1. La nascita dell'industria
Alla fine degli anni ’60 l’Italia cominciò a cambiare direzione nel campo industriale. Fino ad allora non si era pensato ad altro che a creare nuove industrie, non importa se avessero congestionato le città del Settentrione, che erano il luogo bello pronto per l’installazione di attività produttive in quanto dotate di arterie di grande comunicazione, linee elettriche capaci di soddisfare le richieste della produzione, e così via. Stavano per terminare gli anni del “boom economico” che si concluderanno definitivamente con la crisi petrolifera del 1972. In quel tempo era considerato non solo prioritario, bensì urgente, sostenere lo sviluppo delle imprese, a qualsiasi costo, senza guardare troppo per il sottile. Il Paese doveva proseguire lungo la strada del rilancio dell’economia la cui prima fase è stata quella della Ricostruzione post-bellica; non bisognava porsi dei dubbi e nessuno li esprimeva seppure li nutrisse. Le perplessità erano solo quelle degli urbanisti per una crescita esponenziale delle aree urbane nelle quali era affluita popolazione del Sud che aveva trovato impiego nelle fabbriche e dove l’inquinamento ambientale dovuto all’emissione dei fumi dalle ciminiere cominciava ad avvertirsi. Forse questa situazione al limite, che stava, cioè, diventando insostenibile è ciò che spiega una certa inversione di rotta, quella di puntare all’industrializzazione del Meridione. Da qui, peraltro, provenivano le masse operaie che lavoravano nelle aziende settentrionali e, quindi, lo spostamento degli stabilimenti nel Mezzogiorno era funzionale anche a ridurre l’emigrazione, questo era, ed è, seppure in forme diverse, un problema atavico che aveva preso avvio alla fine del XIX secolo e che non si era del tutto risolto, se parliamo dei flussi migratori diretti verso l’estero, neanche con l’offerta di occasioni lavorative nel “triangolo industriale”, una semplice valvola di sfogo.
Non è pienamente soddisfacente la spiegazione, per alcuni circondari meridionali in cui vi era una forte disoccupazione che poteva dar vita a fenomeni di criminalità, ad esempio la Campania, che l’occupazione fornita dalle unità produttive, servisse a porre un argine a ciò; la nascita dell’Alfa Sud di Pomigliano d’Arco, proprietà delle Partecipazioni Statali, risponderebbe a tale logica. Ancora di più, almeno in parte, non è condivisibile la rivendicazione del merito, per così dire, del trasferimento di industrie da su a giù, come la Fiat a Termoli, da parte dei rappresentanti politici di un dato territorio, nel nostro caso della cittadina adriatica la cui amministrazione era guidata in quel tempo dal prof. Girolamo La Penna, un politico di spicco. In generale, non si può dire che abbia condizionato particolarmente le determinazioni il calcolo elettoralistico, quanto piuttosto un disegno strategico. Con la vicenda della Fiat, che tutt’oggi è la principale realtà produttiva del Molise, siamo entrati nel tema della formazione di un consistente settore secondario qui da noi. Formazione vera e propria perché in precedenza erano davvero sporadiche le presenze industriali nella regione. Le entità aziendali maggiori erano tutte del comparto agroindustriale; preesisteva il pastificio La Molisana che aveva una tradizione industriale notevole legata alla città di Campobasso che con il grano ha un lungo rapporto trovandosi al centro del medio Molise il quale ha sempre avuto una vocazione cerealicola ed erano di poco precedenti lo Zuccherificio e il Conservificio discendenti indiretti o parenti collaterali, ma comunque stretti, della grandiosa opera di bonifica che aveva “redenti” i terreni del Basso Molise sui quali erano impiantate le colture, le barbabietole da zucchero e i pomodori. Di sicuro, c’erano pure altre imprese di trasformazione, ma di minore rilevanza. In definitiva, in quel lontano 1970 se non eravamo all’anno zero, poco ci mancava: è questa la data fatidica in cui si può collocare l’ingresso nel mondo industriale della regione, in verità vi si affaccia appena. Per il Molise costituisce la prima industrializzazione, mentre altrove, nella fascia superiore della nazione, in quel medesimo arco temporale si dà già avvio alla seconda (e poi alla terza quindi alla quarta, industria 4.0). L’industrializzazione va ad interessare un territorio vergine nel quale è forte il carattere agricolo per cui i molisani quello stesso capannone che al Nord era ormai una cosa “acquisita”, accettata nel modo di sentire collettivo, dovette sembrare come un oggetto singolare, alla cui visione non erano abituati.
Seppure rimase per un po’ lo stupore negli occhi dei corregionali non si fece resistenza, bensì si stabilì una convivenza pacifica con quelle inconsuete sagome. Divennero familiari, insieme ai grandi volumi pure gli sfiatatoi, gli sbuffi di vapore, la ragnatela di tubi messi in bella vista negli opifici chimici. L’Agglomerato Industriale della Valle del Biferno ha ben tre stabilimenti di questo tipo, classificati “industrie a rischio di incidente rilevante”, una sorta di piccolo distretto chimico, sulla cui pericolosità l’opinione pubblica è stata sensibilizzata solo recentemente da forze che si sono opposte al progetto proposto di ampliamento di uno di essi, la Momentive. Non è una questione di prima o seconda industrializzazione (che traslate nello spazio sono, comunque, coeve per quanto detto) la preoccupazione dell’impatto ambientale delle opere che si manifesta oggi, per entrambe, per l’affermarsi nelle comunità di una coscienza ecologica. Per tale aspetto, dunque, le fasi, la numero 1 e la n. 2, si assomigliano perché pur se avvengono in zone differenti sono contemporanee. La “nostra” prima industrializzazione si presenta migliore della loro prima industrializzazione (il partire in ritardo può avere risultati positivi) la quale ultima ha rappresentato un momento convulso per quella fretta di mettere in moto continue iniziative imprenditoriali, a volte in maniera scoordinata, disordinata, lo si è descritto al principio, che aveva nei decenni ’50 e ’60 la società italiana. L’industrializzazione che si voleva esportare al Sud, facendo tesoro dell’esperienza, compresi gli errori, di quanto avvenuto al Nord doveva essere, invece, pianificata per cui fu anticipata da una serie di lavori di infrastrutturazione, innanzitutto la strada a scorrimento veloce, un tratto è la Bifernina, che collega i poli produttivi, di Pozzilli, Campochiaro e Termoli, che vengono dotati di servizi appropriati, quindi di una “preindustrializzazione”. Rispetto alla prima industrializzazione che ha riguardato il Nord Italia, quella nostrana differisce anche per il non avere quale ubicazione di riferimento la collocazione urbana. Il bacino di manodopera non può coincidere qui con un singolo centro, neanche con uno dei principali poiché hanno tutti una consistenza demografica ristretta. È su una base comprensoriale che si riesce a raggiungere la soglia di individui da occupare in fabbrica. Questo territorio ha il più alto indice di ruralità della nazione e ciò ha portato, qualche imprenditore, fu una caratteristica della Pantrem, ad introdurre il sistema del lavoro a commessa a domicilio nelle tante case sparse della campagna molisana, svolto dalle donne. C’è anche l’operaio mezzadro che alterna i turni lavorativi in azienda con le pratiche agricole, una modalità consentita dalla struttura famigliare delle microimprese.
La transumanza fu abolita nel 1805 per il prevalere delle teorie propugnate dai Fisiocrati, studiosi aderenti ad una corrente di pensiero economico che sosteneva la primazia del settore primario (appunto), inteso coincidente esclusivamente con l’agricoltura e non pure con la pastorizia il cui principale prodotto, la lana, era destinato all’industria tessile, l’antesignana delle attività industriali con cui si iniziò l’era dell’industrializzazione. In altri termini, le pecore transumanti non fornivano un contributo, in quanto questo tipo di pratica pastorale non era finalizzato alla crescita di agnelli da destinare al macello né alla fornitura di latte per la trasformazione casearia, se non in modo residuale, al cruciale problema di dover sfamare la popolazione che era salita considerevolmente negli ultimi decenni del XVIII secolo, un fenomeno che aveva interessato tutta la Penisola; le greggi che si spostavano dall’Abruzzo alla Puglia lungo i tratturi venivano considerate appartenenti al settore economico secondario e non a quello primario, cosa che oggi ci appare paradossale. C’era una corsa selvaggia a recuperare terre da coltivare anche disboscando interi versanti con conseguente innesco di frane, cosa che lamentava accoratamente Vincenzo Cuoco nei suoi scritti. Le uniche colture che venivano impiantate erano quelle cerealicole, pure in zone poco adatte quali quelle di altitudine (a S. Massimo si coltivava in località Pianelle, poco più basso di Campitello), perché capaci di “riempire lo stomaco”.
La maggiore produttività per ettaro era data dal granoturco, nella varietà importata dalle Americhe, il quale, in contraccambio, provocava la pellagra. Su questa strada avviata durante la dominazione francese si proseguì a lungo, fino agli anni ’60 del 1900, intensificandosi tale orientamento agricolo con il regime fascista, con Mussolini nelle vesti di mietitore che lanciava la «battaglia del grano». Per quanto riguarda il Fascismo bisogna rilevare che per aumentare la superficie coltivabile non si procedette a disboscamenti, anzi si proseguì l’azione di forestazione avviata appena dopo l’Unità d’Italia con i rimboschimenti di conifere conosciuti come «boschi dell’impero» (Castelpetroso, Macchiagodena, ecc.); si puntò, invece, alla bonifica, in effetti, integrale delle pianure (iniziando dalla Pianura Pontina) paludose, tra le quali vi erano anche quelle della fascia costiera molisana, per incrementare il suolo agrario. Questo sforzo dovette giocoforza essere incrementato nella fase di isolamento del nostro Paese a livello internazionale con la dittatura che fu costretta a proclamare l’Autarchia. Per una nazione come quella italiana che già prima, nonostante l’impegno notevole per aumentare la produzione granaria doveva importare questo cereale dall’estero, il blocco delle esportazioni da parte degli altri Stati fu un colpo grave. Si segnala il caso perché emblematico di un bastimento carico di granaglie al quale non fu consentito dalle autorità statunitensi di poter raggiungere il porto di Napoli dove era atteso vanamente dai camionisti del Pastificio Guacci che lo aveva pagato in anticipo. Si era detto poco fa che il momento di svolta della situazione furono gli anni intorno al 1960 che erano, poi, quelli del “boom economico”. Si può considerare questo periodo quello della affermazione definitiva di una nuova agricoltura legata ad una serie di innovazioni sia organizzative, sia tecnologiche, sia infrastrutturali (dalla Riforma fondiaria, al credito agrario, ai concimi e diserbanti chimici, alla meccanizzazione, alle dighe, alle strade interpoderali) le quali hanno portato, per quel che qui interessa, per il ragionamento che si intende sviluppare, ad una maggiore disponibilità di derrate alimentari. Il merito lo si deve attribuire anche ai progressi fatti nel campo dell’istruzione, a cominciare dalla creazione della “cattedra ambulante di agricoltura” del 1812 voluta da Raffaele Pepe, fino alla nascita dell’Istituto Agrario di Larino che è il capoluogo di uno dei comprensori a più forte vocazione agricola della regione e, in seguito, però andiamo molto oltre la data del 1960, della Facoltà di Agraria; un contributo alla diffusione delle conoscenze lo diedero pure la stampa, il libriccino di F. Tommasi di Spinete sull’“erba lupinella” e quindi sulla rotazione delle colture, e le prediche dei preti (il parroco Giampaolo a Montagano invitava a piantare alberi da frutta).
Il contadino deve essere colto, specie ora. La fame era stata eliminata, ma l’uomo degli anni d’oro dell’economia italiana non vuole solo il pane, vuole anche il companatico. Gli stili di vita della classe media che ormai è maggioranza nel Paese seguono i modelli di consumo di società più avanzate; la carne diventa accessibile per tutti tanto perché i redditi sono cresciuti quanto perché gli allevamenti, specie avicoli e suinicoli, si sono moltiplicati con i capannoni zootecnici che adesso ingombrano diversi angoli del paesaggio molisano. Il prezzo della carne che assumiamo quale simbolo delle abitudini alimentari dei baby boomers e delle generazioni uscite dal secondo conflitto mondiale è molto inferiore al passato dove, per quanto spiegato prima, la zootecnia era un’attività secondaria nel mondo agricolo per cui il costo del chilo di fettine, costolette, ecc. era assai alto. Si è trattato di un’autentica rivoluzione agricola, la seconda in età moderna dopo quella che avvenne con la cessazione della transumanza. Oggi stiamo entrando in una fase che si può definire la terza rivoluzione agricola che, per certi versi, è la prosecuzione, o meglio intensificazione, della seconda: i gusti della gente si fanno sempre più “sofisticati”, non è più la quantità, carne o farinacei che siano, siamo perennemente a dieta, bensì la qualità che conta, in termini di sapori, di genuinità, di salubrità. Anche per la diffusione della coscienza ecologica, inoltre, si preferisce il cibo a “Km. 0”. Vi è una riscoperta dei prodotti tipici, specie di quelli locali con il “saccheggio” dei “giacimenti” enogastronomici, cioè delle produzioni agricole tradizionali. Nello stesso tempo, quasi paradossalmente, le persone si allontanano dagli ambiti rurali in cui vi sono i piccoli borghi, salvo che nel tempo libero farvi capolino, e vanno a risiedere nelle cittadine. Non è un male a condizione che si riesca a ricostruire quel rapporto storico tra città e campagna, carattere identitario dell’“Italia dei Comuni”, che porta beneficio a entrambe, la campagna trovando nel centro urbano il mercato di sbocco (i banchi di vendita del Mercato Coperto di Campobasso) dei suoi prodotti e quest’ultimo avendo il vantaggio di potersi alimentare con produzioni agricole del posto, non con cibaria massificata sul cui livello qualitativo non si ha alcun controllo. Nei decenni passati si stava perdendo definitivamente tale legame per un duplice ordine di ragioni: da un lato, il fatto che si è conferito il prodotto a filiere di scala sovraregionale e, dall’altro lato, ha influito e, purtroppo continua a farlo, l’urbanizzazione diffusa nel territorio periurbano (abusiva sia pur condonata) che ha provocato la autentica cancellazione della Campagna Campobassana, ad esempio, un tempo rinomata per le sue produzioni, e l’espansione urbanistica che ha inglobato la cintura degli orti la quale circondava i perimetri cittadini con i suoi prodotti freschi che dovevano essere smerciati subito nell’agglomerato vicino.
3. I prodotti agricoli tipici
Nel Molise si avverte una sorta di dissociazione tra i prodotti tipici e i paesaggi dai quali derivano. Si prenda il caso della Tintilia, vitigno ormai diffuso in diverse parti del territorio regionale e che, in origine, costituiva una peculiarità della zona centrale della regione. Le vigne, in genere, erano presenti principalmente nel Molise interno, mentre oggi la produzione vitivinicola maggiore è quella della fascia costiera, a cominciare da Campomarino con la cantina Di Maio Norante. Prima la coltivazione dell’uva era limitata a ridotti appezzamenti di terra dentro l’unità aziendale, destinata com’era, in prevalenza, all’autoconsumo e il sovrappiù al commercio, e adesso vi sono aziende dedicate esclusivamente al settore enologico nelle quali i vigneti hanno assunto dimensioni assai vaste. Ciò si traduce, è evidente, in un cambiamento significativo nelle vedute panoramiche. La specializzazione produttiva con il vino che è diventato in quelle aree quasi una monocoltura si associa ad una semplificazione dei caratteri percettivi alla quale alcuni imprenditori, a cominciare dalla famiglia Mogavero nella tenuta Colle Sereno, hanno cercato di porre rimedio piantando filari di alberi tra i filari, per l’appunto, delle viti. Questa impresa agricola che è situata nel comune di Petrella Tifernina, quindi non nel Basso Molise, bensì in un comprensorio, il Medio Molise, vocato da sempre alla coltura del vino è esemplificativa del processo di intensificazione, perciò non creazione ex-novo, della coltivazione della vite, partendo da un nucleo preesistente, fatto che è ricorrente in differenti comprensori collinari della regione, vedi il vigneto della ditta Valerio a Monteroduni.
Un analogo discorso, quello della separazione tra le tipicità dei prodotti e le specificità dei contesti paesaggistici nei quali vengono prodotti, riguarda il comparto oleario. Vi è un’eccezione ed è rappresentata dagli ulivi di Venafro rientranti nel perimetro del Parco dell’Ulivo i quali costituiscono addirittura un complesso monumentale per la bellezza e la storicità del paesaggio che essi formano; essi sono posti su un pendio terrazzato con i gradoni sorretti da muretti a secco e hanno, poiché secolari, tronchi di grandi dimensioni mentre quelli impiantati di recente stanno nel piano (se ne sono dovuti espiantare alcuni per il passaggio della Variante di Venafro) e sono di taglia minore. Si hanno anche, non solo nella propaggine occidentale della regione, nell’ala orientale addensamenti di ulivi con epicentro tra S. Giuliano di Puglia, Colletorto, Larino e S. Martino in Pensilis, disposti su una serie ondulata di colline, mentre nel resto del territorio molisano pur presenti a tratti, risultano meno concentrati. L’olio è sempre di pregio. L’adesione all’associazione Città dell’Olio di molti centri in cui vi è una consistente economia olivicola fa sì che l’immagine dell’oliva locale piuttosto che associarsi a quella della regione, si leghi a quella della rete nazionale dei comuni produttori di olio. In altri termini, l’identità la si ricerca non nel “distretto” dell’olio molisano, ma a scala più ampia, quella dell’olivicoltura italiana nel suo insieme. Dall’agricoltura, cioè dal vino e dall’olio, ci spostiamo alla zootecnia, alle lavorazioni casearie. Dalle attività agricole a quelle zootecniche e così dalle quote collinari e pianeggianti a quelle montane, perché l’allevamento, quello condotto in modo tradizionale è praticato in montagna. Le più famose varietà di formaggi della nostra terra sono la mozzarella e il caciocavallo. Partiamo dalla prima nella quale il legame con gli ambiti posti in altitudine, gli unici in cui sono presenti suoli pascolivi, quasi scomparsi nel resto della regione, sembra meno evidente in quanto il latte è in quantità considerevole d’importazione; se, invece, si tiene conto che i rinomati “bocconcini di Boiano” sono formati per oltre la metà del loro peso da acqua e che quella che le latterie locali utilizzano è provenienti dalle sorgenti del Biferno e se si riflette, inoltre, sulla circostanza che quest’ultima è, a sua volta, proveniente dal Matese si può ben comprendere il rapporto strettissimo che tale produzione lattearia ha con la montagna matesina.
Per il caciocavallo il collegamento con le zone in elevazione è immediato perché qui avviene il pascolamento delle mandrie durante la stagione dell’alpeggio. Riscendiamo a valle per menzionare prodotti tipici molisani meno conosciuti (pur conosciute, va segnalato, non si incentiva la coltivazione delle cipolle di Isernia), ma non per questo meno interessanti di quelli finora visti. Il più antico e, nello stesso tempo, il più nuovo in quanto si tratta di una riscoperta, è il farro, il grano dei Sanniti, il quale ha un patrimonio genetico che risale alla notte dei tempi; è opportuno far notare, per inciso, che negli ultimi decenni qui da noi c’è stata una autentica corsa alla ricerca di specialità autoctone dell’enogastronomia che si erano perse in un pozzo davvero senza fondo da cui è possibile estrarre in continuo delle primizie che si erano abbandonate (la patata turchesca ad esempio). Il tema del distacco tra prodotti tipici e paesaggio il quale è il filo conduttore che stiamo seguendo emerge con evidenza per la totale assenza di interesse per gli areali paesaggistici che li originano, in tale “corsa all’oro”. La disattenzione per il paesaggio è dei giorni odierni, al contrario che nel passato quando il legame con la campagna era più forte e si sapeva, mettiamo, riconoscere da quale luogo veniva quel certo tipo di pera. Lina Pietravalle nel descrivere in un suo romanzo le pietanze del pranzo ambientato nel palazzo vescovile di Trivento, giunti al momento della frutta con una lunga digressione enumera una serie lunghissima di pere, tra le quali ci sono quelle servite ai commensali, distinguendole in base a quella o a quell’altra valletta oppure rilievo del circondario in cui sono state raccolte; al contrario oggi si classificano sulla scorta del nome popolare ad essa attribuito (pera zingara, pera gelata, ecc.), atteggiamento attento all’antropologia e non altrettanto al paesaggio che, in qualche modo, le ha generate, in definitiva alle condizioni ambientali che sicuramente condizionano le dimensioni dei frutti, il grado di maturazione che raggiungono e così via (i fagioli della Paolina sono di alta collina, per dirne una). Gli anziani sono abituati, cosa che attualmente si va perdendo, in linea, per certi versi, con quanto si coglie dal racconto della Pietravalle, ad apprezzare un prodotto a seconda del posto in cui è cresciuto come avviene per gli ortaggi degli “orti di Agnone” che era possibile acquistare al mercato e lo è ancora a differenza di quelli della “campagna campobassana" che non erano da meno e che, però, sono diventati introvabili a causa dell’urbanizzazione diffusa che ormai circonda il capoluogo, qui si capovolgevano i termini, erano i prodotti a caratterizzare il paesaggio e non il viceversa.
Le funzioni urbanistiche, superato ormai il concetto dello zoning, non devono più essere separate fra loro, bensì integrate. Ciò è maggiormente valido quando si parla delle attrezzature di valorizzazione paesaggistica le quali, come è ovvio, non possono che trovarsi nel territorio rurale, cioè nelle Zone E, senza essere oggetto di specifica “zonizzazione”. Per capire bene quanto si sta affermando conviene fare la comparazione con le aree a Verde pubblico, che nei piani regolatori si chiamano Zone F: esse sono collocate all’interno degli agglomerati urbani o, almeno, nelle loro vicinanze ed hanno un compito di carattere sanitario specie quando si tratta di città con un elevato tasso di inquinamento atmosferico. Se questi sono i parchi cittadini vi sono poi piccoli spazi anch’essi rientranti nel computo del Verde pubblico, ma questi destinati alla ricreazione all’aria aperta e di conseguenza vengono collocati nei quartieri residenziali. Le zone F sono, come si può vedere, qualcosa di completamente diverso dalle infrastrutturazioni paesistiche, siano esse sentieri, aree per pic-nic, ecc. le quali si inseriscono per loro natura nel contesto ambientale. Se, dunque, pure si trovano a volte le medesime opere di arredo sia nei giardini pubblici sia nei siti naturali, metti le panche o la tabellonistica oppure ancora i giochi per bambini, esse rispondono a finalità completamente differenti, l’una di tipo igienico e per il dopo lavoro e lo svago, l’altra della fruizione della natura associata di frequente ad iniziative di educazione alla conoscenza dell’ecosistema. Una specificità delle azioni legate alla promozione del patrimonio culturale, termine che ricomprende il paesaggio, che le rende non paragonabili con quelle dedicate alla dotazione di superfici a verde nei centri abitati è che esse servono pure quali attrazioni turistiche. In termini urbanistici, di nuovo, è difficile indicare il limite tra le attività o, meglio, giungere ad una «zonizzazione» coerente.
Ci soffermiamo su questo tema perché esso è centrale nelle linee di programmazione regionale la quale punta molto sul turismo e, anticipando una conclusione del ragionamento, neanche per le strutture di supporto turistico funzionali a valorizzare il paesaggio necessitano specifiche procedure amministrative di variazione dei PRG. È da dire che se le misure mirate a promuovere le emergenze paesaggistiche sono uno stimolo per incrementare i flussi dei visitatori reciprocamente sono i servizi turistici a favorire il godimento delle bellezze ambientali, prendi un punto di ristoro, un rifugio, un maneggio per le passeggiate a cavallo e così via. Il rapporto turismo – paesaggio non è biunivoco esistendo un altro elemento da considerare che è l’agricoltura, la quale partecipa al medesimo circuito per cui si deve parlare di relazione tripolare. In definitiva vi è un’associazione tra attività che valorizzano i beni naturali, quelle del sistema turistico e quelle agricole. Occorre fare una differenziazione, però, tra questi comparti: mentre le aziende turistiche sono portate a “sfruttare”, in qualche modo, l’appetibilità di un paesaggio, senza concorrere solitamente alle spese necessarie per renderlo fruibile, ritenendo che i costi di infrastrutturazione siano a carico degli enti pubblici, gli agricoltori, invece, specie quelli con produzioni ad indirizzo biologico e quelli che puntano sui prodotti tipici sono manutentori se non, addirittura, creatori di paesaggi di qualità. Del lavoro delle imprese agricole traggono vantaggi sia gli operatori turistici sia la stessa popolazione del luogo. Potrebbe sembrare che tutti questi mondi abbiano il medesimo peso mentre, invece, rimane ben saldo in primo piano tra tali azioni la promozione paesaggistica. Essa può essere definita il motore dello sviluppo locale; anche nel campo del paesaggio è applicabile il concetto della «rigenerazione urbana» per cui la creazione di un centro visita naturalistico, mettiamo, da cui partono itinerari escursionistici è capace di innescare processi di formazione di iniziative turistiche e di commercializzazione di produzioni agricole locali. In territori dove l’economia è in crisi, ci stiamo riferendo alle aree interne del Molise, la valorizzazione del paesaggio è una soluzione possibile per la ripresa.
C’è bisogno di una sorta di patto tra i vari attori impegnati nei distretti del turismo, dell’agricoltura, del paesaggio. Dopo tutto quanto detto finora in cui ci si è riferiti al mettere in valore i connotati paesaggistici quale supporto alle politiche di crescita economica è necessario ricordare che l’importanza del patrimonio culturale è innanzitutto quella legata al suo contributo all’affermazione di un’identità collettiva. Non si tratta, in altre parole, solamente di spingere all’incremento del flusso di visitatori o al migliorare l’immagine delle campagne e, di conseguenza, dei frutti delle colture che vi si praticano, ma, innanzitutto, il paesaggio è il risvolto visibile della comunità che lì è insediata e, per molti versi, la strutturazione di quest’ultima è plasmata su di esso, dal modo di costruire, al rapporto con le componenti dell’ecosistema al tipo di religiosità popolare al folklore. È per tale ordine di ragioni che il contesto paesaggistico non deve essere privatizzato, limitando magari le opere che servono per fruirlo a un belvedere dal quale ammirare il panorama. La libertà di circolazione è evidente che sia totale per cui, ad esempio, le recinzioni dei giardini delle dimore che con maggior frequenza del passato in alcuni comprensori molisani vengono disseminate nell’agro sono un ostacolo al godimento da parte di tutti del paesaggio. La rete sentieristica da percorrere a piedi, in bici, a cavallo serve a confermare la «porosità» che è insita in ogni territorio. Di precisazione in precisazione: l’apprezzamento dei molteplici «servizi» che fornisce un paesaggio non è, di certo, esclusiva degli abitanti del posto poiché per l’aumento consistente del tempo libero e della mobilità delle persone esso è consentito a platee molto vaste di individui. Se ognuno di noi, vicino o lontano a quel dato intorno paesistico, impara a conoscere il paesaggio e, di qui, a sentirlo proprio potranno nascere sentimenti di condivisione della sua bellezza dai quali ripartire per una costruzione di una società solidale, quella che oggi tanto ci manca.
5. I problemi ambientali nel territorio rurale
Il paesaggio, specie nel Molise interno, può essere considerato, insieme al centro storico, la principale risorsa del comune per le iniziative di valorizzazione turistica la quale, oggi, è la prospettiva di sviluppo più credibile. Oggetto di interesse sono, da un lato, le aree naturali, gli eventuali Siti di Interesse Comunitario presenti, e, dall’altro lato, la organizzazione del suolo agricolo il quale fu un tempo interamente coltivato per soddisfare il fabbisogno alimentare di una popolazione che prima delle ondate migratorie era molto superiore di quella attuale. L’agricoltura, almeno nelle zone collinari le quali sono assai estese qui da noi, era ed è caratterizzata dalla piccola proprietà. La suddivisione in parcelle minime dello spazio rurale ora è scarsamente leggibile sia per l’accorpamento di fondi sia per l’abbandono di tanti appezzamenti per la diminuzione degli addetti all’agricoltura e così si viene a perdere l’immagine di un agro variegato per via della diversificazione delle colture, dell’alternanza della colorazione dei campi dovuta alla rotazione colturale, al susseguirsi delle stagioni. Tale articolazione dei quadri visivi che abbiamo visto in dipendenza della diversità dell’agricoltura è accentuata, peraltro, dalla complessità morfologica di questa parte della regione dove l’orografia è sempre mossa, mai lineare e tanto più piatta, con una stratificazione geologica non scontata, che cambia in continuità (ciò determina anche una variabilità climatica da versante a versante che contribuisce insieme alla modifica della pedologia e dell’altimetria alla diversificazione delle produzioni agrarie). Il disegno così minuto dell’assetto paesistico, non contraddetto dai modi insediativi fatti di case sparse o di piccole borgate, potrebbe essere alterato dalla localizzazione in campagna di capannoni a scopo produttivo i quali risulterebbero chiaramente fuori scala.
È ovvio che non si può bloccare l’introduzione di nuovi modelli agronomici e nuove tecnologie e del resto la storia dell’agricoltura nel nostro Paese, fin dall’epoca etrusca, è caratterizzata da frequenti trasformazioni nei sistemi agro-silvo-pastorali. Dunque, non vi è una stabilità nella configurazione delle nostre campagne e quando pure è conservato il paesaggio tradizionale si è completamente persa la struttura socio-economica che lo ha prodotto. Un’utile esemplificazione è data dall’allevamento, attività che si traduce sotto l’aspetto fisico in grandi volumi per stalle e silos e, qualche volta, per macellazione; quando si fa zootecnia la si fa in modo intensivo essendosi ormai ridotte le aziende di tipo misto in cui si allevava bestiame e si coltivava la terra. Queste ultime prevedevano l’integrazione, i coltivi e i capi animali le deiezioni dei quali servivano alla fertilizzazione del terreno e che erano sfruttati come forza motrice per l’aratro. Attualmente si sta andando verso una gestione zootecnica di orientamento “industriale” con l’alimentazione dei bovini e dei suini, meno degli ovini, mediante insilati non di provenienza aziendale. Le unità produttive connesse al settore primario pur se frutto di una concezione differente di questo comparto economico hanno diritto, per così dire, di posizionarsi nel territorio rurale cosa non scontata per le iniziative commerciali o artigianali o terziarie in campi d’interesse distanti completamente dall’agricoltura le quali vengono ubicate nella Zona urbanistica «E» in mancanza di lotti disponibili nella specifica Zona «D» perché magari esauriti oppure non idonei per estensione. Ricapitolando e traendo le conclusioni di quanto fin qui affermato manufatti di grande ingombro volumetrico in campagna si rivelano dissonanti rispetto alla scansione del paesaggio rurale in elementi di dimensioni contenute (intendendo con questi pure il particellare fondiario) piuttosto che “segni” della modernizzazione che sconvolge omologandola a quella di altri luoghi con altre identità l’organizzazione agricola antecedente o, meglio, sopravvissuta. Salvo che, a proposito del punto appena detto, non si vogliano recuperare le coltivazioni tradizionali, i prodotti tipici dei quali tanto si parla, che si associano inevitabilmente a paesaggi tradizionali (il melo della coltura promiscua invece del meleto specializzato, le vigne di collina al posto della monocoltura della vite in pianura e così via).
In definitiva, la limitazione alle presenze extragricole nella campagna è legittima quando si è di fronte, se non ad un autentico parco agricolo, alla volontà di impianto di specie appartenenti all’agricoltura di un tempo, compreso, va sottolineato, la ricostruzione di siepi, di muri a secco, di filari alberati per la delimitazione dei campi. Un progetto di paesaggio è quello che occorre che parta sì dal recupero dei suoi lineamenti storici, ma che sappia associarli alla creazione di attrezzature per la sua fruizione, dalla segnaletica escursionistica all’allestimento di aree di sosta con panchine e punti per la cottura fino alla predisposizione di parchi-avventura, di campeggi, di raccolte museali sulla cultura popolare da ospitare in dimore contadine. Gli imprenditori privati possono accompagnare questa azione di messa in valore del patrimonio rurale con la nascita di agriturismi o di bed & breakfast se in quell’ambito territoriale vi sono costruzioni isolate e, se sono assenti, in edifici nel borgo medioevale con ristorantini nei quali consumare ciò che si produce nelle imprese agroalimentari del sito. Di tutto questo occorre che tenga conto la scelta di installare nell’agro un opificio, una struttura di vendita o qualcos’altro di estraneo al mondo agricolo verificando la sua compatibilità con le esigenze oltre che del paesaggio, del turismo, della tutela degli ecosistemi (le superfici di agricoltura non intensiva sono definite fasce seminaturali che fungono quali corridoi ecologici della rete Natura 2000: esse possono subire frammentazioni a causa della presenza di opere consistenti), dell’ambiente. Soffermandoci sulla tematica ambientale l’agglomerazione di entità produttive in zone urbanisticamente prestabilite garantisce la raccolta di rifiuti e il trattamento dei reflui, permetterebbe il risparmio energetico se nel Piano di Insediamenti Produttivi fosse presente un impianto fotovoltaico o a pannelli solari. Guardando sotto altra angolazione l’inserimento in un PIP consentirebbe economie di scala, in particolare gli allacciamenti infrastrutturali compreso le strade, la rete idrica, il depuratore, ecc. con diminuzione dei costi per chi decide di collocarsi lì.