. Nel momento che stiamo vivendo vi è la comparsa di tantissimi nuovi materiali che porta a significative trasformazioni del’immagine dei fabbricati.

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regolari, il quale conferisce una qualche varietà alle facciate. Per i prospetti costituiti da pietre lavorate non è ammissibile il ricoprimento con intonaco che, invece, va consentito per quelli fatti con pietrame rozzamente lavorato per i quali prima si procedeva ad eseguire all’esterno una semplice scialbatura con latte di calce. Si tende allorché si effettua l’intonacatura a lasciare a vista i cantonali costantemente blocchi lapidei di grandi dimensioni squadrati se non lo zoccolo basamentale, quando di buona fattura. Il laterizio è presente in copertura con i coppi e nelle cornici delle aperture mentre è inconsueto nelle pavimentazioni urbane (pure dove il mattone era stato adottato verso la fine del secolo scorso quale materiale di pavimentazione, vedi il centro storico di Campodipietra, si va procedendo alla sua rimozione). Pietra, argilla che è la componente del laterizio, e il legno delle travi e degli infissi costituiscono la materia prima disponibile e permettono l’integrazione della costruzione con l’ambiente fisico circostante, perché da qui sono stati prelevati. Nel momento che stiamo vivendo vi è la comparsa di tantissimi nuovi materiali che porta a significative trasformazioni del’immagine dei fabbricati.

LE CASE IN CAMPAGNA FORTIFICATE
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Di primo acchito la torre rimanda ad una struttura fortificata, ma questa impressione immediata non sempre è veritiera.

Infatti, vi sono torrette destinate a colombaie, riconoscibili per la presenza di fori sui muri e, spesso, essi continuano nelle parti alte delle pareti delle stesse case coloniche. Le torri colombaie sono generalmente intonacate sia all’interno che all’esterno a differenza delle torri costruite per scopi militari e, ancora in contrasto con queste ultime, sono coperte a tetto e non piane. Se un tempo l’allevamento dei piccioni aveva notevole valore sia perché se ne ricavava la carne, sia perché il guano era usato come fertilizzante e sia perché essi si alimentano anche con i semi delle piante infestanti, oggi esso non è più considerato redditizio. Dunque, non è scontato associare alla torre la funzione difensiva (certo, non contro eserciti, ma contro malintenzionati) in quanto vi sono, appunto, torri che sono state fatte appositamente a fini agricoli. Nelle dimore contadine le torrette sono, a volte, delle aggiunte alla struttura architettonica principale; questo della giustapposizione dei corpi edilizi è, del resto, una caratteristica frequente dell’architettura rurale. Va notato, per inciso, un contrasto, a volte, dal punto di vista formale tra torre e fabbricato. In campagna l’edificazione avviene per l’aggregazione di volumi nati in tempi diversi e non per sovrapposizione come avviene nei centri urbani a causa della scarsità del suolo; tale crescita per sommatoria di pezzi impone che i complessi edilizi siano di tipo lineare, la forma rettangolare prestandosi meglio della quadrata alla aggiunta di corpi. Le torri, dunque, possono essere così una appendice successiva alla casa. Rimanendo nel tema delle tipologie edilizie si deve dire che le esigenze di fortificazione non è scontato che portino alla realizzazione di torri, pure qualora si volesse ammettere che la torre è legata sempre alla funzione militare (va considerato che era vietato costruirsi castelli privati salvo particolari licenze). Infatti vi sono edifici che, nonostante siano privi di apparati militari quali, appunto, le torri, denunciano nella loro organizzazione architettonica una intenzionalità difensiva. Ad esempio, la forma a corte abbastanza frequente specie nella piana di Boiano in complessi agricoli di grandi dimensioni rimanda a quella dei castelli-recinto che, qui da noi, sono la tipologia prevalente delle strutture castellane.

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Il cortile non è, comunque, tipico solo dei castelli poiché ve ne sono tanti concepiti proprio per le esigenze agricole. Una vocazione fortificatoria la rivelano anche le masserie più imponenti la cui compattezza (non l’altezza perché essa è costantemente di 2 piani) richiama l’immagine dei baluardi difensivi. Solo nelle case di ampiezza maggiore sono presenti le torri le quali sono normalmente collocate negli angoli essendo meno usuali le torri poste lungo le pareti e non vi sono torri affiancate all’ingresso come nei castelli. Poiché angolari esse sono sporgenti e tale sporgenza può essere più o meno accentuata. Le torri di diametro più grande sono, di certo, maggiormente pronunciate; in questo caso, poiché si tratta ogni volta di torri circolari, con la loro forma cilindrica si pongono in contrasto con la forma parallelepipeda degli edifici ai quali sono collegate. L’effetto che si ha è quello di una compenetrazione di corpi, perché la torre si innesta nel fabbricato, e, correggendo quanto detto prima, non di una semplice giustapposizione. Le torri nei vari fabbricati hanno, ovviamente, diametro diverso e anche altezza diseguale, ma è raro che la torre si sopraelevi dal resto della casa. Si può parlare pure di torri a base quadrata anche se più propriamente queste ultime si qualificano come volumi aggiunti al volume principale (un esemplare molto ben visibile sta lungo la superstrada che porta da Campobasso ad Isernia in agro di Vinchiaturo). La torre, quando più alta del fabbricato può servire quale osservatorio sulle terre padronali. È raro il tipo della torre abitato in quanto avendo una pianta piccola non può ospitare molte persone. La loro destinazione prevalente è quella ad uso agricolo e quello della torre è l’unico caso in cui le funzioni agricole non sono poste solo al piano terra, ma anche al secondo. Non è possibile, come si può vedere, definire un tipo unico di torre: le torri sono dissimili fra loro e la loro dissimmetria rispecchia quella dell’architettura rurale la quale è estremamente varia sia per l’ampia gamma di dimensioni sia per la spinta differenziazione tipologica tra casa contadina, villa, cascinale a servizio di una grossa tenuta.

La “materia prima” dell’edilizia povera
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Siamo in un territorio costituito da bosco, pascolo, seminativo e qualche rara vigna, abitato da un ceto di piccoli proprietari terrieri che sono coltivatori diretti dei propri fondi. Su ogni appezzamento di terreno c’è una casa, così come ad ogni casa corrisponde una porzione di suolo agricolo. Se non esistono differenze sociali rilevanti fra le famiglie che popolano la zona, non ci sono neanche diversità sostanziali nelle tipologie edilizie adoperate. Ciascun edificio è abitato da una famiglia di tipo nucleare e il nucleo familiare, con una specificità di compiti per i vari componenti, costituisce l’unità di produzione agricola.

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La casa non è solo luogo di residenza, ma rappresenta anche una struttura di supporto all’attività contadina con i suoi vari ambienti destinati a stalla, fienile, magazzino, ecc. Non è perciò una dimora comoda, nel senso che intendiamo noi oggi, ma pratica e polifunzionale, si, coerente con le esigenze della famiglia, con la sua attività di lavoro agricolo, con la sua stessa identità sociale. Un connotato che emerge con evidenza è quello dello stretto rapporto che intercorre tra i manufatti architettonici e l’ambiente circostante. Ciò dipende da alcuni fattori. Tra questi vi è l’impiego di materiali da costruzione prelevati sul posto, che sono essenzialmente la pietra e il legno; c’è infatti una notevole abbondanza di rocce e di boschi. La pietra viene utilizzata, dopo averne fatto una cernita e dopo averla ordinata, per la realizzazione delle murate che sono di pezzatura irregolare, misto ad una malta fatta con calce (anch’essa ricavata dalle formazioni calcaree attraverso la frantumazione e la cottura) e la sabbia presa nei letti dei corsi d’acqua e trasportata a dorso degli animali da soma. Elementi lapidei di maggiori dimensioni e più regolari sono quelli che formano i cantonali degli edifici; questi conferiscono solidità e stabilità alla struttura, ma trascendono la loro semplice funzione statica per contribuire a dar forma alla costruzione. Per questi pezzi di pietra più pregiati che servono anche per gli stipiti, le soglie e le cornici delle aperture, si fa ricorso a cave le meno distanti possibili, mentre i pezzi grossolani spesso sono tratti dalla stessa vena di roccia sulla quale generalmente è poggiata l’abitazione (che sceglie i siti più rocciosi non solo perché garantiscono fondazioni più sicure, anche se più faticose da realizzare, ma per lasciare libero fin l’ultimo fazzoletto di terra coltivabile). Il legno, quando è possibile di castagno, compare invece nelle travi dei solai e negli infissi, oltre che negli oggetti di arredo interno. Per quanto riguarda gli infissi ritroviamo anche qui quella sapienza artigianale presente nelle tecniche costruttive, tramandate ed affinate da numerosissime generazioni di contadini che sono anche costruttori della propria dimora e che impediscono di parlare come si fa di frequente di “architettura spontanea”. La porta d’ingresso è composta da assi disposti verticalmente nella parte esterna inchiodati a tavole messe orizzontalmente nella parte interna. Un particolare caratteristico è il buco per l’entrata e l’uscita del gatto che sta nella zona bassa, a destra. Mentre la porta è ad una sola anta, le finestre sono a due ante e, negli esempi più antichi, sono prive degli sportelli detti “scuri”. Mancano invece i balconi che stanno solo nelle dimore delle famiglie contadine più ricche, indicando il livello di benessere raggiunto anche per la presenza delle ringhiere in ferro. Il ferro, infatti, insieme al laterizio è un componente delle costruzioni che non è possibile produrre da sé ma che va acquistato e ciò costituisce un gravoso onere in una organizzazione economica basata sull’autoconsumo. Esso serve per le cancellate che danno luce ai vani a piano terra impedendo l’accesso di estranei; un altro impiego del ferro, quando a questo scopo non è utilizzato un masso di pietra scavato, è quello per gli anelli posti sul muro a circa un metro e mezzo di altezza, vicino alla porta d’ingresso, ai quali legare l’asino o il mulo per caricare e scaricare i prodotti trasportati.

Lupara - CB

Si è detto che, accanto al ferro, il laterizio è un altro materiale che deve essere procurato altrove, presso le formaci. Con il laterizio si fanno i mattoni in cotto per la pavimentazione dei locali ad uso domestico (mentre nei vani di servizio vi sono lastre irregolari in pietra o, esclusivamente, terra battuta) e i coppi per la copertura. Questi assolvono anche ad un ruolo decorativo quando, fuoriuscendo dal limite del tetto in filari sovrapposti, vanno a formare le romanelle che costituiscono una sporgenza che allontana l’acqua piovana dalle murature impedendo infiltrazioni. I mattoni in laterizio, infine, sono l’elemento con il quale vengono fatti i comignoli che, avendo una struttura fragile e minuta, richiedono un materiale particolarmente adatto e resistente. Mentre all’esterno la muratura in pietra è lasciata a vista (si notano, addirittura, i buchi necessari per sorreggere l’impalcatura durante le fasi costruttive), all’interno le pareti sono intonacate per ovvii motivi igienici. Il pavimento del piano terra era di semplice terra battuta, mentre

quello del livello superiore era costituito da mattoni in cotto. Le pavimentazioni stradali sono in pietra che diviene, quindi, anche lastre per pavimentazione. Pietra per la quale il contadino si trasforma in cavatore e in lapicida durante i tempi morti delle lavorazioni agricole. Sopra la porta vi è una trave di legno di castagno. Il ballatoio della scala esterna è delimitato da un muretto o da una ringhiera. Le trasformazioni più significative nelle tipologie edilizie si sono verificate con il ritorno in paese degli “americani”, cioè degli emigranti rimpatriati, che furono portatori di nuove tecniche e materiali da costruzione.

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DETTAGLI COSTRUTTIVI NELL’EDILIZIA TRADIZIONALE

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Ci sono alcuni dettagli nell’edificazione di residenze o nella loro ristrutturazione che, pur se piccoli, sono capaci di alterare l’immagine architettonica. Si pensi alla conformazione dell’incasso delle aperture, o meglio se in facciata vi sono rientranze in coincidenza con le porte, perché denunziare lo spessore della muratura o meno è significativo in quanto si dà risalto alla corporeità della parete oppure, all’opposto, con gli infissi a filo facciata emerge una concezione della stessa alla stregua di un velario; nella cultura del costruire radicata in un luogo può prevalere uno dei due modi. Nella storia dell’architettura vi sono stati momenti nei quali si è affermata la completa uniformità della superficie del manufatto, come nel periodo paleocristiano, e altri dove si è andata recuperando, figurativamente, il valore della matericità delle cose, del muro in sé stesso non come semplice supporto di decorazioni e ciò avviene a partire dal Romanico quando si ha la riscoperta dell’uomo e delle cose terrene.

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Per quanto riguarda le cornici a risalto intorno a porte e finestre il discorso è diverso e comincia nel Rinascimento durante il quale si riscoprono gli ordini classici, ma è nel Barocco che si fa un diffuso impiego di modanature sui prospetti per movimentarli (se non drammatizzarli) e qualcosa di ciò rimane pure nella nostra produzione edilizia fino al XIX secolo. Gli ingressi sono un discorso a parte perché qui la cornice si chiama portale il quale è rappresentativo della famiglia che vive in tale casa. Per questa ragione non ha tanto senso la presenza del portale, come pure succede, quando l’entrata all’abitazione è posta al di sopra di una scala esterna, elemento tipico specie delle dimore rurali, poiché lo si vede da distante. Rimaniamo sul tema della scala esterna per dire che essa è sempre ad una sola rampa e serve a differenziare il piano basamentale destinato a servizi e quello soprastante che è abitativo; questo, lo si rimarca, non è un fatto esclusivamente funzionale, bensì appartiene al modo di sentire condiviso sul ruolo dei livelli di un manufatto costruttivo, una questione, in definitiva, culturale. Ritorniamo ora indietro ad osservare l’ingresso: qualora non vi siano gradini a separare l’interno dall’esterno la porta o portone che sia essa/o appare quasi un collegamento tra vani, da uno coperto a uno scoperto, piuttosto che il transito tra uno spazio di vita familiare e il luogo della comunità, con il contrasto tra ambito raccolto e ambito senza limiti fisici. Soffermandoci sempre sull’accesso all’abitazione e osservando ora la sua posizione vediamo che essa è dettata, salvo che nelle villette unifamiliari con giardino, dai rapporti che si istituiscono con la morfologia urbana.

Per comprendere meglio il concetto esposto è forse utile una esemplificazione che è la seguente: nel caso di un complesso edilizio che affaccia su uno slargo con gli ingressi di tutte le unità abitative che si aprono su di esso non è corretto che si sposti l’entrata di una di queste sul retro e lo stesso si può dire di un gruppo di case a schiera con l’ultima (può essere anche una intermedia) che preveda che si debba entrare dal fronte opposto a quello del resto della serie. Passiamo adesso a vedere il rapporto della casa con il clima dal quale ne discendono specifici accorgimenti costruttivi che vanno rispettati, magari attraverso apposite prescrizioni da impartire sia nel caso di progetti di nuova edificazione sia nel caso di una sanatoria, per rispettare modi consolidati nella tradizione locale di adeguamento all’ambiente, se marino se montano ecc., dell’edilizia. L’adattamento alle condizioni climatiche comporta una certa pendenza del tetto, una determinata ampiezza delle bucature, la sporgenza delle gronde. Queste ultime, o meglio il cornicione, costituiscono a volte elementi caratterizzanti in modo forte il fabbricato tanto quando sono sostenute da mensole in pietra che quando sono sorrette da “romanelle”, in uno o più filari, che se sono sporti in legno come si vede nelle vecchie caserme del Corpo Forestale dello Stato e nelle stazioni delle linee ferroviarie minori. È una questione importante ai fini della definizione dei caratteri formali di un manufatto pure quella del colore. Essa si intreccia con altre tematiche trattate in precedenza, relazioni che illustriamo una per una. La prima è quella della facciata in cui le aperture sembrano fessure: la sua colorazione con tinte tenui fa spiccare maggiormente l’oscurità data dalla profondità di tali fessure come le abbiamo chiamate. La seconda è il colore, differente da quella del prospetto, può sostituire le modanature in pietra o mattone oppure l’intonaco ringrossato per contornare le finestre. La terza è che attraverso una unità coloristica si riesce ad evidenziare l’uniformità di un aggregato edilizio, del tipo di quelle case a schiera di sopra. La quarta è che le fasce colorate sono in grado di gerarchizzare un prospetto alla stessa maniera delle partizioni lapidee, a evidenziare l’ingresso che ne è il punto focale, a bloccare figurativamente l’estensione del fronte al posto di cantonali, seppure la pietra viva dei quali sono fatti rappresenta una chiusura della facciata intonacata ben più brusca, un autentico fermo. Ciò di cui si è discusso finora riguarda l’effetto della tinteggiatura in una visione da vicino, mentre in una vista da lontano, per quanto riguarda gli aggregati urbani, non conta la tinta del singolo fabbricato, bensì quella dell’insieme e pure qualora le «stecche» edilizie fossero caratterizzate da una successione di corpi ciascuna con una propria colorazione (come succede, per intenderci, a Burano, l’esempio più famoso, ma siamo in una ben differente realtà) dalla lunga distanza si apprezzerebbe come una macchia coloristica unitaria. Il colore richiede che ci sia l’intonaco e questo non è detto che ci sia o che ci sia stato su quel prospetto; vi può essere stata applicata una scialbatura con latte di calce e tinta incorporata che non riesce ad occultare completamente la tessitura muraria della parete. Riuscire a riconoscere ciò è un compito gravoso per il valutatore degli interventi da eseguire e, alla stessa maniera, è difficile decidere se la muratura in pietra o mattoni vada lasciata a vista così come vuole lo stile vernacolare, o vada intonacata.

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CASINI E MEZZADRIA A S.MASSIMO

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Un caratteristico paesaggio, assai differente dagli altri, è quello della mezzadria, o, meglio, dell’appoderamento. La mezzadria è una forma di organizzazione aziendale alla quale partecipano chi fornisce il terreno e chi fornisce il lavoro, il proprietario e il conduttore che si ripartiscono i prodotti della terra, metà, cioè mezzo, da cui mezzadria, a te e mezzo a me. Il podere è, invece, assimilabile al concetto di “dimensione conforme”, il modulo base di un’azienda agricola che preciseremo fra pochissimo. Occorre evidenziare che l’una, la mezzadria, non può esistere senza che si affermi l’altra, la suddivisione poderale (nota bene, non è vero il viceversa). Il podere deve avere proprio quelle dimensioni lì, non può essere né più grande né più piccolo; il perché è presto detto: la sua estensione è rapportata alla capacità lavorativa di un nucleo familiare, tanto che si tratti di quello del possessore del fondo che lo coltiva in proprio, quanto di quello del mezzadro.

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Per capirci meglio prendiamo il caso, è l’eccezione che conferma la regola la quale vuole la riunificazione di proprietà fondiarie fino a raggiungere la misura standard di un podere, di Giovanni Selvaggi vissuto nel XIX secolo il quale, al contrario, divise i suoi possedimenti agricoli, a S. Massimo in 3 parti assegnando ciascuna di esse ad una distinta famiglia mezzadrile. Una curiosità: il toponimo di una delle stesse è Masomartino, nome composto contenente il termine “maso” che in Trentino significa podere, ma forse qui è semplicemente l’abbreviazione di Tommaso. Infine, rimanendo nel medesimo caso, e rimanendo nella questione terminologica, è da segnalare che i documenti dell’archivio di famiglia li identificano quali “tenute”, una definizione rivelatrice delle ambizioni aristocratiche di questa, per così dire, casata. Podere, in effetti, era un vocabolo non in uso in Molise, bisognerà attendere la Riforma Agraria, siamo negli anni ’50 del ‘900, perché compaia anche qui nelle zone di bonifica bassomolisane dove gli appezzamenti assegnati agli agricoltori sono denominati nella toponomastica ufficiale sistematicamente Podere, in media di 6 ettari comprensivi della casetta colonica; si distinguono fra loro per l’aggiunta di una sorta di patronimico, il “patrono” è un santo e dunque Podere S. Domenico, Podere S. Colomba, ecc.

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Ci stiamo, lo si ammette, girando un po’ attorno, non fornendo ancora una spiegazione compiuta sul significato di podere. Rimediano ora dicendo che è quello di un “lotto” agrario in cui sono compresenti coltivazioni differenziate (cereali, vite, orto), la celebrata coltura promiscua, pascolo e bosco per soddisfare il fabbisogno energetico dell’alloggio. È bene, era bene, che le parcelle di terra fossero contigue per evitare agli uomini di consumare tempo per raggiungerle e agli animali, i buoi che sono la forza motrice degli aratri, spostamenti faticosi con il vomere al seguito, all’epoca non c’era il contoterzismo. Che in podere ci debba essere ogni varietà di coltura è un obbligo, la sua delimitazione è pensata per garantire l’autosufficienza alimentare di coloro che vi vivono sopra. Appoderamento non fa soltanto rima con accorpamento perché ne è in qualche modo un sinonimo. L’eversione dal feudalesimo, oltre 200 anni fa, portò alla spartizione dei beni exfeudali tra i membri dell’ “Università dei cittadini” e perciò alla frantumazione del suolo rurale in particelle minime. Lo sforzo di ceti emergenti all’indomani della scomparsa della feudalità dovette essere davvero notevole al fine di riaccorpare tale miriade di fazzoletti di terra e riuscire a configurare dei poderi. Un’eredità dell’ancien régime fu pure quella dell’istituto dell’enfiteusi per cui vi sono superfici agricole, tutt’oggi, assoggettate a questo vincolo giuridico dal quale deriva la loro indisponibilità alla vendita e, di conseguenza, l’impossibilità ad entrare a far parte di entità poderali.

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Al regime feudale va imputata l’assenza di un qualsiasi progetto di valorizzazione delle campagne, accontentandosi i feudatari di percepire la rendita dai “livellari” senza effettuare interventi di sorta per migliorarne la redditività; tale cosa la ritroveremo nel latifondismo, vedi le Terre del Sacramento, dove l’aumento dei guadagni è perseguito attraverso l’aumento del patrimonio terriero piuttosto che con l’aumento delle rese dei campi. I latifondisti come i titolari dei feudi rifuggono dall’impegnare risorse finanziarie nell’agricoltura, mentre la classe borghese che si andrà affermando nel corso del XIX secolo impegna i denari guadagnati nell’esercizio delle professioni liberali in migliorie agronomiche, ma soprattutto è portatrice di una visione, per l'appunto quella dell’impresa mezzadrile. Il segno più forte delle trasformazioni che apportano all’agro è quello dei “casini” (sarebbe più appropriato per la loro grandezza chiamarli casoni), una specie di villa-fattoria che è una specie di quartier generale dell’azienda. Si tratta di edifici complessi formati da una pluralità di corpi di fabbrica aggregati intorno ad una corte, l’elemento distintivo della composizione architettonica. Essi sono volumetricamente consistenti fatti come sono di una molteplicità di corpi e ciò fa sì che essi costituiscano delle “emergenze” nei quadri panoramici. La mezzadria, la cui fine è stata decretata da una legge del 1982, ha avuto vita breve, poco più di un secolo, e però nel suo limitato periodo di esistenza è stata capace di imprimere un’orma memorabile, non solamente i casini, nel mondo agricolo, di introdurre innovazioni formidabili, in primis l’idea di podere.

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UN PALAZZO SIGNORILE A VASTOGIRARDI

La facciata è il principale elemento di qualificazione formale di questo palazzo. È fin dal Rinascimento, epoca in cui è nata l’idea di palazzo, che si affida al disegno della parete la definizione architettonica del fabbricato. Nel Rinascimento viene assegnata alla facciata una nuova importanza anche perché al palazzo viene data una particolare collocazione nel tessuto edilizio. Il fronte del palazzo è estremamente curato in quanto l’edificio è preoccupato del suo ruolo urbano.

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La facciata del palazzo Selvaggi presenta, seguendo il gusto classicistico, una disarticolazione in fasce orizzontali e verticali con il piano superiore con balconi, un piano finestrato e quello inferiore con semplici bucature; le aperture sono allineate fra loro. Al di sotto delle finestre vi sono delle feritoie che servivano a garantire la difesa della casa. Un altro carattere di questa facciata è la simmetria speculare rispetto ad un ideale asse centrale che è dato dal portone. Inoltre emerge con forza la finitezza del fronte che è un carattere imposto dalle regole architettoniche. Si riscontra, infatti, in facciata la serie chiusa delle finestre in cui c’è insieme alla ripetizione, pure la chiusura sottolineata dai cantonali in pietra. Vale la pena sottolineare che l’idea di ripetizione che qui avviene secondo un ritmo costante è strettamente legata all’adozione di modanature nelle cornici delle finestre dettate dagli ordini architettonici ai quali è connaturato il concetto di ripetizione. La chiusura non è solo in senso orizzontale ma anche verticale perché in alto la facciata è delimitata da un cornicione lapideo molto sporgente in modo da favorire l’allontanamento delle acque meteoriche. Se questa facciata denuncia un gusto classicista, in linea con i revival ottocenteschi, si avverte, però, una contaminazione da altri stili architettonici nella mancanza di un rigoroso ossequio al principio della proporzione. Infatti il portale sembra fuori scala rispetto alle altre componenti del prospetto; con le sue imponenti dimensioni esso non è rapportabile al resto degli elementi stilistici presenti in facciata.

Sul portale si è concentrata l’intenzionalità artistica, così come avviene sulle porte delle abitazioni comuni, a testimoniare il legame che, seppure nascosto, c’è tra l’architettura colta e quella popolare. Il complesso del portale si caratterizza per la presenza di due colonne a tutto tondo con capitelli classici sui quali poggia un secondo ordine di colonne che individuano un’apertura con cornice in pietra finemente lavorata. All’inizio si è detto che la parte maggiormente curata, dal punto di vista architettonico, dell’edificio è la facciata; va aggiunto che questo palazzo ha diverse pareti esterne tra le quali la più rifinita è quella dove sta l’accesso principale. Tutti i prospetti costituiscono superfici piane, ma non lisce perché corrugate dalle cornici delle finestre che sono simili a quelle del fronte d’ingresso. Tra i prospetti il più imponente non è quello principale, ma sicuramente quello contrapposto a questo, cioè quello posteriore e ciò è dovuto non solo alla maggiore altezza (perché essendo in pendio emerge il piano seminterrato), ma al fatto che lo si vede da una via stretta, e non da una piazza come il primo, il che ce lo fa apparire più maestoso. Quando si è parlato del fronte principale non si è menzionato il fatto che esso risvolta su un altro lato della piazza; il motivo è che per spiegare la presenza di quest’ala occorre fare cenno al processo di aggregazione che ha portato a questa configurazione dell’edificio.

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A differenza degli altri isolati urbani di Vastogirardi dove le case si sono unite insieme senza seguire alcun piano, in maniera spontanea, in questo caso si legge una precisa forma del complesso architettonico che lo distingue nettamente dal resto dell’edificato pure se, di certo, non vi è stato nessun progetto iniziale. La prima versione della casa deve essere precedente al 1744 quando in un atto notarile già compare la casa di “largo Piazza” di proprietà degli Scocchera, gli originari possessori di questo palazzo. Nel 1785, sempre nell’archivio di questa famiglia, vi è una descrizione dettagliata dell’immobile: «Una casa palazziata di membri 4, cioè 2 superiori e 2 inferiori, sita dentro questa Terra nel luogo detto Piazza»; sempre nel medesimo documento si passa poi ad una elencazione accurata dei vari ambienti: “Sala cucina, stanza laterale alla cucina, anticamera, dietro stanza, quarto sopra la sala, stanza dei forastieri, stanza dell’Arciprete, altra stanza de’ forastieri, stanza del forno, fondaco, fondaco vicino la dispensa, dispensa, cantina, stalla”. Il resoconto, lo si nota per inciso, non è evidentemente completo mancando perlomeno le stanze dei padroni di casa. L’ala laterale comincia a essere menzionata nel 1814 con la vendita da parte di un tal Cenci ai fratelli Scocchera della casa adiacente al palazzo e alla Taverna del Duca che, quindi, doveva trovarsi nel sito dove avviene

l’espansione laterale del palazzo. Infine nel 1839 gli Scocchera ottengono da un confinante, sempre da questo lato, la concessione del diritto a costruire un arco che è, poi, quello che affianca immediatamente il fronte principale. La fabbricazione del palazzo può dirsi terminata nella prima metà del XIX secolo con le successive trasformazioni e ingrandimenti. Il risultato finale di queste mutazioni è quello di un palazzo ad L, con i due lati che costeggiano e delimitano la piazza, piazza Umberto. Che questa sia una piazza è indubbio e ciò non solo per la toponomastica che da epoca antica così denomina questo luogo. Si vede che è una piazza dal fatto che è uno spazio pianeggiante abbastanza largo, cosa che è inconsueta in agglomerati abitativi posti in pendio come è Vastogirardi. Ancora di più, è piazza perché qui c’è un nodo urbano, trovandosi all’intersezione tra due percorsi, l’uno che sale al castello e l’altro che conduce alla Confraternita. Seppure è un incrocio di strade, comunque, lo slargo sta lungo un’unica strada; esso risulta appartato, tangente a questo percorso e ciò porta ad identificarlo quasi quale corte esterna al palazzo Selvaggi. Al contrario, come abbiamo visto ripercorrendo le fasi evolutive del palazzo, è quest’ultimo ad adattarsi alla piazza con la realizzazione del corpo aggiuntosi successivamente di fianco. In ogni caso, va sottolineato lo stretto legame che c’è tra palazzo e slargo, ognuno dei due aumentando di prestigio per la presenza dell’altro. Il condizionamento reciproco tra fabbriche e tracciato viario come in questo caso, lo si sottolinea per inciso, lo si ha nei centri urbani dove vi sono più rigide geometrie, mentre nel territorio rurale vi è maggior libertà di impianto (si veda la singolarità della masseria fortificata in località Staffoli, appartenente alla medesima famiglia e costruita pressappoco nello stesso periodo, che è tipologicamente differente dalle altre dimore signorili in campagna). Finora si è analizzato il rapporto dell’edificio con il contesto urbano nel quale è inserito, anzi piuttosto che di un singolo edificio si è visto che qui si può parlare di una vera e propria “parte urbana” in quanto il palazzo va strettamente legato alla piazza adiacente. Questa lettura va integrata con quella che parte dallo studiare l’edificio   in relazione all’isolato urbano al quale appartiene. L’isolato, che è un pezzo di tessuto urbanistico delimitato da 4 strade, è, per certi versi, il minimo comune multiplo di un insediamento. Nel caso in questione possiamo considerare l’isolato coincidente con un unico edificio, appunto il palazzo Selvaggi, o pensare quest’ultimo parte di un isolato più grande, comprendente anche le case affiancate ad esso. Si tratterebbe di un isolato “a schiera” formato da abitazioni di diverso tipo il quale è certamente ipotizzabile poiché non vi è una relazione fissa tra tipologia degli isolati e tipologia edilizia.

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Un’altra ipotesi che è possibile formulare, tenendo conto che gli isolati ai margini di un abitato (la collocazione del palazzo Selvaggi è proprio questa perché è posto al limite della zona più antica di Vastogirardi) non si formano neppure, è che qui l’isolato quasi scompare e prevale unicamente la strada. In altri termini si vuole dire che modulo della genesi di questa parte dell’aggregato è il percorso edificato e non l’isolato. Per percorso edificato qui va inteso proprio la strada, via Roma, che si allarga a formare la piazzetta antistante il palazzo, la quale è l’elemento primario della organizzazione urbanistica mentre costituisce elemento secondario il percorso laterale, la traversa di via Roma, che passa sul retro del palazzo lungo il quale non vi sono facciate significative né accessi, se non una piccola porta posta in un corpo minore del palazzo. Comunque, se non si può parlare di isolato si può parlare di lotto che comprende il palazzo, il giardino e la scuderia. A confermare il fatto che il palazzo doveva trovarsi originariamente in un ambito periferico dell’insediamento è l’esistenza del giardino annesso all’edificio. Nelle aree con maggiore densità edilizia, come sono i centri storici consolidati, mancano i giardini per la necessità di economizzare il suolo racchiuso nelle mura, le quali poiché costose dovevano avere un perimetro limitato. I giardini, invece, stanno nella fascia suburbana. Un palazzo, come il palazzo Selvaggi, che si richiama allo stile dei palazzi rinascimentali deve essere dotato di un giardino, un ornamento necessario, seppur di dimensioni limitate.

 Un’altra appendice al palazzo Selvaggi è il fabbricato della scuderia che forma un tutt’uno con il palazzo dal quale è separato da una stretta asola. Un po’ come nelle case contadine in cui abitazione e rustico sono separati, così qui la dimora è distinta dai servizi. In effetti, il palazzo non presenta cellule direttamente accessibili dalla piazza e, perciò, locali che abbiano ingressi separati da quelli dell’abitazione. L’esigenza di isolare i vani destinati ad usi, come il ricovero degli animali e delle derrate agricole, non agevolmente associabili alle attività domestiche giustifica la costruzione di un volume autonomo specificamente destinato a questo scopo. La scuderia non è rapportabile, evidentemente, alle tipologie edilizie delle abitazioni, le quali sono in prevalenza standardizzate. La scuderia, invece, ha una tipologia necessariamente singolare; si trovano, con difficoltà, strutture simili che possano servire da esempio. Se si tiene conto che più l’edificio è specialistico meno sono stati gli edifici costruiti corrispondenti a quella particolare specializzazione e che la funzione scuderia è limitata solo alle dimore delle famiglie ricche le quali, è ovvio, erano poche, si può comprendere l’originalità di questo edificio. Si può parlare, in definitiva, di una sorta di “personalizzazione” del prodotto che si presenta come un’ampia sala voltata sovrapposta a un piano cantinato.

Passando all’esame dell’interno del palazzo Selvaggi e cominciando dall’ingresso emerge il fatto architettonico più significativo di questo edificio che è la scala. È dedicato un ampio spazio all’androne, cosa inconsueta perlomeno nelle case comuni dove le superfici dell’atrio sono ridotte, collocando la scala sul retro. Vi è la successione spaziale atrio – scala - ballatoio di smonto. L’elemento maggiormente interessante è costituito dal collegamento verticale. Si tratta di una grande scalinata, tutta in pietra lavorata, con colonne e cornici modanate, i cui gradini lavorati con fregi a rilievo sono ognuno diverso dall’altro. Per il resto dell’interno si rimanda alla descrizione contenuta nel volume «Dimore storiche molisane» pubblicato per le edizioni ERI da Nicoletta Pietravalle che ha dedicato un intero capitolo a questo palazzo. Di seguito si riportano le notizie essenziali riguardanti le successioni proprietarie del palazzo. Già nella prima metà del ‘700 don Domenico Scocchera possedeva una numerosa industria di pecore ed altre specie di animali, oltre beni stabili ed esercitava pubblica mercatura presso la piazza di Foggia.

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La suddetta attività venne continuata da don Ottavio Scocchera, figlio di Domenico, al quale, secondo tradizione orale di famiglia, è dovuta la costruzione della casa palaziata di Piazza Umberto (una volta La Piazza) di Vastogirardi. Con due successivi atti di divisione (il primo del 1831 ed il secondo del 1850) la proprietà lasciata in eredità da don Pasquale Scocchera (deceduto il 28.2.1808) venne assegnata per i beni riguardanti il Molise, e quindi anche la casa palaziata di Vastogirardi, a don Liborio Scocchera, e per quelli ubicati in Puglia e Basilicata a don Ferdinando Scocchera. Dal matrimonio di don Liborio Scocchera e donna Giacinta Sabelli nacque l’unica figlia Pasqualina, la quale, alla morte del padre avvenuta nel 1866, ne ereditò il patrimonio. Donna Pasqualina Scocchera andò sposa in prime nozze al barone Liborio Angeloni di Roccaraso. Divenne poi moglie di don Domenico Marracino di Vastogirardi. I coniugi Marracino-Scocchera istituirono erede la nipote Giacinta Marracino andata sposa all’avv. Francesco Selvaggi (Vice Avvocato Generale dello Stato, Prefetto di Napoli, Senatore della Repubblica) i cui discendenti posseggono ora la casa palaziata di Vastogirardi.

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L’ARCHITETTURA VERNACOLARE

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È difficile stabilire quale sia, o sia stata nel caso di edificio parzialmente diruto o alterato da interventi trasformativi, la forma architettonica originaria. Non si può, di certo, parlare di un tipo ideale per la dimora rurale, vanamente inseguito nel tempo, a cominciare da Mario Cataudella che nel 1964 pubblicò per conto del CNR la ricerca «Casa rurale nel Molise», da antropologi, geografi e architetti. Ha scarso significato parlare di un’abitazione modello che possa rappresentare l’insieme delle strutture edilizie storiche tante sono le differenze che intercorrono tra i vari esemplari di casa contadina presenti qui da noi. Si riscontrano, ovunque, dei caratteri comuni, almeno per area territoriale, che sono relativi ad alcuni elementi particolari delle costruzioni i quali sono le tipologie delle finestre, delle porte e dei tetti. Essi non sono fatti da poco, si prenda le coperture, perché l’immagine del fabbricato cambia totalmente quando il tetto è piano e non a falde (ovunque qui da noi, pure sulla costa l’edificio è chiuso da spioventi); se la copertura è a capanna, come spesso avviene, salvo nel caso che non sia la quinta di un edificio aggregato in una schiera, il timpano rappresenta un motivo caratteristico con il suo occhiello aeroilluminante centrale.

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Sono interessanti, inoltre, le linee di gronda le quali delimitano il tetto costituendo a volte, delle linee orizzontali mentre, a volte, degli autentici ricami che sottolineano in alto il termine delle pareti con le elaborate romanelle. Passando alle aperture il primo aspetto da rilevare è la posizione degli infissi che se arretrata rispetto alla facciata fa percepire lo spessore delle murature e, dunque, sottolinea la robustezza del corpo di fabbrica. Quando il numero delle bucature è ridotto, e anche ciò è molto frequente specie nelle zone fredde come l’Alto Molise, i fronti del manufatto edilizio emanano un senso di chiusura, di protezione dello spazio interno. Ricorrenti sono le dimensioni delle superfici finestrate così come i dettagli, dal davanzale agli stipiti laterali in materiale lapideo. È da evidenziare che le finestre che vediamo oggi è poco probabile che siano quelle del passato, neanche gli squarci di muro in cui sono inserite, necessitando per montare i serramenti con i vetri, non presenti in precedenza, il loro allargamento con la sostituzione delle piattabande di pietra con architravi di legno, le cosiddette opere morte. Tra le aperture un posto privilegiato lo ha la porta la quale rappresenta l’ingresso all’alloggio e che è sormontata nella chiave di volta da un richiamo alla famiglia; il portale non c’è, però, se l’entrata va raggiunta con una scala esterna la quale va intesa, per certi versi, quale prolungamento della “soglia”, soglia che è metaforicamente il luogo di passaggio. A connotare una struttura architettonica sono i cantonali dove vengono collocati i blocchi lapidei più grandi i quali appaiono contenere orizzontalmente le facciate. Il basamento massiccio, con zoccolatura in pietra o meno, salda figurativamente il fabbricato al terreno, effetto che si perde se vi è la scala esterna.

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Più che gli elementi elencati tanti studiosi affermano che la qualità distintiva dell’architettura rurale molisana è la pietra in vista. Non è così non fosse altro che vi è l’utilizzo, a seconda degli ambiti geografici, di materiali costruttivi diversi, si prenda il laterizio nella piana di Boiano e l’argilla impasta con paglia per i ricoveri nel larinate. È pur vero, però, che a caratterizzare in maniera decisiva i manufatti tradizionali è la materia di cui sono fatti, la pietra e il laterizio, la quale, peraltro, conferisce loro una specifica colorazione, un sapore differente. Una dimora contadina è ben riconoscibile pur in assenza di un parametro lapideo, e quindi se del tutto intonacata, essendo sufficienti la presenza di quelle connotazioni indicate e cioè la conformazione delle aperture, il tipo di tetto, ecc. La pietra, specie se di estrazione locale, e il laterizio prodotto da fornaci del posto consentono una immedesimazione dell’opera antropica con l’ambiente e ciò costituisce un fattore qualitativo importante. L’intonaco nasconde l’organizzazione strutturale per cui un edificio realizzato con tecniche antiche potrebbe essere scambiato con uno fatto con tecnologie moderne, mentre invece nelle case in pietra a vista è ben leggibile il sistema costruttivo impiegato e ciò permette di apprezzarne la vetustà. Fino ad ora non si è parlato, ragionando su cosa identifica una costruzione tradizionale, della sua forma e ci proviamo adesso soffermandoci su una componente determinante di quest’ultima, la dimensione. L’aspetto dimensionale nel panorama architettonico tradizionale di cui ci stiamo occupando è talmente variabile che è complicato fissare dei parametri quantitativi capaci di caratterizzare la dimora rurale. Gli edifici sono composti da multipli di un modulo base che dall’aggregazione con altri moduli può dar vita a strutture differenti, tanto tipologicamente quanto dimensionalmente. Un’osservazione opportuna è che l’impianto è necessariamente su base ortogonale per cui gli edifici sono, di norma, rettangolari. Il rettangolo può scomporsi in quadrati, i vani della casa che poi sono le cellule minime dalle quali si è sviluppato l’organismo architettonico; la sommatoria dei moduli può avvenire sia in orizzontale sia in verticale, in entrambe le dimensioni o in una sola di queste come si vede nelle case-torri lungo la vallata del Biferno e la verticalità che in tali fabbricati difensivi e insieme abitativi si ottiene porta a sentire il manufatto proteso verso l’alto, in contrasto con il radicamento al suolo degli ordinari edifici del passato.

È uno sforzo inutile quello di trovare costanti dimensionali e tipologiche nel patrimonio costruttivo tradizionale se si guarda alla congerie di unità abitative presenti nei borghi storici, frutto di un processo millenario di fusione e scomposizione di alloggi, di sovrapposizione e sottrazione di corpi di fabbrica. Si tratta di insediamenti per così dire spontanei dove l’edificazione avviene seguendo la morfologia territoriale senza tracciati ordinatori, allineamenti prestabiliti delle cortine edilizie, distanze da rispettare tra i fronti edificati come avviene nei centri urbani veri e propri nei quali le singole costruzioni sono ben distinguibili, non dando luogo ad un coacervo di masse edilizie. L’unica parte del territorio che permette l’affermarsi di qualcosa di simile alla tipologia edilizia è la campagna, sempre che l’installazione della casa sia effettuata in uno spazio piano, di adeguata estensione, cosa rara data l’accidentalità del terreno nel nostro agro; altra condizione è che l’edificio sia isolato e questo può accadere, ma solo per qualche tempo in quanto storicamente vi è la tendenza all’affiancamento di successive porzioni edilizie per via dell’ampliamento del nucleo familiare iniziale secondo la regola della famiglia patriarcale. Al di là di questo vi è il fatto che nella cultura popolare non vi è interesse al tema tipologico, il costruire riducendosi (?) all’adattamento della casa al contesto spaziale naturale senza voler imporre segni forti al paesaggio.

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I COLORI DEI BORGHI TRADIZIONALI

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Bisogna subito dire che nei villaggi tradizionali le costruzioni che li compongono sono intimamente legate al contesto ambientale. Per l’edificazione si fa uso dei materiali presenti in loco, pietra se il sito è roccioso, mattoni se l’area è ricca di argilla, e lo stesso vale per la loro colorazione adoperando le terre pigmentose da stendersi sull’intonaco disponibili. Abbiamo una limitata gamma di tinte da potersi utilizzare, tutte in tonalità tenui, il che rende sostanzialmente unitario il cromatismo del borgo. Se ne distaccano le abitazioni dei ceti più abbienti le quali si ispirano alla tradizione architettonica colta impiegando in facciata colori differenti prodotti dai colorifici per rimarcare volta per volta o tutti insieme i cantonali, la fascia basamentale, le cornici delle aperture e così via seguendo gli stilemi coevi più in voga, una sorta di moda. Per quanto riguarda le case del popolo le quali sono la componente maggioritaria del borgo per quanto riguarda la tinteggiatura si può parlare di “uniformità nella diversità”. Infatti l’uniformità di fondo non significa che a scala locale, in un segmento viario la fabbricazione laterale sia in tinta unita. Il policromismo è favorito dal frazionamento dell’edificato in cellule abitative minime le quali possono avere ciascuna una propria distinta colorazione dissimile dalla vicina. Detto diversamente non vi sono strade con ai lati fronti tutti rosa pallido e altre fronteggiate da corpi di fabbrica costantemente azzurrini. In definitiva, globalmente in un insediamento dal punto di vista coloristico vi è una certa consonanza, mentre localmente vi è una discreta, compatibilmente con i pochi pigmenti reperibili, varietà nella pitturazione delle sue casette.

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Da lontano prevale quale effetto ottico l’unità, poiché le tinte si mischiano fra loro, sfumano l’una nell’altra, arrivano a confondersi, da vicino emerge la diversità vedendo i fabbricati uno a uno. Di recente sono state effettuate alcune ristrutturazioni di unità residenziali datate utilizzando per le pareti esterne colori addirittura sgargianti, a Lucito, a S. Elena, a Castelbottaccio, che rompono o interrompono, volutamente, l’equilibrio cromatico di quei centri storici. Si sta affrontando il tema del colore da applicare al costruito dando per scontato che i manufatti del passato ne fossero dotati, sempre; invece non è così perché una moltitudine di edifici negli agglomerati antichi e, soprattutto, in campagna sono in pietra faccia vista. Seppure non lo fossero all’origine una certa quantità lo è diventato per via del disfacimento dell’intonaco il quale mette allo scoperto il paramento lapideo sottostante.

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Un inciso, il lavoro eseguito a  seguito dei danni inferti dalla scossa sismica, per sopravvenuta modifica delle disposizioni tecniche venuta meno la prescrizione del placcaggio del muro con rete elettrosaldata e betoncino su entrambi i suoi risvolti ha portato a prediligere la messa a nudo della muratura in pietra e ciò ha portato all’appiattimento dell’immagine del nucleo urbano; non sono stati risparmiati neanche i palazzi signorili i quali sicuramente erano intonacati facendo scomparire le modanature che arricchivano i prospetti e un caso limite è Ripabottoni. Nelle strutture oggetto di restauro le pietre vengono ripulite, ma in questo modo viene a perdersi la patina del tempo; l’estradosso lapideo del setto a causa dell’esposizione prolungata alle intemperie si scurisce e ciò conferisce un particolare fascino a tali dimore e non si sta parlando del nerofumo delle cucine con camino, troppo affascinanti. La pietra non si può, ad ogni modo, definirla incolore, si badi bene, poiché la cromia dell’arenaria, prevalente nei comuni, prendi S. Massimo, collocati sopra questa formazione rocciosa, è ben diversa da quella del calcare, vedi Castelpizzuto che è sul Matese, una montagna carbonatica, e da quella del travertino la cui porosità risalta nelle arcate sopravvissute dell’abbazia di S. Vincenzo al Volturno e da quella, rossastro scura, del flysch numidico che sta tra Lupara e Pietracatella.

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Solo per erigere monumenti la pietra viene importata da altrove come il granito proveniente dalla Sardegna dei rocchi di colonne dei resti della chiesa di S. Pietro a Cantoni di Altilia, altrimenti è a “Km. 0”. Nel territorio rurale si rivela ancora più stretta la compenetrazione tra ambiente naturale e manufatto antropico con le fabbriche uso residenza o stalla, compresi i muri di cinta, le quali addirittura si mimetizzano nel pendio, la pietra con cui sono fatti fa tutt’uno con gli affioramenti rocciosi dell’intorno, da cui, del resto, è stata prelevata. Nell’area della Montagnola financo la copertura è in pietra, le “licie”, le quali impermeabili come sono, capaci di resistere alla spinta del vento che, per il loro peso, non riesce a spostarle, non bisognevoli del tavolato sottostante, sono idonee a coprire una casa. Macchiagodena vista dall’alto, dal castello, è una distesa di lastre grigie che la fa assai pittoresca. Altrettanto suggestivi sono i tetti in “pinci” i quali essendo di fattura artigianale sono di colorazione cangiante in dipendenza della temperatura di cottura e dell’impasto argilloso, la materia prima che varia da luogo a luogo, una cosa completamente differente dalle tegole cementizie di produzione industriale. A Roccamandolfi che è stata risparmiata dal terremoto dell’84 si conservano i coppi tradizionali che qui hanno un colore rosato. Passiamo ora al rapporto dal punto di vista coloristico tra nucleo abitato e paesaggio: i villaggi in pietra si fondono con l’insieme paesaggistico in cui predominano le emergenze rocciose, mentre si registra un contrasto cromatico se il quadro percettivo è dominato dai pascoli e dai boschi. Sulla costa a fare da contrappunto nelle vedute all’insediamento umano è il fondale rappresentato dall’azzurra superficie marina. Si è nominato poco fa il verde il quale punteggia pure qua e là il centro abitato sotto forma di vegetazione in vaso che orna balconi e davanzali, oggi sempre meno per via dell’abbandono di tante case a causa dell’emigrazione. Finora non si è fatto cenno discutendo della tavolozza cromatica dei nostri borghi al bianco forse perché viene giudicato acromatico, in qualche modo l’assenza di colore. Così come gli esquimesi distinguono molteplici varietà di neve cui corrispondono bianchi diversi così noi dobbiamo imparare a riconoscere le pluralità di bianco della “scialbatura”, uno strato di latte di calce steso sulle mura a protezione delle abitazioni che va rinnovato di frequente. Il colore dipende dalla pietra che è servita per ottenere, tramite cottura, un ingrediente esclusivo (nell’intonaco c’è la sabbia in più). Il bianco delle pareti permette al rosso delle tegole di aver maggior risalto. A colorare l’edificio contribuiscono pure gli infissi verniciati di verde o lasciati color legno e canaloni, grondaie e messicani, un tocco di colore metallico, siano essi in rame o in stagno.​

Borghi a Colori

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Non esiste una disposizione normativa in riguardo al piano del colore, eppure alcuni comuni molisani cominciano a dotarsene e tra questi sono S. Pietro Avellana e Pettoranello, mentre in diversi centri della media valle del Biferno, ormai circa 10 anni fa, con uno specifico finanziamento rientrante tra i fondi per lo sviluppo locale è stato predisposto un catalogo delle coloriture da applicare agli edifici e realizzati interventi campione (è davvero interessante quello eseguito a Spinete in un fabbricato prossimo al castello, che, però, è rimasto, isolato). Manca ancora sia a livello regionale sia a quello statale una definizione giuridica di cosa debba intendersi per piano del colore. Esso può essere inteso tanto atto regolamentare autonomo quanto appendice al Regolamento Edilizio e ciò dipende anche da come tale pianificazione è composta, se cioè è costituita da prescrizioni scritte, magari accompagnate da grafici esplicativi, oppure se è composta da elaborati planimetrici, prospetti in serie delle case che fiancheggiano le strade ad un’opportuna scala di rappresentazione, ecc. nei quali vengono indicate puntualmente le tinte delle facciate. In tale seconda versione del piano del colore è possibile conferire un particolare aspetto a qualche angolo dell’edificato, quale per esempio quella assunta dal pezzo terminale del corso Garibaldi ad Agnone, altrimenti detto La Ripa, con le casette in fila dalla tinta l’una diversa dall’altra, assomigliando in questo modo al villaggio di Burano; non si è trattato qui di una imposizione amministrativa, ma di una scelta condivisa dai proprietari di questi immobili inclusi in un Progetto Edilizio Unitario all’interno del programma degli interventi di riparazione ex sisma del 1984. Tutto il resto della città altomolisana con la ricostruzione acquisì un colore bianco-latte oggetto di molte polemiche in quei lontani anni ottanta.

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Una colorazione differenziata dei fabbricati è frutto di una volontà espressiva che trova quale campo di applicazione specifico il nuovo edificato, mentre per il costruito si richiede il rispetto dei colori ricorrenti in quel determinato contesto con poco spazio per le innovazioni. Gli organi preposti alla tutela paesaggistica prescrivono generalmente per interrompere l’uniformità di una schiera edilizia in progetto oppure per spezzare la massa, visivamente, di un manufatto da realizzarsi assai grande, di frazionare in parti ciò che si deve costruire utilizzando tinte, o tonalità della stessa tinta, differenti se non materiali di rivestimento distinti. Ciò anche al fine di ricondurre l’immagine ai moduli visivi ai quali siamo tradizionalmente abituati che sono piuttosto contenuti; il presente concetto è alla base, per fornire un esempio, dell’articolazione coloristica del palazzo INCIS a piazza Savoia a Campobasso. Le variazioni cromatiche servono pure per ottenere certi effetti percettivi: per creare o rafforzare un punto focale di visione l’edificio che conclude la prospettiva, siamo in una strada urbana, avrà un colore più intenso di quelli che lo precedono. Tale risultato è possibile raggiungerlo anche senza i colori, ma con il bianco e nero mediante le tantissime sfumature del grigio. Sarebbe auspicabile a questo proposito e senza paura di smentire quanto affermato in precedenza, poiché ci stiamo spostando in un contesto storico per il quale si era detto che bisognerebbe tendere a conservare i connotati originari, che il palazzo feudale di Civitanova dei duchi D’Alessandro poi frazionato in più proprietà contraddistinte dal trattamento esterno differenziato abbia la medesima dipintura sia per sottolineare l’unitarietà e con essa l’imponenza sia perché così si marcherebbe la sua posizione a fondale della principale via cittadina, il corso Fedele Cardarelli; si potrebbe scegliere di fare il fronte tutto di quel grigio di provenienza genovese che già ne ricopre la sua metà il quale non è troppo scuro (una riflessione su quest’ultimo punto meriterebbe di essere sviluppata qualora il prospetto fosse troppo lungo, ma non lo è).

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Una ulteriore annotazione riguarda la pavimentazione di questo corso che è costituita da betonelle cementizie e, in quanto tali, grigie: il grigio viene considerato un colore “neutro” che non imponendosi alla vista non distoglie dall’osservazione dei fronti edilizi che contornano il percorso i quali qualora di pregio architettonico come accade in tanti borghi medioevali molisani hanno diritto di stare al centro dell’attenzione. È una questione che occorre rientri nello studio per la predisposizione del piano del colore. Affrontiamo adesso una tematica che è abbastanza ricorrente nei nuclei abitati minori della nostra regione che è quella delle dimore con scale esterne poste frequentemente in modo parallelo alla parete, con pochi casi dove sono collocate perpendicolarmente ad essa (perché interromperebbe la continuità del percorso viario se la casa non è arretrata rispetto al ciglio stradale). Mario Catandella nella sua memorabile ricerca effettuata nel 1964 su incarico del CNR e pubblicata con il titolo «La casa rurale nel Molise» riconosceva nella presenza di tali scale che contraddistinguono le tipiche architetture contadine il carattere di ruralità dei paesi (tra i quali si cita S. Massimo in cui ve ne è una serie quasi ininterrotta in via Luigi Piccirilli, l’arteria maggiore dell’aggregato ai piedi del castello) che si contrappone a quello di urbanità. La domanda da porsi è se esse figurativamente appartengono alla casa cui si affiancano o all’intorno e da qui stabilire quale debba essere la loro coloritura. Altra problematica è quella delle trasformazioni che hanno subito le abitazioni nel corso del tempo a causa dei rimaneggiamenti subiti a seguito di eventi tellurici che sono frequenti nell’area appenninica la quale ricomprende una porzione consistente del Molise e della fusione di unità immobiliari: secondo la teoria del restauro le varie fasi costruttive dovrebbero essere evidenziate e anche di ciò si dovrebbe interessare il piano del colore. Vi è, poi, la inevitabile crescita in altezza di tanti fabbricati effettuata con materiali dissimili da quelli dei piani sottostanti: secondo i principi del restauro architettonico la sopraelevazione va lasciata a vista. A Oratino, famosa per l’arte lapidea, non c’è, peraltro, verso per omogeneizzare le aggiunte in verticale con i livelli inferiori caratterizzati in genere da un bel paramento lapideo. Nei centri storici non si persegue l’obiettivo di rendere apparentemente con partizioni di colore meno alta la sagoma di un edificio, cosa che invece si è resa necessaria per l’istituto fisioterapico adiacente all’impianto termale dell’Acqua Sulfurea di Isernia. In definitiva, l’operazione piano del colore è un’impresa complessa che, comunque, è opportuno venga avviata anche con pianificazioni minimali.

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Il "funzionamento"
delle dimore tipiche

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Vi è una reciprocità tra ambiente e manufatti edilizi tradizionali. Un aspetto di questo rapporto è l’adattamento della casa al pendio senza alterare la morfologia dei luoghi ma sfruttando sapientemente l’andamento del terreno collinare. Si ha un sistema di accessi all’edificio differenziati: a monte quello del fienile, a valle, quello della stalla, che sono vani sempre sovrapposti. Quando la casa non è disposta su un suolo in pendenza, per raggiungere il piano superiore c’è la scala esterna: è quest’ultima, forse, il principale connotato rurale perché la si ritrova raramente nei centri urbani. Gli edifici sono generalmente a due piani: nel caso di un ulteriore piano, mentre il secondo era servito dalla scala esterna, per accedere al terzo la scala diventa interna.

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C’è, comunque, in ogni caso, una scala mobile, in legno, a pioli, appoggiata ad una parete che consente di raggiungere, tramite una botola, il sottotetto. Questo è ricavato nella copertura che in genere è a due spioventi: gli edifici contigui si aggregano alla parte della “quinta”; quando la “quinta” è libera in esso è aperto un foro, di forma tonda o triangolare, per dare luce ed aria ai locali sottotetto che erano utilizzati per ripostiglio. A volte l’edificio che ospita la stalla e il fienile risulta distinto da quello dell’abitazione. La casa ha anche altre appendici come il vano sottoscala nel quale sono alloggiati gli animali da cortile, il pozzo, l’aia, cioè un ampio spiazzo con pavimentazione in pietra. Spesso c’è un piccolo orto dietro l’abitazione. Questi spazi e i locali destinati ad annessi agricoli sono individuati con un termine specifico (es.: stalla, fienile, cantina, ecc.) al contrario dei vani di abitazione che sono chiamati indistintamente camere. Vi è una delimitazione di spazi e competenze: l’uomo lavora nella stalla, la donna nell’abitazione e nel pollaio, perché è lei che accudisce gli animali da cortile. Per alloggiare la capra, il maiale e le galline era utilizzato in genere il sottoscala della rampa esterna. La stalla è dotata di mangiatoia per le mucche, una sorta di arredo fisso. La stalla si trasforma spesso nel quartiere d’inverno del contadino e le mucche assolvono alla funzione di impianto di riscaldamento. Nelle dimore rurali, nelle quali mancavano del tutto il salotto e non c’erano ambienti di rappresentanza, erano piuttosto i granai, con l’abbondanza delle scorte, a denunciare un maggiore benessere. Come all’interno, così all’esterno, le case non manifestano differenze sociali rilevanti, contrariamente a quanto si verifica per altre categorie sociali, per le quali l’abitazione è anche status symbol.

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Per quanto riguarda le facciate esterne della casa è possibile notare alcune componenti ricorrenti. Su alcuni edifici sono incisi l’anno di costruzione e talvolta le iniziali del proprietario. È rara la presenza dei balconi nelle case rurali e la ringhiera in ferro lavorato costituisce un elemento decorativo. Ugualmente poco frequenti sono le abitazioni dotate di portone il quale ha il battente in ferro decorato. Alle volte nella posizione centrale della facciata, in alto, c’è una piccola edicola votiva che ha la funzione protettiva della casa. Si notano anche i capochiave delle catene in ferro che vengono messe spesso per rinforzare le costruzioni. Questa gamma articolata di caratteri dell’aspetto esterno si giustifica anche con una trasformazione continua delle tipologie rurali nell’arco storico. Una peculiarità della dimora rurale la si riscontra nei modi di vivere lo spazio interno e quello esterno, frutto della diversa organizzazione sociale; la casa era vissuta durante la stagione invernale e poco abitata durante il periodo nel quale si svolgono i lavori nei campi. Nei mesi estivi, nelle zone montane dove si svolge l’alpeggio, ci si trasferisce nei ricoveri temporanei che non diventano mai “casa” cioè luogo con valore simbolico che significa l’identità della famiglia, pur se abitati per lungo tempo e pur non differendo molto, se non nelle dimensioni che sono ridottissime, con le residenze principali per quanto riguarda la distribuzione degli spazi e la scarsità dell’arredo.

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LE CASE CON IL TETTO IN PIETRA

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In molti comuni rurali sembra che il tempo abbia un’altra velocità rispetto al tempo convulso che si respira nelle città. Uno dei segni più evidenti di questa “lentezza” del tempo sono gli esempi di case con il tetto in pietra ancora rimasti. Infatti queste case ripetono modelli di costruzioni già presenti migliaia di anni fa. Quella dei tetti in pietra è una tecnica esecutiva consolidata da millenni che può essere collocata in uno stadio precedente a quello delle coperture con coppi; il modo costruttivo della pietra a secco che caratterizza queste case tanto nelle pareti che nei tetti è sicuramente il più antico. È una tipologia di costruzioni che pare non aver avuto perfezionamenti nel corso dei secoli e così risulta oggi difficile stabilire una datazione alle numerose case con il tetto in pietra che ancora sono presenti in diversi centri. Oltre alla loro antichità queste case fanno pensare anche alla semplicità perché esse costituiscono una forma edilizia elementare che si basa sulle due materie naturali e più diffuse e facilmente disponibili in questo territorio, il legno (per le travi e gli infissi) e la pietra (per le mura e per il tetto). L’uso di materiali

locali fa sì, poi, che queste costruzioni si adattino benissimo al paesaggio che circonda tali paesi dove gli elementi prevalenti sono il bosco e la roccia dai quali si traggono, appunto, il legno e la pietra. Un’altra sensazione che le case con il tetto in pietra emanano è quella della stabilità e sicurezza e ciò deriva non solo dal fatto di essere strutture massicce, ma forse pure dalla memoria ancestrale dei ricoveri primitivi nei quali la copertura, come in queste case è l’elemento predominante perché assicura il riparo. A volte le costruzioni primordiali coincidevano interamente con la copertura: è il caso delle “pagliare”, capanne in paglia presenti in diverse parti del Molise. Per tali motivi la copertura acquista un valore simbolico e ciò conferisce un particolare significato alle case con tetto in pietra che vengono così a costituire uno dei caratteri principali dell’identità culturale di questi luoghi. Aiuta a comprendere la carica semantica che è legata alle case con tetto in pietra la considerazione che la copertura è uno dei componenti fondamentali di un edificio che svolge un ruolo decisivo nel garantire lasua durata e che, perciò, quanto più la copertura è solida, quale quella con manto in pietra, tanto più la casa è protetta. Inoltre la pietra, va ricordato, è il materiale edile più resistente e più durevole. Passando ora ad esaminare alcuni aspetti funzionali di tale copertura occorre evidenziare che in essa sono presenti,  pur trattandosi di architettura povera, parecchie soluzioni ingegnose che

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servono a risolvere i problemi dei diversi punti particolari dei quali si compone un tetto. Così come le tegole in argilla si sono specializzate in una miriade di pezzi destinati a singole funzioni (la linea di colmo, il raccordo con il comignolo, ecc.) anche le lastre di pietra impiegate in queste coperture hanno diverse dimensioni in modo da risultare adattabili a seguire tutte le parti del tetto. Per garantire la tenuta all’acqua il manto di copertura è ottenuto con una estesa sovrammettitura delle lastre di pietra. La posa di queste lastre che qui si chiamano “liscie” avviene su assi di legno posti parallelamente alla linea di gronda. Il manto di copertura in lastre di pietra determina la costituzione di un vero e proprio “sistema costruttivo”, cioè di regole edilizie specifiche connesse alla pesantezza del tetto. Il peso delle “liscie”,infatti, impone che le murature sottostanti siano massicce e ciò,

a sua volta, obbliga ad avere porte e finestre piccole perché altrimenti si indebolirebbe la muratura; inoltre dal peso elevato delle “liscie” discende che le travi da impiegarsi in copertura non debbano essere troppo lunghe altrimenti si infletterebbero e da questo fatto, di conseguenza, deriva che i vani dell’abitazione siano stretti perché devono avere larghezza pari a quella delle travi. Le dimensioni degli ambienti della casa, in definitiva, dipendono strettamente dai limiti imposti dall’orditura dei solai, i quali sono connessi al tipo di materiale di copertura. Si tratta di un “sistema costruttivo” piuttosto rigido che ammette poche varianti. La forma del tetto più ricorrente, anzi quasi l’esclusiva, è quella della capanna e, in genere, si tratta di case uniformi con poche differenzazioni fra loro. Il manto di copertura in pietra deve essere stato scelto sia perché è un efficace isolamento contro il freddo invernale in quanto ha un’inerzia termica superiore al manto di cotto sia perché qui la pietra la si trova abbondante. Affiorano un po’ dovunque in quest’area strati superficiali della roccia calcarea che può essere divisa nei suoi piani naturali in sottili tegole di pietra. In diversi territori sono frequenti branchi rocciosi che presentano nette stratificazioni orizzontali: sono queste le cave di produzione delle lastre di pietra la quale viene impiegata nelle coperture senza essere

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lavorata. La naturale varietà degli spessori della roccia fa sì che la pietra sia usata non solo nelle coperture, ma anche nei muri i quali sono formati da blocchi montati a secco. Per questa presenza della pietra sia nelle costruzioni che nel paesaggio si ha un mirabile inserimento degli insediamenti umani nel contesto naturale.

 

                                                                  

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Le scale esterne nelle dimore tipiche

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Per la casa contadina si può parlare di dimora tipica per la ricorrenza delle stesse forme in una moltitudine di esemplari. Le ragioni di questa uniformità sono diverse: da un lato c’è la sua semplicità costruttiva che porta alla formazione della casa come accostamento di cellule elementari da cui, poi, deriva una forte rigidità dell’impianto in quanto le possibilità di variazione di tale accostamento sono limitate, dall’altro lato c’è la omogeneità a livello regionale dell’organizzazione agricola alla quale la dimora rurale è strettamente legata tanto da essere definita casa-utensile. Del resto, a proposito di questo secondo punto, si deve dire che un’agricoltura poco specializzata come la nostra non richiedeva una specializzazione e una conseguente differenziazione delle case. Non esiste neanche una specializzazione degli ambienti di servizio, i cosiddetti «annessi agricoli», come potrebbero essere il granaio, il fienile, ecc. ma si deve parlare piuttosto di una versatilità della casa contadina che non è solo abitazione, ma anche stalla, magazzino. La casa contadina adatta i suoi spazi, anche perché generalmente limitati, a una molteplicità di usi quali la conservazione del grano

nella camera da letto, l’essicazione dei salumi in cucina e così via. Questa plurifunzionalità degli spazi della casa non dipende solo dal ciclo delle lavorazioni agricole, ma pure dal particolare indirizzo culturale prevalente nella zona in cui è ubicata quella determinata casa: ciò, appunto, conferisce la caratteristica di adattabilità alla casa contadina. Dunque, se un’accezione della parola «tipico» è quella di ripetitiva per la casa contadina si può parlare di tipicità: anche quando c’è la possibilità di avere libertà nell’organizzazione dell’edificio come si verifica in campagna dove le costruzioni sono autonome, a differenza degli ambiti urbani in cui la disposizione della casa, la sua altezza, i suoi fronti sono condizionati dalla presenza di altre costruzioni, la forma della casa è sempre la stessa ed essa è dettata dalle esigenze tecniche e funzionali di cui si è parlato sopra. A tale esigenze la casa rurale sembra aver fornito la soluzione più confacente, ma ciò non ci deve far dimenticare che si tratta di esigenze storicamente determinate e, pertanto, anche la nostra casa rurale è storicamente determinata e non immutabile nei secoli. Fatta quest’ultima dovuta precisazione, si può ritornare al concetto di tipico. Esso va esteso, ovviamente, ai vari elementi che compongono la casa; tra questi il più riconoscibile è la scala esterna. Se è vero, come si è detto all’inizio, che la casa tradizionale è formata da un’aggregazione di cellule, la scala esterna è la soluzione più appropriata al problema di collegare cellule collegate a piani differenti. Infatti la scala esterna essendo un vano autonomo rispetto alle cellule ne rispetta la integrità,

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contrariamente a quanto fa la scala interna che invece sottrae spazio (a volte mediante una tramezzatura) a qualche cellula, essendo ricavata all’interno di esse. La scala esterna non è un rimedio alla carenza di spazio nella casa contadina che spinga a porre la scala al di fuori dell’edificio, ma piuttosto è un arricchimento di questa casa, fornendola di un vano di disimpegno, anzi dell’unico vano di disimpegno della casa contadina che è priva di tali spazi accessori. Che la scala esterna non sia un semplice spostamento al di fuori della casa della scala è dimostrato dal fatto che essa differisce dalla scala posta all’interno anche per la sua larghezza, facendola assimilare a una gradinata urbana e, per questo aspetto, si può addirittura parlare di un prolungamento dell’abitazione nello spazio circostante venendo la scala esterna ad essere a metà tra una componente della casa e una componente dell’area in cui la casa è inserita, sia essa urbana che rurale. Occorre puntualizzare che, ovviamente, la tipologia della casa contadina non è nata bella e fatta, così come Minerva dalla testa di Giove, ma che essa è il frutto di una evoluzione nel tempo che avrà portato dalla cellula uninucleare per successivi raddoppi anche in verticale alla forma consolidata in cui si presenta oggi e quindi alla giustapposizione della scala alle cellule: tale processo ad un certo punto si deve essere cristallizzato consegnandoci l’immagine attuale della casa rurale. Di questa la scala esterna costituisce l’elemento più riconoscibile. Pur se la casistica delle scale esterne è notevole, avendosi variazioni di aspetto nelle diverse zone del Molise in dipendenza delle differenti tradizioni costruttive, essa rappresenta il fatto architettonico fondante della casa rurale per la sua rispondenza alle esigenze descritte prima. La principale caratteristica della scala esterna è quella di essere con il suo ballatoio di smonto un vano a sé stante, l’unico elemento eterogeneo nella composizione della casa tradizionale, basata sulla sommatoria di cellule. In genere il pianerottolo di smonto ha la copertura, la quale si distingue dalla copertura del resto della casa perché essa serve a coprire solo questo vano, il ballatoio e un vano sottostante che normalmente non c’è; la copertura, o meglio il suo introdosso, è visibile dal ballatoio le cui pareti che presentano ampie bucature non finestrate servono innanzitutto per sorreggere tale copertura e anche per questo aspetto la scala esterna si distingue dal resto delle cellule della casa. Il pianerottolo può essere spesso assimilato ad una loggia presentando bucature a forma di arco con accenni di capitelli, ottenuti con il ringrosso delle pareti nel punto di imposto di tali archi: si vuole quasi attribuire un valore estetico alle scale esterne, concentrando l’impegno decorativo in questi punti che, così, spiccano nell’immagine della casa per il contrasto che si determina con i volumi elementari e con le semplici pareti dell’edificio.

Abbiamo addirittura che la scala esterna viene a sovrastare la facciata della casa che in tal modo viene ad essere annullata. Una giustificazione di ciò va cercata nel fatto che nel territorio rurale non necessita una vera e propria facciata perché la casa rurale prospetta su spazi di servizio quali il cortile o l’aia e non su spazi pubblici. Al di là di questa considerazione è significativo, comunque, il disinteresse che si nota nell’architettura tradizionale per la facciata simmetrica, il rifiuto di uno stretto rigore geometrico. Dalla simmetria discende la staticità e pertanto la casa rurale non presentando simmetrie non ha una immagine compiuta, fissata una volta per tutte: al volume del fabbricato si affianca la scala esterna, ma anche il pollaio, la concimaia e così via. Proprio questa continua aggregazione di corpi, la possibilità di ampliamenti e mutazioni sembra essere il connotato saliente della tradizione costruttiva contadina che si contrappone alla cultura architettonica colta che invece persegue l’armonia delle forme. Bruno Zevi a questo proposito afferma: «Siamo di fronte a linguaggi di “grado zero”, privi di grammatica e di sintassi, dettati da eventi essenziali basici, dalla natura e dal lavoro». Parole di significato immediato, poste una accanto all’altra e una di queste è proprio la scala esterna. Quest’ultima è uno dei «fenomeni» ricorrenti nel linguaggio architettonico tradizionale della nostra regione: Mario Cataudella nella sua ricerca sulla Dimora Rurale nel Molise condotta nel 1964 per conto del C.N.R. constata che la scala esterna è ptresente tanto in zone collinari che in zone di montagna dove pure il clima esigerebbe una maggior chiusura delle case. La scala esterna costituisce perciò un segno paesaggistico di rilievo capace di caratterizzare quadri panoramici pur diversi fra loro ed, anzi, la sua diffusione uniforme si contrappone alla estrema varietà dei paesaggi molisani. Essa compare anche in alcuni centri urbani, non solo in campagna, ma ciò non smentisce la considerazione che la scala esterna ha uno spiccato carattere antiurbano perché i centri nei quali è presente hanno sempre una connotazione rurale; esplicitando si nota che essa non si trova mai nei nuclei storici di Campobasso, Isernia o Boiano, ma piuttosto a S. Massimo, Cantalupo, ecc. In questi ultimi centri è l’architettura contadina ad influenzare le costruzioni urbane, ribaltando la tendenza generale che vuole che sia la «città» ad influenzare la «campagna». Rimane valida, però, anche in questi casi la riflessione che le costruzioni rurali hanno una immobilità superiore a quella delle costruzioni urbane le quali evolvono continuamente.

Ciò lo si nota con evidenza se si osservano le modalità di aggregazione delle abitazioni: mentre negli ambiti urbani quando si fondono più proprietà edilizie si ha la costruzione del “palazzo” che unifica i vari corpi di fabbrica, in campagna, dove l’aggregazione corrisponde alla crescita di un nucleo originario per lo sviluppo della famiglia patriarcale, si ha la semplice giustapposizione delle case che quindi possono essere intese come un insieme di case isolate sia pure accostate fra loro. Pure in queste aggregazioni quindi continua a comparire la scala esterna che, pertanto, non è un elemento specifico delle case isolate. In conclusione, riassumendo quanto esposto sopra si può affermare che la casa contadina costituisce una tipologia di casa definita e le numerose varianti di case che esistono hanno una matrice tipologica unica. Anzi, la mutevolezza delle forme di queste case tutte però riconducibili al modello della casa come aggregazione di cellule non fa che confermare la presenza di una tipologia comune. La scala esterna è un elemento peculiare di tale tipologia, integrato com’è allo schema della casa quale somma di cellule sia in verticale che in orizzontale. Le regole compositive della casa contadina sono diversificate e prevedono la disposizione della scala esterna o sul lato lungo del fabbricato o su quello corto, la copertura o meno del pianerottolo di smonto, ecc..

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La scala esterna appendice della casa o della sua corte?

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Il tema che si affronta è quello della scala esterna nell’edilizia tradizionale, il quale richiede di partire dalla descrizione della casa tipica. Essa è costituita normalmente da due livelli, l’uno, il secondo, destinato ad abitazione, l’altro, il terraneo, adibito ad uso non abitativo e cioè bottega o magazzino oppure stalla. I motivi che giustificano tale sovrapposizione di piani sono due, da un lato la necessità di separare gli annessi dalla residenza, dall’altro lato il bisogno di distaccare dal suolo, e quindi dall’umidità, l’alloggio; quest’ultima motivazione la si comprende meglio se si considera che anche la dimora isolata è formata da 2 piani nonostante che i locali di servizio si sarebbero potuti affiancare all’abitazione e non al di sotto. Lo si ripete la tipologia costruttiva appena descritta la si ritrova sia nelle case isolate sia in quelle aggregate, tanto se la destinazione del piano terra è a scopo commerciale, quanto artigianale o agricola. È sempre la scala esterna a collegare i due piani anche perché il primo livello ha, in genere, copertura a volta, non, per così dire, bucabile per il passaggio della scala. La scala esterna è ad unica rampa ed è priva di ripiano intermedio. Inoltre essa è sempre abbastanza ripida, spiegandosi tale caratteristica con il fatto che la lunghezza della scala non può superare quella del fronte dell’edificio, anzi deve essere più corta di quest’ultimo per garantire il passaggio di una persona che vuole salire la scalinata senza invadere l’ambito fronteggiante l’unità edilizia contigua; a questa regola vi sono diverse eccezioni quando l’edificio è in campagna e quando la scala è posta su una facciata ortogonale ad una via pubblica.

Una premessa doverosa a quanto detto sopra, che si è trascurato di fare perché la si è data per scontata, è che la scala esterna si dispone sempre parallelamente alla parete per evitare di costituire intralcio alla fruibilità dell’area circostante come avverrebbe se essa fosse ortogonale al fabbricato. La scala esterna, specie qualora sia ai margini di una strada comunale, è uno spazio a metà pubblico e a metà privato: ciò spinge alla sua interpretazione, a volte, di percorso in qualche modo urbano piuttosto che di semplice elemento di collegamento fra i 2 livelli dell’edificio, alla stregua di una scala interna. Il che può determinare una dilatazione della larghezza della scala con il pianerottolo di smonto trasformato in un terrazzino, quasi una piccola corte. Certe volte nei gradini della scala esterna, ai loro margini, si dispongono vasi nei quali si coltiva il prezzemolo, il rosmarino, ecc. Mentre la scala interna è larga quanto la porta cui conduce alla quale si accede in modo istantaneo, la scala esterna non è funzionale solo al passaggio, ma pure alla sosta utilizzando i gradini quali sedili, in definitiva alle relazioni di vicinato (se nel centro abitato); per svolgere questo secondo ruolo è necessario che sia comoda, con un rapporto alzata-pedata migliore. Un’ulteriore precisazione che forse si sarebbe dovuta porre all’inizio, ma che adesso è essenziale per giustificare la funzione di luogo di incontro della scala esterna

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(tenendo conto che non si usava, prima dell’età borghese,

ricevere persone dentro la casa) è che, secondo Mario Cataudella nel suo studio La Casa Rurale del Molise del 1964, la scala esterna qui da noi per il carattere rurale della nostra società è diffusa pure negli agglomerati abitativi e non solo nel territorio agricolo. L’ingresso all’abitazione è posto al termine della scala esterna ed esso per ridurre le bucature che, se troppe, indebolirebbero eccessivamente la struttura muraria, svolge sia il compito di apertura che di aeroilluminazione. Per evitare che l’acqua piovana proveniente dal tetto, dato che le gronde essendo il metallo un materiale raro, possa bagnare chi entra in casa, si posiziona la scala esterna sul lato del timpano e quando, invece, si trova al di sotto della falda questa viene prolungata per proteggere il pianerottolo di smonto. La scala esterna indica la presenza dell’accesso all’abitazione, e poiché le porte dei due distinti livelli della casa si trovano sul medesimo fronte (salvo quella che conduce all’orto), essa denuncia che da questo lato ci sono gli accessi.

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L’ingresso al piano terraneo è collocato di frequente al di sotto del ripiano di arrivo della scala. Così come i piani sono destinati ad attività diverse, allo stesso modo gli accessi sono differenziati e nello stesso tempo possono avere dimensioni diseguali. Non è detto, un inciso necessario, che le porte si aprano sulla strada, potendo essere situate lateralmente (discorso simile, è ovvio, vale per la scala esterna). La scala esterna si associa, in ambito urbano, alla casa a schiera e, perciò, lungo una strada ve ne può essere addirittura una serie. Va aggiunto che le scale esterne comportano che gli edifici debbano essere a corpo doppio, non potendosi ammettere fabbricati aventi in pianta una dimensione maggiore se non con la scala in posizione centrale, quindi interna, per questioni di luminosità. L’elencazione dei caratteri delle architetture con scala esterna condotta finora non deve essere interpretata quale definizione di un «tipo edilizio» univocamente definito riscontrandosi tante varianti dello stesso; quelle individuate sono da ritenersi le più consone al tipo, quelle che garantiscono un migliore «rendimento» di tale tipologia in termini di organizzazione degli spazi, di funzionalità distributiva. Infine, si evidenzia che la scala esterna, almeno per il lato su cui è appoggiata, annulla l’immagine del fronte del classico edificio a capanna.

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La stalla, una tipologia architettonica specialistica

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La stalla con sovrapposto fienile costituisce un tipo edilizio ben riconoscibile e distinto dalla casa di abitazione. La stalla è un tipo edilizio definito così come lo è la casa: ambedue rispondono al concetto di tipo edilizio che scaturisce dalla ripetibilità e dalla diffusione degli esemplari. La stalla è un tipo edilizio forse ancora più significativo della casa di abitazione perché mentre per le case vi è stata una evoluzione progressiva della tipologia, il tipo edilizio della stalla presenta una maggiore permanenza nel tempo. Infatti la casa può avere molteplici varianti che dipendono, sostanzialmente, dalla crescita della cellula elementare, che è la stanza d’abitazione, con successivi raddoppi, mentre la stalla ha sempre le medesime dimensioni. Evidenziando l’esistenza di un tipo edilizio proprio della stalla si mette in rilievo la presenza in un insediamento tradizionale di una pluralità di tipi edilizi: se a ogni tipo edilizio corrisponde una specifica funzione constatiamo che anche nelle società del passato si trova una specializzazione funzionale che, poi, è il connotato peculiare di società evolute. In altri termini se la specializzazione è il frutto della “divisione del lavoro”, cioè di una struttura sociale progredita, si può dire che la stalla come distinguibile tipo edilizio, testimonia la presenza di una organizzazione articolata di questa comunità. Del resto il mondo pastorale, della cui esistenza la stalla è un segno leggibile, non si può definire arcaico legato com’è a consuetudini varie e complicate da quelle che normano l’uso collettivo dei pascoli a quelle che regolano la transumanza; va smentita la teoria che la pastorizia va considerata una forma di conduzione del territorio di tipo estensivo, quasi fosse priva di un impegno organizzativo dell’uomo, bensì essa va considerata una economia complessa (lo spostamento periodico di milioni di pecore lungo i tratturi richiede sicuramente una forte coesione comunitaria e una rigida divisione del lavoro che coinvolge anche chi resta nei paesi). Dunque in centri quali Vastogirardi, a vocazione pastorale, le stalle rimandano al ricordo di un mondo ormai sorpassato.

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Anche per un altro aspetto le stalle sono da conservare ed è quello che esse sono l’unico tipo edilizio legato ad un’attività lavorativa: generalmente, nella maggioranza dei paesi molisani, solo il piano terra delle abitazioni era riservato ad un uso specialistico e neanche nelle campagne sono distinguibili specifici tipi edilizi per stalle, fienili, ecc. per i quali si adottavano solitamente costruzioni simili a quelle destinate all’abitazione. Le stalle a Vastogirardi, così come a Roccamandolfi ed in altri comuni dove era prevalente l’attività pastorale, conferiscono a questi centri un’altra caratteristica peculiare, che li rendono diversi dalla generalità dei comuni molisani: normalmente nei nostri paesi le case sono quasi tutte uguali fra loro, con l’eccezione della chiesa, del castello e dei pochi palazzi signorili, e perciò vi è una tendenza all’uniformità delle costruzioni, mentre dove vi sono le stalle come tipo architettonico a sé stante si legge una diversificazione delle strutture edilizie che rompe la piattezza dell’immagine dell’agglomerato insediativo. Va sottolineato, comunque, che le stalle, pur essendo strutture specifiche, differiscono dalle altre costruzioni specialistiche, quali possono essere il castello e la chiesa, perché al contrario di questi ultimi, che sono carichi di intenzionalità architettonica con una forte personalizzazione essendo costruiti da artefici professionali che imprimono nell’edificio la propria cultura, sono opere “spontanee” edificate, spesso, direttamente dal fruitore. Ritorniamo qui al concetto di tipo edilizio che è valido per le stalle, ma non si può applicare per, mettiamo, un castello o una chiesa perché “il tipo edilizio si forma sulla generalità, e non sulla particolarità, di esperienze” (Caniggia – Maffei). Le stalle, molto più diffuse degli altri edifici specialistici, possono essere, per quest’aspetto, assimilate meglio alle case d’abitazione perché al pari di queste costituiscono un tipo edilizio ripetibile. La ripetibilità è confermata pure dalla loro aggregabilità che permette di formare delle schiere che sono presenti di frequente ai margini degli abitati, sia a Vastogirardi sia a Roccamandolfi. Le stalle alle volte si aggregano non solo con altre stalle, ma anche con le abitazioni e pure questo caso è ricorrente. La possibilità di aggregare le stalle con le abitazioni è dovuta al fatto che ambedue hanno come matrice edilizia un modulo di circa m2 35 a pianta quadrangolare; questo modulo è leggibile più chiaramente nella stalla perché essa è una struttura più elementare. Per certi si può riconoscere una derivazione della casa di abitazione dalla stalla, intesa come semplice ricovero formato da un unico vano per piano, con un processo di crescita per gradi, cioè con l’aggiunta di vani. Ciò conferisce alla stalla, al contrario degli altri edifici specialistici che difficilmente sono disponibili per destinazioni d’uso diverse da quelle originarie, quando quest’ultima è ormai superata, la capacità di trasformarsi in casa, perché tutt’e due derivanti dallo stesso modello base, ma ciò a costo di perdere la propria specificità e a costo di cancellare il valore di testimonianza di un particolare aspetto della civiltà tradizionale. 

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L’insediamento rurale

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I fabbricati rurali non sono solo oggetto di studio delle discipline architettoniche, ma interessano pure la storia dell’agricoltura, argomento del quale si occupa questa rubrica. In relazione alla proprietà fondiaria si può dire che ai grandi possedimenti, sia in zone a vocazione agricola sia in quelle a indirizzo zootecnico, si associa l’insediamento a grosse cascine: è questo il caso, rispettivamente, di Venafro, un ambito pianeggiante dove dominano le colture cerealicole insieme agli oliveti specializzati, e di Staffoli in agro di Agnone, quindi un’area montana caratterizzata dall’allevamento. Nella piana di Venafro vi sono splendide ville signorili ottocentesche che erano sede di floride aziende agricole, mentre al bivio di Staffoli sorge un antico palazzotto con torri agli angoli ed annesse stalle che oggi ospita un centro agrituristico.

La collina è, comunque, più della pianura e della montagna connotata alla presenza dell’insediamento sparso. Nelle fasce collinari come il medio Molise, dove sono diffuse le colture promiscue, cioè dove vi è l’associazione di seminativi, di viti e di alberi da frutto o gli ulivi, la campagna è presidiata dalle case dei contadini. In questo ambito, comunque, vi sono anche zone nelle quali gli insediamenti sono accentrati, quindi con una scarsa presenza di abitazioni isolate, e ciò è dovuto all’altitudine di questi centri (quali S. Biase e S. Angelo Limonano paesi che raggiungono quasi i m. 900 di quota) e quindi al pericolo di nevicate che minacciano di bloccare chi vive in campagna. Un elemento riconoscibile in tutto il Molise è l’ubicazione dei nuclei abitati che è sempre posta su balze a ridosso delle aree coltivate e ciò sia per le ragioni difensive che nel medioevo portavano all’arroccamento dei borghi sia per consentire ai coltivatori di stare vicino ai terreni agricoli senza sottrarre, nello stesso tempo, superfici alle colture. Cadute le motivazioni militari che avevano spinto alla chiusura degli agglomerati edilizi che spesso sono cinti da murazioni, perché vengono meno le esigenze di protezione per la raggiunta stabilità politica nell’Italia meridionale durante l’età di mezzo si ha una irradiazione sul suolo agricolo dei nuclei urbani di tanti fabbricati colonici, come testimonia la ripresa dell’edificazione nel XVIII secolo nell’antico sito di Saepinum. Ciò non si verifica unicamente quando vi è una estrema disseminazione sul territorio dei poderi, fatto che porta a preferire la concentrazione delle abitazioni nei villaggi che sono situati, generalmente, in posizione baricentrica rispetto all’agro rurale, consentendo di raggiungere con facilità i vari appezzamenti di cui si compone la

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proprietà contadina: è il caso, anche se tutto da dimostrare, di Roccasicura oppure di Pescolanciano. Passando ora ad osservare i connotati più propriamente agricoli dell’architettura rurale, si rileva che negli esemplari più antichi si ha sempre a piano terra la presenza della stalla per il ricovero degli animali. Anzi si può dire che la stalla come costruzione stabile precede la stessa abitazione perché il contadino deve innanzitutto provvedere a garantire la custodia degli animali i quali sono uno dei suoi beni principali in quanto assicurano la forza motrice dell’aratro e il letame indispensabile per fertilizzare il terreno. L’edificio che ospita la stalla deve essere poi cresciuto in altezza, sovrapponendosi ad essa l’abitazione e di qui la necessità della scala esterna che, forse, è il «segno» più caratteristico della nostra dimora rurale. Non vi sono, tuttavia, solo strutture edilizie a due piani costituite da alloggio e stalla, ma anche fabbricati nei quali il primo piano e destinato a fienile, mentre quello terraneo ospita le bestie. Si tratta di edifici specialistici, che si distinguono pure architettonicamente (perché hanno il tetto ad una falda) dall’edilizia di base, quella residenziale, perché sono monofunzionali, ma anche dagli altri edifici specialistici, come le chiese e i castelli che non costituiscono tipologie ripetibili in quanto strutture «personalizzate» di cui si conosce, a volte, l’autore, la datazione, ecc.. Solo in epoca recente si riprende la medesima distinzione in edifici diversi dei vani per il ricovero degli animali dall’abitazione dell’uomo con la distribuzione in più fabbricati di residenza, stalla, locali per la lavorazione dei prodotti, fienile (il quale è, di solito, una semplice tettoia precaria). Un’altra categoria di architettura rurale direttamente connessa con l’agricoltura è quella dei mulini. Si tratta normalmente di edifici ad un piano, ma non è infrequente trovare manufatti nei quali ai locali per la macinazione si sovrappone la residenza. Dal punto di vista percettivo sono simili agli altri tipi di edifici rurali perché le ruote del mulino sono all’interno del fabbricato e non all’esterno come si vede nei films americani. Se essi non sono particolari sotto l’aspetto architettonico, lo sono sotto quello semantico perché i mulini sono stati sempre sentiti come strutture importanti in quanto macinare era una prerogativa del feudatario nel periodo della dominazione spagnola.

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I CENTRI ABITATI SU SUOLO ROCCIOSO

Campobasso non la si può definire un centro rupestre nonostante il suo sottosuolo sia pieno di cavità utilizzate prima quali rimesse connesse ad abitazioni, quindi complementari a queste, e ora, in parte, trasformate in locali ristorativi. Soprattutto questa città manca di spuntoni rocciosi che emergono alla vista nell’agglomerato edilizio, la roccia è confinata, se così si può dire, sottoterra. Gli insediamenti che siamo abituati a chiamare propriamente rupestri nel Molise sono Bagnoli, Pietrabbondante e Pietracupa dove le cosiddette morge sono elementi dominanti dell’immagine del paese.C’è una distinzione da fare fra esse ed è che mentre a Pietrabbondante le morge, le quali sono tre, stanno al di sopra delle case, a Bagnoli dove sono 2, quella principale e la Morgia Alfiera, stanno al di sotto, costituiscono il substrato del nucleo abitato, a Pietracupa le costruzioni sorgono intorno all’unica morgia, tre, due e una.

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In verità è il capoluogo regionale a, mettendo in dubbio quanto detto all’inizio, a richiamare maggiormente la civiltà rupestre se si intende questa, quella dove gli uomini sfruttano le grotte a scopi abitativi sia pure qui gli ambienti ipogei sono semplici annessi alle residenze, cioè fondaci, cantine, ecc. e non le residenze stesse. Se, invece, per rupestre si intende non necessariamente vivere “dentro” le rocce bensì “fra” le rocce la situazione cambia, addirittura si ribalta, la “capitale” del Molise non lo è, lo abbiamo affermato al principio, un agglomerato rupestre mentre lo sono gli altri tre citati. Gira gira l’unico luogo

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molisano in cui vi sono tracce di una civilizzazione (civiltà è un po' troppo per un modo di abitare così primitivo quale era la vita che si svolgeva qui) rupicola (termine che dà più il senso del selvatico rispetto a rupestre) è la Morgia dei Briganti frequentata da ere lontanissime nelle cui tante caverne trovavano dimora povera gente, eremiti e, per l'appunto, briganti o, almeno, riparo. Gli ammassi rocciosi, al contrario pensare oggi noi che scegliamo aree piane per l’edificazione, peraltro raggiungibili con facilità, in passato si rivelavano siti interessanti per fondarvi un villaggio perché protetto dalle asperità del masso.

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Tanto ci si sente sicuri su queste emergenze lapidee che non si predispongono neanche murazioni difensive. A Pietrabbondante le pareti calcaree che sovrastano il borgo su un lato costituiscono naturali barriere di protezione. Le morge sono strategiche per la salvaguardia della popolazione anche per la loro altezza, esse infatti svettano nell’agro tutto intorno e così i loro vertici sono punti di scolta da cui avvistare l’approssimarsi del nemico. Per la grande visibilità che si gode salendo sul colmo esse sono anche dei balconi panoramici e a Pietracupa si è cercato di sfruttare tale qualità realizzando una scaletta metallica che si inerpica fin su, un’esperienza emozionante anche se finora ne è stato precluso l’accesso dovendosi ancora mettere a punto le misure per garantire l’incolumità dei fruitori. Va evidenziato che lo sfruttamento delle morge quali aree, per così dire, edificabili non è cosa unicamente del medioevo come dimostra Duronia,Tanto ci si sente sicuri su queste emergenze lapidee che non si predispongono neanche murazioni difensive. A Pietrabbondante le pareti calcaree che sovrastano il borgo su un lato costituiscono naturali barriere di protezione.

Le morge sono strategiche per la salvaguardia della popolazione anche per la loro altezza, esse infatti svettano nell’agro tutto intorno e così i loro vertici sono punti di scolta da cui avvistare l’approssimarsi del nemico. Per la grande visibilità che si gode salendo sul colmo esse sono anche dei balconi panoramici e a Pietracupa si è cercato di sfruttare tale qualità realizzando una scaletta metallica che si inerpica fin su, un’esperienza emozionante anche se finora ne è stato precluso l’accesso dovendosi ancora mettere a punto le misure per garantire l’incolumità dei fruitori. Va evidenziato che lo sfruttamento delle morge quali aree, per così dire, edificabili non è cosa unicamente del medioevo come dimostra Duronia, centro di origine pre-romana che è in rapporto con le rocce. La morgia condiziona in maniera forte la struttura insediativa che ospita, il fattore naturale si impone su quello antropico nel disegno dell’abitato, in un certo modo la natura detta le sue leggi anche in materia di forma degli aggregati residenziali. Campobasso che nasconde le sue cavità, occultandone financo le entrate, costruendo il suo nucleo medievale su di esse non la dà a vedere, ma una certa dipendenza dal sottosuolo il suo impianto urbanistico deve averla subita (le unità immobiliari di sicuro in quanto sfruttano lo spazio sotterraneo). È evidente che le dimensioni delle abitazioni popolari a Bagnoli sono in stretta relazione alla gibbosità della superficie della morgia, un singolo edificio occupa una singola gobba la quale quanto più è grande in estensione tanto più è ampio il fabbricato, se è assai estesa allora potrà contenere più moduli abitativi (il modulo base è quello unicellulare); esclusivamente i palazzotti signorili per la cui esecuzione ci si può permettere un impegno realizzativo superiore si impostano su più convessità del manto roccioso magari livellandole, è difficile trovare particelle in cui il suolo spiana. L’accidentalità del terreno fa sì che i percorsi viari cittadini, oltre che le tipologie architettoniche, siano caratterizzati da una notevole irregolarità, alle volte un dedalo. Il deflusso delle acque a seguito di precipitazioni atmosferiche intense è governabile con difficoltà non potendosi contare sull’assorbimento da parte della terra data l’impermeabilità della roccia. Quest’ultima, in aggiunta, è riflettente i raggi del sole perché biancastra, è calcarea, per cui nelle ore di luce quando il cielo è sgombro da nubi, si ha un aumento locale della temperatura dell’aria più consistente nelle giornate di calura estiva. Dato il substrato lapideo è difficile che, nei pochi angoli liberi, possano crescere piante le quali avrebbero potuto assicurare l’ombreggiamento e neanche che vi siano orti e giardini. Vi è un disagio nell’abitare su roccia anche per lo sforzo che richiede la realizzazione dei sottoservizi, condotte idriche e fognarie in primis con buona pace dei propugnatori dell’Architettura Organica teorizzata da Bruno Zevi. Le zone di espansione sono esterne alla morgia, si sviluppano su un soprasuolo “normale”. Si ha un’autentica discontinuità tra il polo originario e le sue appendici anche dal punto di vista estetico, forma delle case e delle strade. Trattandosi di piccoli centri nei quali la crescita urbanistica è contenuta predomina nell’immagine dell’insediamento la porzione rupestre. Tale riconoscibilità fa sì che essi si distinguano nel panorama insediativo regionale e per i loro abitanti questa insolita morfologia dell’insieme abitativo costituisce un fattore identitario, se non di orgoglio, favorendo il senso di appartenenza.

I muretti a secco

In tempi di revisionismo storico non è uno scandalo rivalutare anche l’ancien régime, almeno per quanto riguarda le regole in essere durante il feudalesimo che consentivano lo sfruttamento condiviso di alcune risorse territoriali. L’ “antico regime” venne spazzato via dalla Rivoluzione Francese in ossequio ai principi di uguaglianza, fraternità e libertà, ma anche per l’avvento del Capitalismo. Quest’ultimo richiede che vi sia la proprietà privata dei terreni per favorire l’accumulo del capitale per cui le terre che appartenevano al demanio, sia pure feudale, vennero “confiscate” al feudatario e distribuite fra i componenti dell’Università dei cittadini dal che ne discende la pratica dell’enclosure, recinzione dei campi, la quale, nei libri di testo liceali, dà inizio alla Rivoluzione Industriale. Dunque i muretti o le siepi o le alberature di delimitazione degli appezzamenti agricoli consentendo lo sfruttamento individuale del terreno, del quale si entra in pieno possesso, costituiscono una limitazione allo sfruttamento collettivo dei beni del territorio. Io ho il mio podere ma sono escluso da tutto il resto, forse non è un grande affare. Piuttosto che un segno di libertà, di liberazione dall’oppressione baronale, i muri di confine appaiono simbolo di individualismo che dal campo economico si estende a ogni altro aspetto della società, addirittura al suo sistema di valori, con la perdita dello spirito comunitario. Dal punto di vista strettamente produttivo la piccola proprietà contadina si è rivelata un insuccesso, finalizzata com’era quasi esclusivamente all’autoconsumo; il "podere", l'unità minima della ripartizione fondiaria, ha rappresentato un elemento che ha ritardato piuttosto che favorito lo sviluppo delle campagne, tanto che a partire dalla seconda metà del secolo scorso si è promossa, qui da noi purtroppo senza successo, la nascita di cooperative per la gestione in comune del suolo agrario.

Tutto questo ragionamento, è maturo il momento di svelarlo, per dire semplicemente una cosa che è la seguente: le macere, così si chiamano in dialetto molisano, quei muri a secco bassi e continui che arricchiscono il paesaggio agrario non sono manufatti senza tempo bensì hanno una dotazione precisa risalendo all'inizi del XIX secolo. Antropologicamente parlando non rivelano tali divisioni, traslandole da fatto fisico a fatto mentale, l'animo profondo di questo popolo, la sua visione del mondo, la sua weltanschaung direbbero i filosofi tedeschi, sono il derivato di una certa fase della nostra storia. Ovviamente ci deve essere sempre stata una tendenza ad accumulare le pietre che si rinvengono durante l'attività di dissodamento, di spietramento dei fondi, ai bordi della particella. Si possono confondere, ma mica tanto, i muretti di delimitazione degli appezzamenti agricoli e quelli che sostengono i terrazzamenti: sono due fattispecie di manufatti differenti più che per l'aspetto per la funzione che svolgono. Ci sono, poi, i muretti di contenimento, a monte, e di supporto del rilevato, a valle, delle aie circolari presenti sul versante della montagna soprastante Roccamandolfi, davvero singolari. Lasciando l'agricoltura e spostandosi sulla pastorizia vediamo l'utilizzo della pietra senza legante per due scopi, l'uno la delimitazione degli stazzi, l'altro per la costruzione di dimore pastorali delle quali un bell'esemplare della tipologia classica a capanna sta ai piedi di Tre Finestre e mentre esempi di ricoveri del tipo trulliforme stanno nell'Alto Molise. In pianura c'è meno materiale lapideo per realizzare muretti, ma pure se ci fosse stato i muretti oggi sarebbero scomparsi, non per l'assenza di manutenzione come succede nelle zone montane bensì perché sarebbero stati di ostacolo alle lavorazioni meccanizzate. Per la stessa ragione, quella della meccanizzazione agricola, nelle piane sono scomparsi anche gli alberi isolati rappresentativi della cosiddetta coltura promiscua soppiantata ora dalle monocolture. Si avverte, stiamo passando ad un altro argomento comunque sempre connesso al tema dell'evoluzione del paesaggio agrario, relativo alla componente vegetale e non più a quella antropica.

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Ci siamo appena lamentati della scomparsa di piante e ora deploriamo il loro numero eccessivo. Per prima cosa si vuole evidenziare che negli ultimi decenni si è registrata una crescita della superficie forestale a discapito delle aree coltivate, con il conseguente annullamento di ampi tratti di paesaggio agrario. È un autentico andirivieni quello dei boschi se a finire del ‘700 Vincenzo Cuoco denunciava l'eliminazione di distese boschive da parte della gente dell'epoca per la fame di terra coltivabile, cioè la deforestazione alla quale correttamente imputava la formazione di frane, oggi stiamo assistendo al fenomeno contrario, quello di una riforestazione spontanea sugli stessi appezzamenti “deforestati”. È, ribadendo quanto detto in precedenza, un vero e proprio su e giù: i boschi si trasformano in campi e successivamente questi ultimi ritornano essere boschi. Quello che in un lontano passato era un paesaggio boscoso diventerà un paesaggio agrario che, sua volta, è la ruota della storia, la ciclicità degli eventi, recentemente sta riprendendo le sembianze di un contesto paesaggistico boschivo. Lì dove si è avuto l'avanzamento della superficie forestale le siepi e i muretti a secco sono definitivamente scomparsi lì dove resistono ancora il loro destino sembra ormai segnato, tanto in quei comprensori rurali in cui gli addetti al settore primario sono in diminuzione, le "aree interne", con conseguente abbandono dei terreni coltivati, quanto in quelle fasce territoriali in cui si è affermata un'agricoltura avanzata, si sta pensando al Basso Molise, la quale prevede l'impiego spinto di macchinario agricolo. Per favorire il passaggio di tali macchine è necessario il livellamento del suolo con l'eliminazione delle predette siepi e muretti a secco e ciò porta alla semplificazione se non alla banalizzazione del paesaggio.

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