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S. Angelo in Grotte

1. I caratteri insediativi

 

I centri storici arroccati sui colli sono tra le immagini più caratteristiche della cosiddetta Italia Minore, cioè di quella parte del nostro Paese trascurata dal turismo di massa eppure ricca di significative emergenze culturali; S. Angelo in Grotte è uno di questi centri storici isolato in cima ad una collina ben visibile dalla strada a scorrimento veloce che attraversa l’alta valle del Biferno. È un nucleo abitato che presenta una struttura compatta, formando quasi un tutt’uno con il rilievo sul quale è situato. Anzi, si può dire che è stata la particolare orografia dei luoghi a determinare la sua morfologia. L’agglomerato edilizio sembra, addirittura, parte integrante della roccia su cui è posto sia per l’uso come materiale da costruzione della pietra locale sia per l’adeguamento del suo impianto urbanistico all’asperità del terreno. Il sito dove è collegato S. Angelo in Grotte ha la forma di un promontorio attaccato da un lato alle pendici del monte sovrastante, il Pizzo della Stella, e dagli altri due lati delimitato da due compluvi; la scelta di questo luogo dovette essere stata motivata in epoca medioevale dalla possibilità di sfruttare a scopo di difesa la presenza di questi due compluvi che affiancano il promontorio e che rendono difficilmente accessibile dal basso l’abitato.

Dalla forma a promontorio del rilievo discende la morfologia urbanistica che è impostata su un percorso centrale che segue la linea di crinale. Esso può essere definito il percorso matrice dell’insediamento al quale si collegano ortogonalmente una serie di percorsi minori. Queste stradine perpendicolari alla via principale sono caratterizzate a volte dalla presenza di “supportici”, cioè di gallerie coperte ricavate svuotando il piano terra di alcuni dei fabbricati appartenenti alla schiera edificata che costeggia con continuità il percorso maggiore la quale non viene così interrotta. Tali vicoli più che destinati al transito sembrano funzionali quasi esclusivamente a consentire l’accesso alle residenze comprese nei blocchi edilizi ortogonali alla spina centrale, venendo a determinare un modello urbanistico del tipo “a pettine” il quale pettine ha i denti su ambedue i versi. Questa conformazione delle strade urbane le rende non praticabili con l’automobile, ma questo non è uno svantaggio perché può consentire una migliore vivibilità, altrove disturbata proprio dall’eccessivo numero delle auto. Il traffico è, infatti, incompatibile con la vita di un centro storico quale quello di S. Angelo in Grotte dove le abitazioni sono in diretto contatto con la strada che costituisce una specie di prolungamento di queste,

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perché la vita di relazione è prevista proprio all’esterno delle case. Bisogna considerare che qui la tipologia edilizia prevalente è quella della casa unifamiliare la quale ha un accesso diretto sulla strada, mentre dove vi sono edifici plurifamiliari è meno stretto il rapporto con lo spazio esterno. Ci sono, poi, fabbricati a S, Angelo in Grotte che presentano la scala esterna (ad esempio quella posta sullo slargo della chiesa parrocchiale) la quale è un elemento di mediazione tra il dentro e il fuori dell’abitazione. Per quanto riguarda la scala esterna va detto che se essa generalmente conferisce un carattere rurale all’edificio al quale è giustapposta, non si può dire, però, in questo caso che il centro abitato di S. Angelo in Grotte abbia connotati rustici.

quasi come scavalcare un limite temporale, da una parte il nucleo medioevale dall’altra l’espansione più recente. Si è detto della piazza prossima alla chiesa parrocchiale, ma più propriamente essa va definita slargo in funzione dell’edificio di culto al quale dà maggiore imponenza visiva permettendo la sua osservazione da una posizione arretrata; lo slargo differisce dalla piazza perché è uno spazio, come nel nostro caso, inserito in un percorso e non indipendente da esso. È singolare a S. Angelo in Grotte il fatto che sia la chiesa madre che il palazzo baronale, o meglio il sito in cui sorgeva un tempo, sono posti nei due punti estremi della strada principale: per l’assenza di un unico polo non c’è centralità o perifericità di una casa rispetto alle altre. La natura urbana

quasi come scavalcare un limite temporale, da una parte il nucleo medioevale dall’altra l’espansione più recente. Si è detto della piazza prossima alla chiesa parrocchiale, ma più propriamente essa va definita slargo in funzione dell’edificio di culto al quale dà maggiore imponenza visiva permettendo la sua osservazione da una posizione arretrata; lo slargo differisce dalla piazza perché è uno spazio, come nel nostro caso, inserito in un percorso e non indipendente da esso. È singolare a S. Angelo in Grotte il fatto che sia la chiesa madre che il palazzo baronale, o meglio il sito in cui sorgeva un tempo, sono posti nei due punti estremi della strada principale: per l’assenza di un unico polo non c’è centralità o perifericità di una casa rispetto alle altre. La natura urbana di S. Angelo in Grotte sta anche nel fatto che qui, come nei centri abitati più civili, le stalle sono spostate fuori del nucleo abitato, in una sua appendice. Queste stalle hanno una fisionomia architettonica riconoscibile perché fabbricati ad un solo piano, coperti con un’unica falda e con un recinto in pietra antistante. Con il ribadire che S. Angelo in Grotte ha caratteri urbani, non si vuol però dire che esso non sia un centro prevalentemente agricolo, ma solo che seppure oggi costituisce una semplice frazione di S. Maria del Molise, la struttura insediativa denuncia la sua origine di borgo urbano.

2. Il Santuario di S. Michele

 

Già dall’esame paesaggistico emergono alcune caratteristiche salienti di questo luogo di culto. Esso, nella parte della grotta (perché l’altra parte è nel vero e proprio edificio), è del tutto invisibile dall’esterno. L’assenza, sempre per questa parte, di qualsiasi parete esterna denuncia la segregazione della chiesa dal mondo esterno, che emana così un senso di mistero. L’estradosso della grotta non presenta alcuna traccia della chiesa che sta nella sua cavità ed è tanto più ricco di un fascino ancestrale in quanto risulta sprovvisto di scala umana. Nella parte della grotta l’anfratto che precede l’ingresso è formato dalla stessa roccia che compare nella grotta; si ha, così, una continuità morfologica tra il dentro e il fuori per cui nel percorso che introduce al luogo sacro si nota un’identità dei luoghi nel loro sviluppo interno ed esterno.

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Si stabilisce, in definitiva, una fluenza tra l’estradosso e l’intradosso che è uno dei temi centrali dell’architettura contemporanea. Tale coerenza materica e spaziale tra la caverna e la roccia in cui è inglobata evoca, insieme al senso di continuità, anche quello di ambiguità tra il dentro e il fuori che rende questo posto ancora più intrigante. L’assenza di facciata nella parte della grotta rende, poi, unitario lo spazio interno, che in qualche modo possiamo definire l’architettura, con il contesto ambientale che è una delle questioni principali della tutela paesaggistica. L’entrata della grotta che avviene attraverso un passaggio non molto largo è bloccata da una porta e, a lato di questa, ad una certa distanza vi è,

più in alto della porta, una finestrella che assicura l’aria e la luce (la quale solitamente, in tantissimi altri casi di chiese rupestri si trova sopra la porta, in asse con questa). La questione della superficie aeroilluminante non è secondaria perché questo è uno dei problemi con cui una caverna deve confrontarsi. La luce può entrarvi solo da un lato e ciò concorre ad una determinata organizzazione dello spazio. Trattandosi di una caverna poco profonda che si sviluppa parallelamente al versante è obbligatoria la configurazione della cavità quale navata illuminata lateralmente e non, mettiamo, quale chiesa a pianta centrale.

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Il dubbio che potrebbe sorgere a tale proposito è se questa cavità è stata scelta per la sua particolare conformazione che si presta a ricavarvi lo spazio di una chiesa o se tale scelta non è legata all’accidentalità geomorfologica, ma è dovuta ad altri fattori riconducibili a ragioni religiose. La risposta non può essere univoca, anche se è certo che la forma geologica è diventata parte di un progetto quando si è deciso l’ampliamento della chiesa. Sì perché la struttura naturale della cavità fu trasformata attraverso un prolungamento dello spazio verso l’esterno. In questo modo è stata ingrandita la superficie coperta offerta dalla natura. Si ha qui una soluzione diversa da quella solita adottata nelle chiese rupestri usuali dove il riparo sotto la roccia è semplicemente chiuso da una parete costruita.

Nel nostro caso siamo, invece, di fronte ad un vero e proprio ampliamento che utilizza la roccia solo come parete e non come copertura. Anche in questa parte aggiunta, comunque, è denunciata l’origine rupestre della chiesa proprio per l’affioramento lateralmente del masso roccioso. Se rimane forte all’interno di questa addizione la matrice rocciosa, nella forma esterna, invece, tende a liberarsene e ad apparire come un’architettura completamente costruita. Si nota uno sforzo costante all’interno dell’edificio ad impiegare il vocabolario proprio dell’architettura nonostante l’irregolarità del tracciato in pianta che deriva dall’irregolarità del masso roccioso retrostante e dalla necessità di avere una transizione armonica, un passaggio senza rotture, tra lo spazio naturale della grotta e lo spazio costruito.

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Nell’ampliamento vi è un invito a leggere quale nicchia, coincidendo con una campata la conformazione arrotondata della parete rocciosa. Vi è un’irregolarità nella posizione dei pilastri che porta ad accennare alla presenza di una navata laterale. Uno di essi, quello posto vicino all’ingresso, differisce pure nella forma della sezione e nella dimensione dagli altri: esso è arrotondato mentre gli altri hanno la base quadrangolare e la sua imponenza, superflua se si considera che non sostiene nulla, si rapporta alla scala della volta rocciosa soprastante. Fin qui si è parlato dell’addizione; approfondiamo adesso l’analisi delle caratteristiche della grotta. Si tratta di una caverna che si sviluppa in senso orizzontale. Essa si presenta pressoché con le medesime fattezze che doveva avere prima dei pochi, limitati interventi che vi ha operato l’uomo. Il più significativo è stato, di certo, quello della creazione del pavimento per il quale si è dovuto regolarizzare la superficie del banco roccioso che emerge dal suolo. All’esterno della grotta nelle parti non destinate al calpestio si legge la disposizione a franapoggio degli strati rocciosi, così come all’interno si vede l’affioramento della roccia appena subito dopo l’ingresso. In altri termini si può dire che l’unico luogo di culto è costituito da due parti, l’una nella quale si aggiunge materiale (l’addizione), l’altra nella quale si scava (la grotta), almeno per livellare il pavimento. Vi sono, perciò, i due gesti del togliere e del mettere ricorrenti nell’architettura

rupestre. Probabilmente era più facile il mettere che il togliere perché in passato non si disponeva di strumenti, né di tecniche idonee alla modifica interna di una cavità. Bisogna tenere in conto oltre la difficoltà tecnologica dello scavare anche la durezza del materiale di cui è formato il masso roccioso che è la pietra calcarea. Non vi è stato, pertanto, uno scavo che tentasse di liberare lo spazio architettonico della matrice rocciosa il quale perciò non può sfuggire alle caratteristiche originarie. Solo nella parte aggiunta, che è poi un’autentica architettura costruita, ci si libera della roccia con le pareti esterne arricchite da un portale e da finestre decorati in stile gotico. Per via di questo problema il modellamento dell’uomo si limita al piano del pavimento e nell’area esterna alla formazione dei gradini della scala santa, una volta incavata nella roccia e oggi diventata una scalinata vera e propria realizzata con materiali moderni. Sempre nella sistemazione esterna vediamo al di sopra della chiesa spuntare dalla roccia la parte terminale di un campanile. Quest’ultimo si lega figurativamente alla parte in addizione della chiesa, ma risulta banale se accostato alla parte in grotta. Infine, si vogliono puntualizzare due aspetti: il primo è che la chiesa in grotta è restituibile fotograficamente solo percorrendola interamente per scoprirla sotto diversi angoli, il secondo è che per la parte in grotta non ci sono problemi di conservazione perché essendo roccia calcarea essa non è soggetta ad erosione.

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3. La grotta

 

I significati che si associano ad una grotta sono molteplici. Iniziamo da una sensazione più epidermica, quella di ribrezzo per un luogo dove abitano animali pericolosi come topi, serpenti, scorpioni, un luogo sporco e umido, oltre che oscuro, nel quale si fanno lavori forzati come scavare le miniere. Vi è, poi, il senso di arretratezza e di povertà che ci ispira una cavità naturale che porta anche ad atteggiamenti di disprezzo nei suoi confronti; si usa come termine dispregiativo la parola “cavernicolo”. C’è un altro modo di sentire negativamente la caverna ed è quello di assimilarla all’oltretomba; la letteratura, vedi la Divina Commedia, e la religione relegano l’Inferno nelle viscere della terra. L’inferno è il regno dei demoni per la religione cristiana e, perciò, è ancora più pauroso dell’Ade dell’antichità greca e romana dove, dopo la morte, si va tutti scontando l’unica pena che è l’oblio.

Se la vita è la luce nella grotta, essendovi totale assenza di luce, vi è la morte. Va, inoltre, considerato che l’immaginazione è stimolata proprio dall’oscurità che, impedendo alla morte di conoscere la realtà, attribuisce una carica di mistero al posto. Luce e tenebre non sono, comunque, sempre in antitesi poiché, in un percorso spirituale, solo l’attraversare le tenebre permette di raggiungere la luce. E qui cominciamo ad analizzare la carica positiva legata alle cavità. In varie religioni la grotta riveste un importante valore simbolico ed essa è connessa al percorso di salvezza. Tra le religioni extraeuropee vediamo che per i buddisti, in particolare nella tradizione vedica, penetrare nella roccia costituisce un preciso rituale di fede. In epoca pre-cristiana il culto di Mitra si svolgeva in ambienti sotterranei. Gesù nasce in una grotta; la scelta divina rappresenta un gesto di umiltà in linea con i nuovi valori predicati dal cristianesimo. In una grotta appare la Madonna di Lourdes; l’acqua che sgorga nella caverna è miracolosa come l’acqua del pozzo che si trova nella chiesa di S. Michele a S. Angelo in Grotte dal quale attingono i pellegrini con una scodella di rame.

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Il tema dell’acqua miracolosa in un luogo di pellegrinaggio (Lourdes e S. Angelo in G.) è particolarmente significativo perché mette in luce la convinzione che tra il peccato che il pellegrinaggio intende espiare e la malattia vi sia una connessione. In genere gli asceti, di qualunque confessione religiosa, preferiscono l’oscurità della grotta per gli esercizi di meditazione. Nel periodo arcaico gli oracoli, ad esempio la Sibilla Cumana, e alcuni personaggi mitologici hanno sede in grotte, antri, ecc. In definitiva le cavità richiamano, da un lato, l’inferno, i demoni e, dall’altro, la santità. Al di là dell’aspetto religioso e dei significati fondamentali della vita e della morte vi è un messaggio più immediato che si porta con sé l’idea di caverna ed è quello di protezione. Infatti le cavità costituiscono rifugi sicuri nei quali nascondersi. In maniera traslata ciò che è sotterraneo rappresenta un riparo alle avversità fisiche ed umane. Psicanaliticamente affondare nella crosta della terra equivale ad immergersi nel ventre materno, venendo quasi avviluppati dal liquido primordiale. Entrare in una grotta ha, quindi, per certi versi il sapore di una esperienza primordiale. Proseguendo nell’esplorazione psicoanalitica passiamo ad un altro aspetto conseguente alla sensazione descritta di ritorno nell’utero materno. Durante l’esistenza fetale convivono il senso di protezione e la sensazione di assenza di individualità, formando il feto in tutt’uno con la madre. La grotta comunica un identico sentimento di avvolgimento protettivo e di perdita della coscienza di sé. In uno spazio informe, privo di luce, quale è una

caverna buia, si avverte un senso di disorientamento che induce allo smarrimento della propria identità. Nell’oscurità non si distingue la notte dal giorno e così il sonno, con i sogni che si porta dietro, dalla veglia. Scomparendo la luce scompare il legame tra lo spazio e il tempo perché si brancola nel buio senza poter rapportare le distanze al tempo e si smarriscono le dimensioni dello spazio. All’oscurità va aggiunta l’assenza di forma che è la caratteristica di una cavità naturale. La perdita della forma rende lo spazio ineffabile e nello stesso tempo infinito. Per essere intellegibile uno spazio deve seguire una precisa figura geometrica, seppure complessa, che lo rende finito e, quindi, misurabile. Quando poi la caverna è grande ed ancora di più se alta si rimane sconcertati semplicemente a causa della sua vastità

che, dal punto di vista percettivo, viene incrementata dall’assenza di forma. Riesce difficile anche descriverla come succede con un oggetto complesso che va guardato da più parti muovendosi al suo interno, così come fa un bambino di fronte ad un giocattolo nuovo. In definitiva, si può dire che una caverna genera due tipi di sentimenti che sono in contrasto fra di loro, l’uno di attrazione, l’altro di repulsione oltre a quello che si è descritto per ultimo di perdita dell’identità spaziale. Va precisato, comunque, che quando si attribuiscono delle sensazioni alle grotte, da quella di “orribile” a quella di “intima”, si fa un’operazione di, per così dire, traslazione di quanto sentiamo noi alle cose inanimate alle quali ci riferiamo che, ovviamente, di per sé sono prive di emotività.

Passiamo ora ad un campo diametralmente opposto a quello sul quale ci siamo soffermati fino ad adesso, che è un campo di natura psicologica, per affrontare il tema della funzionalità dello spazio sotterraneo. Innanzitutto, dobbiamo dire che dal punto di vista storico c’è stata una evoluzione nell’utilizzo delle cavità: mentre nell’epoca del nomadismo le grotte venivano utilizzate così come si trovano in natura, con l’era della sedentarietà le grotte, da semplici ripari naturali, si trasformano in cavità «costruite», con l’aggiunta, magari, di una parete di protezione dall’esterno. Si può dire che, a seconda delle epoche storiche e delle civiltà, la caverna è stata considerata habitat permanente o stagionale. Va poi considerata, l’importanza delle grotte, come nel caso di quella di S. Angelo in Grotte, quando al loro interno vi è un pozzo.

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Durante tutto il corso della storia le cavità sono sempre state sfruttate per esigenze difensive o utilitarie o a scopo rituale. Infatti anche per le chiese scavate nella roccia vi sono motivazioni contingenti, cioè l’adattarsi ad una situazione naturale favorevole. Da quando l’uomo ha incominciato a costruire le case il sottosuolo è stato spesso integrato con le abitazioni, destinandolo a cantina, rimessa, ecc. sia che la grotta sia presente nel sito di edificazione della casa sia che essa si trovi nelle sue prossimità. Per queste cavità usate per fini domestici o quali semplici ricoveri non vi è alcuna intenzionalità architettonica, impiegate come sono “tal quale”, mentre nelle chiese rupestri vi sono, a volte, dei definiti caratteri stilistici. In epoca recente gli ambienti sotterranei si sono ampliati per via delle nuove tecniche di scavo ed ormai è diventata una costante la presenza di garages ricavati sotto il piano di campagna.

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Cominciando da Leonardo da Vinci che concepì la differenziazione per livelli del traffico urbano, che già costituiva un problema nel XVI secolo in città come Milano, si è sviluppato un sempre maggiore interesse allo sfruttamento in profondità del territorio, liberando così la superficie della città, tanto preziosa, da attività che sottraggono spazio. Oltre alle metropolitane, in molte città europee ed americane vi sono centri commerciali ricavati nel sottosuolo, che non si distinguono, comunque, per caratteri architettonici da quelli costruiti all’aperto. Generalmente, le linee di trasporto metropolitane, i centri commerciali, le sale cinematografiche, le palestre, i parcheggi sono integrati fra loro, come spazi concatenati l’un l’altro, a formare una sorta di megastruttura ipogea. Se questi sono le punte estreme più avanzate dell’architettura sotterranea vi sono casi più modesti di strutture ubicate nel sottosuolo, dai rifugi atomici ai tanti pub e tavernette nei quali le emergenze rocciose affioranti sono esibite quali effetti

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attraenti. Una teorizzazione compiuta della città completamente artificializzata come quelle sotterranee si è avuta con l’architetto italiano Paolo Soleri che in Arizona ha immaginato la creazione di una comunità insediata in un ambiente privo di contatti con il mondo esterno, attraverso tecnologie che permettono di controllare le condizioni climatiche. In questo filone si inseriscono gli studi sull’architettura bio-climatica. Partendo dalla considerazione che la caverna, insieme a proteggere dai nemici esterni, protegge dal freddo, è stata approfondita la conoscenza dell’habitat sotterraneo. Già a 5 metri di profondità è possibile trovare una temperatura costante tutto l’anno e pertanto il suolo costituisce un’ottima coibentazione termica. La natura non va solo imitata, ma vanno ottimizzate le sue potenzialità, anche attraverso il dosaggio delle aperture e, quindi, la circolazione dell’aria. È possibile nelle cavità perseguire l’indipendenza energetica dell’edificio. La natura nelle strutture ipogee viene utilizzata così con il minimo sforzo.

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4. Il culto dell’Arcangelo

 

 

Per comprendere la fortuna di S. Michele e quindi l’importanza che danno i santuari a Lui dedicati occorre premettere alcune considerazioni che sono valide per l’intera area meridionale. S. Michele come S. Nicola era ritenuto un taumaturgo e la taumaturgia era la caratteristica della santità preferita dal cristianesimo meridionale, caratteristica successivamente riconosciuta anche ad altri due santi, S. Rocco e S. Antonio da Padova. Si tratta di una taumaturgia che vede i santi capaci di proteggere, in primo luogo, dalle forze ostili della natura come i terremoti, gli incendi, ecc. (anche se per S. Nicola l’interesse è più verso la salvaguardia dalle minacce politiche e sociali, cioè dalle minacce prodotte dall’uomo). Una taumaturgia, quindi, non legata ad una grazia

individuale, quale potrebbe essere una guarigione o il ritrovamento di un disperso; il miracolo, poi, non avviene per interposta persona, con il santo che intercede la grazia presso il Padre Eterno, ma direttamente viene effettuato dal santo invocato. Il taumaturgo, cioè, il santo miracolante (sia egli intercessore di grazie sia dispensatore di miracoli “in proprio”) si distingue dal santo, invece, edificante che viene offerto ai fedeli dalla Chiesa per mostrare ed insegnare loro le virtù del cristiano. Va, poi, precisato in relazione alla dimensione taumaturgica di S. Michele che a Lui essendo un Arcangelo e, perciò, una creatura celeste non possono venire attribuiti miracoli in vita come avviene per i vecchi santi, ma miracoli assimilabili a quelli post-mortem che sono diventati oggi quelli più facilmente riconosciuti dalle autorità ecclesiastiche.

Passiamo ora ad un’altra questione che è quella dell’aumento numerico delle canonizzazioni da quattro secoli a questa parte, cioè dal Concilio di Trento in poi per l’esigenza di intensificare i modelli di fede da portare ad esempio ai cristiani. Questo incremento non ha, però, prodotto l’effetto di diminuire l’importanza dei santi più antichi come S. Michele e la devozione verso di loro, nonostante la “concorrenza”, non si riduce. Per quanto riguarda S. Michele va notato anche la permanenza del culto dei santi del Vecchio Testamento, quali sono gli Arcangeli, costituisce un’eccezione nella Chiesa cattolica che è di tradizione latina, mentre rimane

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forte nella tradizione greca per gli inevitabili rapporti con la Chiesa ortodossa; devono avere influito in qualche modo nella conservazione del forte attaccamento alla figura di S. Michele nel Sud d’Italia anche gli effetti della dominazione bizantina in quest’area. Il radicamento dei santi del passato nella fede popolare è legato spesso all’azione dei grandi ordini monastici ai quali essi appartengono (i francescani, i benedettini, ecc.) che in molti casi si rivelano più influenti delle diocesi; la fortuna di S. Michele, invece, appare del tutto autonoma rispetto al centro monastico del Santuario micaelitico del Gargano è più legata alla vita religiosa spontanea.

Anzi per S. Michele si può parlare di una modificazione di qualche divinità precristiana ricondotta ai moduli della religione cristiana (si veda la diffusione, rimanendo nel Sannio, della venerazione per Ercole, un semideo, metà uomo e metà dio, tale e quale agli angeli, che brandisce una spada come fa S. Michele). Se questo di debellare le credenze di derivazione pagana, riportandole ai canoni della religione cristiana, fu lo sforzo della prima chiesa, in seguito, dal periodo post-tridentino al Concilio Vaticano II, esso cambiò obiettivo spingendo verso la creazione di nuovi rituali, anche trasformando alcune pratiche religiose antichissime. Il pellegrinaggio, sentitissimo da sempre verso il santuario di S. Michele, è uno di questi, insieme a nuove pratiche religiose, dalla venerazione delle reliquie (inventate o meno come quelle di S. Liberato a Roccamandolfi), alle processioni, alle indulgenze, ai fioretti, tutti elementi peculiari della confessione cattolica diventata, ormai, un insieme di regole codificate e stringenti che lasciavano poco spazio alla spontaneità delle comunità locali.

A proposito della processione che si svolge tra il centro abitato e il santuario si osserva che viene portata a spalla la statua di S. Michele riscontrando che anche qui, come nella maggioranza dei casi, la statua prevale sul dipinto sacro. Statua e dipinto, comunque, rispondono entrambe all’esigenza, universalmente sentita nella popolazione meridionale, della materializzazione del santo nell’immagine, una materializzazione tanto più singolare nel caso di S. Michele in quanto egli essendo un angelo è, per antonomasia, “puro spirito”. Nonostante ciò la materializzazione è imprescindibile poiché l’antropomorfismo risponde al desiderio di un rapporto personale con il santo. La statua, come del resto un dipinto, è, inoltre, una raffigurazione monotematica del santo in cui la sua figura viene stilizzata riducendola ai suoi significati essenziali con il rischio, però, di perdere la complessità dell’ideale della santità. All’opposto vi è la raffigurazione ciclica, cioè la vita del santo rappresentata in varie scene, che se, da un lato,

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permette di mostrare più tratti della personalità del santo può però scadere in un eccessivo didascalismo ed elementarietà. L’immagine di S. Michele che scaccia il demonio essendo un atto altamente simbolico non contiene un messaggio edificante particolare, ma conserva alla sua santità un valore generale e, in questo senso, non necessità di raffigurazioni puntuali esplicative. Trovandoci a S. Angelo in Grotte non si può non far cenno, avendo parlato, di cicli pittorici agli affreschi presenti nella cripta della chiesa parrocchiale, che, però, non sono agiografici, ma vogliono illustrare alcuni contenuti del messaggio evangelico. Si è fatto cenno ai pellegrinaggi, ora ci soffermiamo sul santuario. Generalmente le chiese di S. Michele sono ricavate nella roccia e anche questo ci conferma la derivazione di questo culto da credenze antichissime.

L’animismo attribuiva alle pietre e alle grotte significati misteriosi. La divinità si identifica con elementi della natura per cui alcuni luoghi, come certe caverne, sono sentiti quali luoghi sacri. Con il cristianesimo si ha una identificazione tra sacro e santo per cui il luogo è sacro in quanto permette di comunicare col santo. La grotta di S. Michele, idealmente quella in cui l’arcangelo sprofondò il diavolo nell’inferno, per il fedele è, perciò, il posto dove incontrare il proprio protettore e, pertanto, la sacralità viene personalizzata. Lasciando queste questioni ci intratteniamo adesso sulla popolarità di S. Michele utilizzando diversi indicatori. Il primo è la diffusione quale nome proprio del nome Michele: i nomi Michele, Angelo, Arcangelo (usato a Colledanchise) o, uniti insieme, Michelangelo e Angelo Michele sono frequentissimi qui da noi.

Se questa era l’onomastica, in riferimento agli eponimi (il secondo indicatore) vediamo che nel Molise vi sono 3 centri abitati che si chiamano Sant’Angelo, del Pesco, Limosano e in Grotte, ma solo in quest’ultimo la denominazione è legata alla presenza della chiesa. Va, poi, puntualizzato che S. Michele così come non ha una sua specializzazione in qualche particolare campo d’azione (mettiamo gli animali come fa S. Antonio Abate, la pestilenza di cui si occupa specificamente S. Rocco e così via) non ha un suo delimitato ambito territoriale di pertinenza, almeno nella nostra regione la quale è interamente ricompresa nel raggio di influenza del santuario di Monte S. Angelo. Il terzo indicatore è l’adozione dell’Arcangelo da parte di un comune quale patrono. Insieme a S. Nicola di Bari, S. Rocco, S. Giovanni Battista, S. Antonio di Padova e insieme alla Madonna, o meglio a S. Maria, è il patrono più frequente. L’assunzione patronale di S. Michele in molti comuni è avvenuta nell’epoca più antica ed ha resistito anche alla nuova fioritura di patronati avvenuta dopo il Concilio di

Trento (egli non è il solo: si pensi a S. Giacomo rimasto patrono di Roccamandolfi anche successivamente all’acquisizione delle reliquie di S. Liberato). Nel periodo recente si è avuta una sostituzione del santo patrono proprio nel comune di S. Maria del Molise, un tempo di S. Angelo in Grotte che agli inizi del ‘900 ha scelto come patroni, cambiando sede del centro comunale, Filippo e Giacomo, quindi un doppio patronato con una delle coppie canoniche di santi (altre sono Cosma e Damiano, Pietro e Paolo, ecc.). Il cambiamento del nome, si osserva per inciso, da S. Angelo in Grotte a S. Maria del Molise, che è l’unico caso nella nostra regione di Comune con il nome femminile, ci comunica anche un altro cambiamento importante quello del tributo alla santità femminile, anche se limitato alla Madonna. Infine, si affronta il problema centrale del rapporto tra S. Michele e S. Nicola di Bari, particolarmente significativo perché si tratta dei due culti più antichi e diffusi nel meridione. Essi, a tratti, sembrano addirittura sovrapporsi; S. Michele e S. Nicola

si festeggiano in due giorni contigui, rispettivamente il 7 e l’8 maggio, e vi sono casi in cui le chiese ad essi dedicate sono prossime: vedi Lucito dove i ruderi di S. Angelo in Altissimis sono vicini alla chiesetta rurale di S. Nicola.Tutto ciò fa pensare ad un incontro tra i due culti, l’uno, quello di S. Nicola, più antico poiché di origine bizantina che risale la Penisola e l’altro, portato dai Longobardi che avevano scelto S. Michele, un santo guerriero, come protettore, la ridiscendeva. Questi due culti sembrano trovare un contatto proprio nel Molise che è ai margini della Longobardia Minore e confinante con il Gargano. Se utilizziamo ancora quale indicatore il patronato e guardiamo l’intero meridione vediamo che i Comuni che hanno come patrono S. Michele sono concentrati in un’area che abbraccia il Molise e la penisola garganica.

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