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1 - Il Molise non esiste, c'è qualcosa di vero

La questione se il Molise esiste o meno è imprescindibilmente connessa a quella dei confini di questa fantomatica, per alcuni, regione. Con ciò si vuol dire che prima di parlare di identità del Molise il quale è il punto fondamentale che è stato messo in discussione bisogna affrontare il tema delle sue terminazioni. Non è scritto da nessuna parte che una regione si debba, per essere tale, configurare come un territorio morfologicamente ben delineato, con caratteri fisici, cioè, precipui; è questo un tentativo di definizione asettica, in qualche modo, dell’entità regione, tutto spostato sul campo della geografia trascurando, pertanto, l’apporto della storia, la quale, invece, ha avuto un ruolo importante nella determinazione dell’assetto regionale. L’influenza delle vicende storiche, delle evoluzioni che hanno prodotto ciò che ci appare essere il Molise la si coglie nelle diverse trasformazioni del suo perimetro. Forse più che per altre realtà per la nostra calza bene l’espressione regione ballerina ad evocare l’immagine di un oggetto più o meno misterioso, i cui lembi esterni oscillano; se non è proprio uno dei fattori identitari, dei quali si discuterà comunque dopo, tale caratteristica, il possedere un profilo mutevole, cangiante nel tempo, conferisce un certo fascino alla terra in cui viviamo.

Una volta il Molise ricomprendeva una porzione della provincia di Benevento prima che venisse istituita, stiamo a sud-est, una volta viene ingrandito con l’inclusione del venafrano (dove c’è Sesto Campano), a sud-ovest, una volta gli vengono sottratti 5 comuni del versante tirrenico del Matese, una volta si allarga a nord assorbendo, per così dire, l’ambito che fu il Cantone di Agnone, una volta raggiunge la costa togliendo alla Capitanata Termoli e tutta la fascia litoranea, cosa che probabilmente è avvenuta, lo rivela il nome, pure per S. Giuliano di Puglia. Partendo dalla considerazione che le continue ondulazioni dei bordi provocano un effetto di evanescenza della figura e ricollegandoci all’argomento che appassiona tanti, quello dell’esistenza o no del Molise, si ritiene che la tesi che nega che questa regione esista possa essere stata influenzata pure dalla suggestione proposta. Quelli che oggi ci appaiono quali limiti sicuri, capisaldi (lineari e non puntuali) della configurazione della regione, delle autentiche certezze nel riconoscimento della fisionomia del Molise, e cioè l’Adriatico a oriente e l’Appennino ad occidente, due elementi di separazione netti, non sono, alla prova dei fatti elencati sopra, proprio così. I confini sono l’essenza stessa di un fenomeno territoriale, come dimostra la vicenda della nascita di Roma scaturita dal solco tracciato da Romolo che ha valore pratico e simbolico, in ogni aggregato umano, per difendere i quali, i sacri confini della nazione, si è disposti addirittura a morire. Non si dona la propria vita per proteggere una confinazione decisa con atto amministrativo che risponde a logiche di governo dei beni collettivi, di efficienza nell’organizzazione dell’amministrazione pubblica e così via, motivazioni che si sono alternate negli ultimi due secoli nelle decisioni assunte relative alla dimensione della regione, ci vuole qualcosa di più, di molto di più, appassionante.

il matese

Rimanendo nella metafora guerresca gli entusiasmi verso la costituzione di una “piccola patria” li avrebbe potuti suscitare l’identificazione con l’antico Sannio; quest’arma, però, era stata resa inoffensiva fin da subito, fin dal momento della formazione dello Stato unitario, allorché il beneventano, non più enclave pontificia, divenne una ripartizione provinciale della nuova Italia comprendente pure alcuni comuni in precedenza inclusi nella provincia di Molise, con la quale condividono una medesima origine sannita. Il Sannio si trovò, pertanto, scisso in due per cui non era più un riferimento identitario esclusivo dei molisani. In verità, in passato non lo era stato se non nella testa di un ristretto numero di eruditi i quali, comunque, non erano in grado di condizionare la coscienza popolare per via della scarsa diffusione delle pubblicazioni a stampa oltre che dell’endemico analfabetismo. Ci volle la comparsa del Regno d’Italia con le sue politiche di “nazionalizzazione” dell’eredità culturale incentrata sul mito di Roma, una specie di omologazione, a far riscoprire, in contrapposizione, radici differenti, quale quella sannita di cui essere fieri. L’orgoglio per aver avuto come antenato un popolo che aveva tenuto testa alla Città Eterna si nutriva, nello stesso tempo che qui significa anche arco temporale, delle scoperte dei due importantissimi siti di Pietrabbondante e di Altilia frutto della passione per l’archeologia esplosa nel periodo neoclassico. In definitiva l’Italia era fatta, si dovevano fare gli italiani, non gli italici. In ogni caso, si riscontra che non vi fu nessuna voce che si levò per richiedere l’istituzione di una regione, o meglio di una provincia, che ricalcasse il perimetro del Sannio e, del resto, le regioni (intendendo esse, lo si ripete, per le province) non sorgevano dal basso, bensì erano calate dall’alto, ora come nel decennio francese durante il quale comparve, per la prima volta in assoluto, la Provincia di Molise; era una suddivisione del territorio nazionale fatta non con criteri “etnici”, ma di tipo funzionale, si pesi alle esigenze statistiche sempre più pressanti in uno Stato moderno. L’appiglio alla eredità sannita per costruire una comune e nobile derivazione storica dei molisani si rivelò inefficace e, allora, si iniziò a fare ricorso alle tradizioni folcloriche. Negli anni ’20 e ’30 del Novecento si ebbe la risposta, se non l’invenzione, di manifestazioni di cultura popolare, ovvero di civiltà agreste, una per tutte la Festa del Grano di Ielsi, che sarebbero potute servire per rinsaldare il senso di appartenenza, la coscienza di sé in relazione al luogo che si abita, della comunità locale. La molisaneità ha molto a che vedere con la campagna, il lavoro contadino, la dispersione della popolazione nell’agro quindi la vita a contatto con i campi tanto che Mussolini definì questa terra “ruralissina”; erano connotati molto decisi che distinguevano il Molise da altre zone della Penisola in cui i centri urbani hanno costantemente avuto un ruolo dominante. L’avvento delle mietitrebbie, quindi della meccanizzazione dell’agricoltura è stato l’inizio della fine perché ha portato alla scomparsa dei paesaggi rurali tradizionali e con essi dell’anima autentica della regione.

parco eolico

2. Trovare un nome alla regione non è facile

I nomi non sono puri, purissimi accidenti, contrariamente a quanto diceva Alessandro Manzoni, o almeno uno dei suoi personaggi dei Promessi Sposi. In apparenza quella di Abelardo che nomina sunt res è un’affermazione in antitesi a quella pronunciata da Don Abbondio, perché, se si va in profondità, cosa è una parola che, talmente generica, non identifica alcunché. Il capostipite dei nominalisti, pur se il termine cosa usato nella sua espressione è infelice, o almeno fuorviante, intendeva dire tutt’altro e cioè che i nomi non sono assolutamente degli accidenti come sosteneva il curato manzoniano, bensì che sono degli “attrezzi” sostanziali per la comprensione del mondo. Senza i nomi le cose non esistono, non sappiamo distinguerli e, quindi, non ne abbiamo una distinta conoscenza: ogni cosa, cosa appunto, rimane indeterminata; se non avessimo a disposizione i nomi non saremmo mai capaci di rispondere all’indovinello, passando dal serioso allo spiritoso, che dice: «cos’è quella cosa che odora di rosa….?». A questa prima questione che è, diciamo così, nominale ne dobbiamo aggiungere un’altra, sempre di carattere introduttivo la quale è quella che il 1800 è il secolo in cui si sviluppa in Europa lo spirito patriottico, vedi il Risorgimento italiano, in cui nasce l’idea di nazione in contrapposizione a regno inteso quale possedimento del re; i confini di un’entità statale coincidevano con quelli delle proprietà regie per cui erano soggetti ad allargamenti o a restringimenti in dipendenza dell’acquisizione da parte della corona di ulteriori territori, magari a seguito della stipula di un matrimonio, mentre il concetto di stato nazionale è molto diverso in quanto si rapporta a quello di popolo. Va precisato, ad ogni buon fine, tra cui quello della non sovrapponibilità tra Sannio e Sanniti, che quest’ultimo non va confuso con etnia.

Dopo questa duplice premessa, lo si ricorda una riguardante il nome e l’altra relativa alla natura di una realtà statuale, possiamo passare al caso specifico, transitare dall’astrattezza alla concretezza. Ci soffermeremo per prima alla medesima maniera della parte introduttiva sulla faccenda nominalistica. Iniziamo con una conclusione, il Molise, checché ne dicano, esiste proprio perché ha un nome e procediamo oltre. Qui siamo in una regione, similmente alla Basilicata che è chiamata anche Lucania, che ha un doppio nome (non, si badi bene, un nome doppio che, invece, ritroveremo in tanti comuni molisani), Molise e Sannio (lo si adopera più frequentemente per la provincia di Benevento solo perché serve a riconoscere questo comprensorio altrimenti “invisibile” nel mare magnum della vasta Campania). Ciò ha portato ad

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avere fra i centri nostrani chi si appella al Sannio, in vari modi, ad esempio Torella del Sannio, Mirabello Sannitico e Poggio Sannita, ma c’è pure Cantalupo, adesso, nel Sannio, e chi alla denominazione ufficiale della regione, Sessano del Molise e S. Maria del Molise; non conta, è da sottolinearsi, la loro ubicazione territoriale constatando che Montefalcone del Sannio è al polo opposto della regione rispetto a S. Giuliano del Sannio. C’è una differenza, comunque, con la Basilicata la quale se ha in comune con noi la faccenda della duplicità del nome non ha un doppio aggettivo per i propri abitanti; nessuno si sognerebbe, salvo che nella finzione cinematografica, un bel film di una trentina di anni fa diretto dalla Werthmuller, di appellare la gente di qui basilischi, seppure sarebbe corretto derivando da Basilicata, e, invece, da noi è usuale adoperare, indifferentemente, sannita o molisano. La Basilicata, peraltro, è unica per il presente aspetto, la non correlazione fra il nominativo e l’aggettivo essendo quasi esclusivo l’impiego di lucano. Volendo continuare su questa scia, quella della comparazione con un’altra regione, non si può fare a meno di rilevare che, tanto ufficialmente che nel linguaggio corrente, il termine Abruzzo dal momento della nascita della regione Molise formalizzata dalla Costituzione non si scambierà più con Abruzzi: è come se il Molise il quale ormai si era separato (sulla carta, non nella carta Costituzionale, poiché è nel 1964 che si otterrà tale scissione) fosse uno di quegli Abruzzi, alla stregua, per dire, dell’Abruzzo Citra oppure dell’Abruzzo Ultra. È rimasta al plurale unicamente le Marche, e non ancora gli Abruzzi per evitare che la parola, è ingenuo crederci, lo si ammette ingenerasse la confusione che uno di questi fosse il Molise e perciò è stato ridotto a singolare, Abruzzo. Nessuno dei due, Molise e Sannio, è un nome privo di fondamenti storici, il primo di una storia più vicina, il secondo assai più lontana perdendosi nella notte dei tempi, nessuno di comodo come è successo, l’ennesima regione che si tira in ballo, con la Valle d’Aosta “battezzata” così per distinguerla dal resto della Savoia una volta che l’Alta (si intende Savoia) passò alla Francia insieme a Nizza con l’Unità d’Italia, oppure con le Tre Venezie le quali accorpavano, per esigenze, è presumibile, di sinteticità Veneto, Friuli e Venezia Giulia.

Altilia

Ai classicisti sarebbe piaciuta la denominazione Sannio per i rimandi che esso contiene all’antichità. Sannio è un nome che sollecita l’orgoglio di quelli che presuppongono di essere discendenti dei fieri Sanniti i quali seppero tenere testa ai Romani, dimenticandosi, volutamente o meno, che i nostri progenitori sono anche i Longobardi, gli Svevi, i Normanni; ci “azzecca” proprio il detto popolare che se la madre è certa, in questo caso la terra in cui siamo nati, non per niente si dice la madre-terra, il padre non lo è altrettanto. È un attaccamento inusuale, anche se tutto sommato minoritario, questo attaccamento alle proprie illustri origini e ciò si verifica forse per la patente di nobiltà che le gesta di questo popolo italico ci conferirebbe, i “magnanimi lombi” di un verso del Giusti, più che per una passione autentica verso la civiltà sannita. Non succede altrettanto per la Toscana, nome che mai è stato in predicato o si è auspicato di essere sostituito con Etruria né, sarebbe altrettanto ridicolo, appellare i Toscani Etruschi. Finiamola qui per quanto riguarda il tema terminologico e affrontiamo, velocemente, quello della problematica se l’unità statale è tale in quanto possesso di una casata o se essa è basata su una idealità nazionale. Contado di Molise, è un enigma l’etimologia di Molise, potrebbe rilevare una dipendenza dalla famiglia Molisio, traslitterazione di De Moulins, il cognome del primo conte di Boiano, contea che, poi, abbraccerà gran parte del territorio regionale fino a diventare contado. Il patronimico denuncerebbe in tal modo l’appartenenza a chi ne ha il potere. Sannio è tutto all’opposto legato alla popolazione che si era insediata in quest’area, i Sanniti e, di conseguenza, è associato ad una cultura, in senso antropologico, ad una religione, ad una foggia di vestiti e così via. Queste cose, di nuovo, la religiosità, l’abbigliamento, le consuetudini sono portate con sé, bagaglio irrinunciabile, dalla popolazione sannitica nelle conquiste delle città della Magnagrecia, il proprio cromosoma etnico per cui si può essere Sannita senza vivere nel Sannio, e non viceversa, cioè non solo i Sanniti possono vivere nel Sannio, lo ius soli possono acquisirlo anche altri.

3 - Il Molise, tra Tirreno e Adriatico

Non ci sarebbe potuto essere stato, diciamo subito, il viaggio di Ulisse se non ci fosse stato il Mediterraneo. Nessun’altra distesa marina al mondo offre tante possibilità di incontro quante quelle offerte da questo mare. Gli episodi descritti nell’Odissea avvengono in luoghi distinti, ma posti tutti al contorno del mare nostrum. La stessa parola, Mediterraneo, che significa in mezzo alle terre è rivelatrice dello stretto legame che intercorre qui tra mare e terra e che permea l’intera cultura dell’area, si pensi solo alla cucina dei popoli rivieraschi nella quale si utilizzano tanto ingredienti provenienti dal mare quanto dalla terra, magari nello stesso piatto. Dice, comunque, il grande studioso Braudel che i Mediterranei, adesso al plurale, non ce n’è solamente uno, bensì, una pluralità («1,10,100 Mediterranei»), ciascuno dei quali ha propria denominazione . Quelli che ci interessano, o meglio interessano il Molise, sono l’Adriatico e il Tirreno, sì, pure il secondo perché vi sfocia il Volturno il quale nasce sul versante molisano delle Mainarde ed il cui bacino idrografico comprende una porzione del territorio regionale; peraltro, una porzione non piccola in quanto oltre all’isernino, al venafrano e ai comuni che un tempo erano inclusi nella Terra Sancti Vincentii, vi è l’alta valle del Tammaro dove si trova Sepino. Una porzione non piccola, di nuovo, anche dal punto di vista del patrimonio culturale essendovi inserite due delle nostre principali emergenze archeologiche, Altilia e l’abbazia di S. Vincenzo al Volturno. La tirrenicità, se così si può dire, dei nostri antenati era ancora più marcata, con il Sannio che si estendeva su entrambi i lati del Matese, uno dei quali, è tirrenico. I Sanniti consideravano, in qualche modo, il Tirreno il loro mare nutrendo mire espansionistiche sulle città della Magnagrecia, innanzitutto Capua e Napoli, cercando quasi uno sbocco a mare, impossibile sull’Adriatico a causa dei “pantani” del Basso Molise.

Per questa popolazione italica che viveva intorno al massiccio matesino il Tirreno, di certo, era più vicino dell’Adriatico; per inciso, si rileva che alla nostra latitudine l’Appennino, che qui è l’Appennino Campano-Molisano, non è nella mezzeria della Penisola, bensì spostato verso il Tirreno. Che il Molise sia o meno tirrenico se ne può discutere, ma è certo che esso fino agli inizi del 1800 non era adriatico o almeno il Contado di Molise poiché non ricomprendeva la fascia costiera la quale rientrava, invece, nella Capitanata. Per dirimere la questione se si è adriatico o tirrenico, la zona interna, non ovviamente quella litoranea, vale la pena andare a vedere cosa distingue l’uno dall’altro e ciò vale la pena farlo qui più che altrove trovandoci nella fascia più stretta dello Stivale, dove i due mari sono più vicini, soltanto 110 chilometri per cui vi sono punti nel Molise, equidistanti dai due mari, distanti appena 60 chilometri da ambedue. La differenza che salta subito agli occhi è che il Tirreno è molto più ampio, con ampiezza intendo larghezza e non lunghezza la quale è la stessa in entrambi, tutti e due delimitando l’Italia da cima a fondo, da nord a sud. Il Tirreno si spinge, figurativamente, al largo, si protende nel Mediterraneo, quello Occidentale, tanto da fare tutt’uno con esso allontanandosi un po’ dalla terra ferma, anche le isole maggiori lo sono. Il baricentro geometrico del Mediterraneo sta tra la costa tirrenica e la sua dirimpettaia sarda. Siamo, dunque, in mare aperto e per identificare il baricentro non fisico, bensì “morale” ci dobbiamo spostare evidentemente su qualcuna delle “terre emerse” circostanti imbattendoci immediatamente in Napoli (la Napoli conquistata dai Sanniti, lo ricorderete) che è il naturale, al di là del fatto geografico, centro della civiltà mediterranea. Con la vista non si colgono e, invece, con la mente molto distintamente si leggono sullo specchio acqueo le numerosissime rotte, ideali fili di una tela, seguendo la scia delle navi, le quali svaniscono subito dopo il loro passaggio, che lo solcano. Il Mediterraneo nel mondo antico è stato il principale medium di comunicazione, alla stregua di una rete di vie con maglia assai fitta, fra le varie società insediate sulle sue sponde. Napoli ne è stato il suo porto più importante, porto che si scorge dalla cima di Monte Miletto con le imbarcazioni pronte a salpare la mattina presto.

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L’Adriatico si distingue per la sua forma stretta, assomiglia piuttosto a un canale; gli spostamenti marittimi sono storicamente unidirezionali con approdo finale prima a Venezia, sede di una potente Repubblica Marinara, e dopo a Trieste che fungeva da porto, l’unico, dell’Impero Austro-Ungarico. Non sono mancati nella storia attraversamenti, dunque, in senso trasversale dell’Adriatico, a cominciare dalle genti che per sfuggire ai Turchi sono scappati in Molise dalla Croazia e dall’Albania in varie ondate dal XV al XVI secolo e a finire in età contemporanea con i profughi albanesi nel momento del crollo dei regimi comunisti. La circolazione navale nel mare Adriatico secondo la sua linea preferenziale, da meridione a settentrione e viceversa, che poi segue il flusso delle correnti marine, qualcosa di simile ai fiumi e, del resto, lo abbiamo detto, è un canale, è relativamente agevole in quanto non si perde mai di vista il litorale. La navigazione è facilitata dalla possibilità di effettuare soste, ovverosia tappe durante il tragitto per il rifornimento dei natanti. Il margine costiero molisano essendo privo di rientranze, uniformemente rettilineo com’è, non ha la predisposizione alla portualità per cui, del resto è breve, è escluso da tale traffico. Il pericolo che corrono i naviganti, allorché trasportano merci preziose da condurre nel capoluogo veneto il quale commerciava per tutto il bacino mediterraneo è quello dei pirati. Lungo la strada di casa, per capirci, essi possono annidarsi nelle cale nascoste delle isole Tremiti e da lì partire all’arrembaggio e, pertanto, si rese necessario presidiare il luogo installando sull’isola di S. Nicola una fortezza-convento con i monaci chiamati, oltre che alla preghiera, a scacciare via le orde piratesche. I molisani hanno sempre dimostrato scarsa propensione alla marittimità, piuttosto che sulle barche la pesca si praticava dalla battigia sui trabucchi, a differenza dei tirreni i cui interessi sono stati proiettati sul mare da sempre, dalla fondazione delle colonie greche le quali avevano scambi continui con la madrepatria. Le polis, parola equivalente in greco a città, dovevano sorgere proprio sul mare proprio per permettere il trasporto delle derrate tramite navigli, mentre qui i borghi si attestano in altura, salvo Termoli, a distanza dal mare. Ai Greci non ha mai interessato l’Adriatico, essi tendevano a colonizzare l’area occidentale del Mediterraneo e chissà per quale strano caso le isole Tremiti si denominarono anche Diomedee, nome evocativo del mitico compagno di Ulisse, chissà a quale avventura si lega tra quelle narrate da Omero. Non per tirare le fila del discorso, il quale meriterebbe ben altri approfondimenti, e neanche per trarre una specie di morale dal racconto fatto, dovendo, comunque, concludere si ritiene di poter affermare che, limitandoci a questo, la nostra condizione esistenziale di isolamento ha qualche derivazione dalla collocazione della regione sull’Adriatico il quale anch’esso soffre di isolamento nel contesto mediterraneo.

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4 - Lo smembramento del Sannio e l'appropriazione del nome

Il nome della vicina Colle Sannita è rivelatore di una unità, sicuramente di tipo storico, tra la porzione della provincia di Benevento confinante con il Molise e quest’ultimo facendo parte entrambe dell’antico Sannio. In effetti, oggi a livello nazionale è conosciuto come Sannio solo il beneventano e ciò nonostante che anche nella nostra regione vi siano diversi Comuni che portano nel nome questa parola. Una spiegazione potrebbe essere il fatto che a differenza di quanto avvenuto qui nel medioevo quando questa terra assunse la denominazione di Molise, il pezzo di Campania di cui discutiamo non venne identificata con altro termine che Sannio, salvo che in epoca molto più recente con quello di Principato Ulteriore. Si è detto Molise, ma non dobbiamo pensare a tutto il territorio della regione, perché alcune sue zone a contatto con ambiti regionali confinanti, in passato sono state inserite in aggregazioni territoriali comuni con queste ultime, perduranti per lungo tempo: la Capitanata comprendeva la fascia costiera , la Terra di Lavoro il venafrano, i cosiddetti Abruzzi includevano il comprensorio prossimo ad Agnone. In tutte queste entità i pezzi di superficie oggi del Molise erano minoritari. Il Molise raggiunge i suoi confini attuali solo nel 1807 con la creazione della provincia di Campobasso nella riorganizzazione amministrativa voluta da Giuseppe Bonaparte. Il Sannio, perché non esistono due Sannii, bensì uno solo, andava dal versante matesino in provincia di Benevento e raggiungeva l’alta valle del Trigno, trasversale alle due regioni contigue, Campania e Molise, di ognuna delle due occupandone una fetta, proporzionalmente più ampia quella molisana. Vi sono pure suddivisioni legate ai limiti delle diocesi e, per quella parte che ci interessa, di arcidiocesi, quella di Benevento in cui rientrava Cercemaggiore fino a non molti decenni fa e la leggenda delle «7 sorelle», le 7 Madonne delle quali 6 nel nostro territorio che si traguardano visivamente in modo reciproco, catena che si conclude con la Libera della città campana è esplicativa dei legami esistenti. Cercemaggiore, sempre sotto l’aspetto ecclesiastico è membro pure di una diversa ripartizione che è quella delle confraternite domenicane con il convento di S. Maria della Libera.

fiume Tammaro

Che il Sannio sia un’unità è rivelato pure dall’assenza di elementi fisici di separazione , da questo lato, tra Campania e Molise per il quale è l’unico caso dove non vi sono barriere che delimitino il suo territorio. I limiti tra regioni sono i fiumi e le montagne e abbiamo così per quanto riguarda i primi il Trigno e un tratto del Fortore (non quello iniziale che corre nel Sannio perché si è detto che quest’area non presenta divisioni geografiche al suo interno) separano rispettivamente dall’Abruzzo e dalla Puglia, mentre per le seconde vi sono le Mainarde e il Matese a «protezione» della nostra regione. In verità, nel beneventano quando ci si approssima al Molise ci si avvicina pure alla Puglia e Riccia, pressappoco, costituisce il punto di contatto tra le regioni; è una situazione, quella di congiunzione tra tre territori regionali che si presenta anche in un altro angolo del Molise che è il monte Meta posto com’è tra Lazio, Abruzzo e, appunto, Molise. Per riconoscere una certa unitarietà nella fascia a cavallo tra Campania e Molise basta cogliere, è ovvio, radici storiche comuni dalle quali siamo partiti e, però, esse sono molto consolidate se si pensa che sono durate fino all’Unita d’Italia quando per istituire la provincia di Benevento, città fino ad allora enclave pontificia, venne ridotta fra l’altro l’estensione di quella di Campobasso. Interessante è, insieme a ciò, la continuità territoriale, non limitata all’assenza di interruzioni dovute a fatti orografici, monti o corsi d’acqua che siano; addirittura è lecito affermare che si trovano maggiori differenze dentro i perimetri delle regioni che in questa zona di transizione tra di esse. Per limitarci nell’esame al Molise vediamo che esso, pur non molto esteso, è una terra di contrasti: se si guarda da est a ovest, per esempio, si passa in meno di cento chilometri (quelli che vanno da Boiano a Termoli, l’asse centrale se non baricentrico della regione) dalla costa ai massicci montuosi. È questa, tutto sommato, la caratteristica che rende affascinante il Molise che seppur piccolo presenta una varietà di ambienti assai superiore a quella di altri ambiti italiani, si pensi alla Pianura Padana, di altre regioni ben più grosse. Le dimensioni, in parole diverse, vale la pena farlo notare, non vanno calcolate sulla base di misure metriche, bensì in numero di incontri che si possono fare in uno spazio breve, una piana, un alveo fluviale, un rilievo collinare, una cima montuosa (non c’entra niente, è inutile evidenziarlo, il paradosso di Zenone!).

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il Molise, per queste ragioni, ha presentato, anche dal punto di vista insediativo, una scarsa integrazione tra le distinte sezioni delle quali il suo territorio si compone e che ha prodotto in passato l’appartenenza di esse a contesti sovraregionali, disaggregazione che è proseguita fino al secolo scorso con la cessione di cinque comuni matesini alla neonata provincia di Caserta. Per grandi linee il Molise è compreso in tre macrostrutture ambientali, quella che connota l’Adriatico la quale va dal Veneto alla Puglia, quella cosiddetta Mediterranea che interessa la media valle del Volturno e quella appenninica nelle cui propaggini collinari rientra il Sannio, tanto campano che nostrano. Una teoria di colli (non per niente si chiama Colle Sannita il luogo da dove abbiamo iniziato) quasi uniformi e qualora l’altitudine aumenta le pendenze rimangono lievi: ci si sta riferendo al Toppo Pianelle di Tufara che supera i 900 metri e che per la sua costituzione geologica che è di tipo argillosa, quindi suolo di ridotta consistenza, non presenta forme rigide, pareti con forti inclinazioni tipiche dei monti. Lungo il crinale di tale emergenza montana che domina sia il Molise e sia gli ambiti extraregionali a contatto con esso vi è una serie di croci devozionali che vogliono quasi rimarcare la sua essenza di zona di confine. Un ulteriore «termine» è rappresentato dalla torre di Casalvatico nell’omonima frazione di Cercemaggiore, l’ultimo avamposto umano prima della Campania, fatto che suggerisce la sua lettura come torretta di avvistamento; essa è idealmente il punto di visione privilegiato della coppia di pale eoliche che si intendono installare a Colle Sannita.

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5 - I vari pezzi del territorio regionale, un puzzle

I confini della nostra terra non dappertutto coincidono con elementi morfologici capaci di separarla fisicamente dai territori circostanti, quasi di costituire una barriera superabile con difficoltà. Tra questi vi sono le montagne le più grandi delle quali sono posizionate proprio su alcuni tratti del perimetro della regione. I gruppi montuosi che, poi, sono pezzi della catena appenninica per cui sono i rilievi più elevati risultano posizionati sul lato corto della superficie regionale che pertanto va considerata delimitata con sicurezza da questa parte, verso ovest; la medesima cosa si riconosce avvenire dal lato opposto per via della presenza del mare. I monti che chiudono il Molise ad occidente si distinguono fra loro rispetto al tema della suddivisione delle aree dei versanti contrapposti, pur avendo altezze equiparabili, almeno dal punto di vista storico: il crinale del Matese non è stato una linea di divisione nell’epoca dell’antico Sannio i cui principali centri erano disposti a corona ai suoi piedi, Boiano e Isernia di qua e Telese ed Alife di là, cosa che non si verifica nel comprensorio delle Mainarde. Per questo popolo italico tale complesso montano rappresentava, addirittura, un fattore di unificazione. Un modo di sentire che si è perpetuato, per certi versi, nelle età successive essendo i pascoli di altitudine del massiccio matesino, i quali sono distese su per giù continue, frequentati sia dai pastori molisani sia da quelli campani. Un utilizzo compiuto da parte di più comunità degli altopiani per l’allevamento animale accade anche nelle Mainarde. Amministrativamente, comunque, in entrambe queste emergenze montuose, lo spazio si trova suddiviso in fette che vanno dal piano alla sommità, proprietà dei vari comuni dell’ambito per permettere alla popolazione di sfruttare in maniera integrata le risorse di monte e quelle di valle. Ciò avviene puntualmente pure alle spalle del fronte molisano di queste montagne, procurando l’effetto di una cesura coincidente con lo spartiacque tra le due facce del monte.

veduta delle mainarde  da Montecampo

L’identità matesina (non esiste quella “mainardina”) per i paesi matesini è forte nei paesi pedemontani della provincia di Caserta e di quelle nostrane di Isernia e di Campobasso: per quanto riguarda gli abitati posti in quest’ultima essa si sovrappone a quella sannita che ha, invece, in comune con la provincia di Benevento. Il Sannio è una delle regioni storiche che intersecano al suo contorno la regione. Le altre sono la Terra di Lavoro che inizia subito dopo Venafro e la Capitanata che in passato inglobava un pezzo del Basso Molise fiancheggiante la Puglia. Forse è per l’orgoglio per la potenza della nazione sannita la quale osò sfidare Roma che nuclei urbani rientranti in quello che un tempo era il Sannio, in verità solamente alcuni, hanno scelto di fregiarsi nella loro denominazione dell’appellativo “sannita” o “sannitico”. Una qualche legittimità ad avere pretese sul territorio molisano hanno la Terra di Lavoro e la Capitanata, partizioni amministrative del Regno di Napoli perché inglobavano porzioni della regione attuale non coincidenti con il Contado di Molise, ad esse appartenute, mentre al contrario, il Sannio è un termine, paradossalmente, da un lato più remoto e dall’altro più recente, ripreso per identificare una zona tolta dalla giurisdizione provinciale di Campobasso per assegnarla a quella di Benevento costituita solamente nel XIX secolo. Tutte e tre fanno capolino in quei tratti della regione che è priva di difese naturali. Sarà probabilmente perché avamposto nel territorio campano (subito dopo vi è Sesto, appunto, Campano) che a Venafro si respira l’aria di un luogo di frontiera, fatto che la ha portata a rafforzare la sua “molisanità” come rivelano le tante manifestazioni culturali di spirito regionalista che vi si svolgono. In verità, rimane in bilico tra Terra di Lavoro e Molise e per ovviare a tale incertezza identitaria si è dovuta creare un profilo autonomo e c’è riuscita. È quella in cui ricade, la porzione di superficie del Molise conosciuta come il “venafrano”, una modalità identificativa di un comprensorio che non è impiegata in nessun altro angolo della regione, neanche più per il circondario di Larino che prima veniva chiamato il Larinate, termine abbastanza aulico che è in auge ancora nei testi letterari.

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L’appartenenza alla Capitanata è ricordata nel predicato del nome del Comune di S. Giuliano di Puglia che sta in un fascia regionale sguarnita di confinazioni né “idro”, il Fortore uscito dalla diga di Occhito si è ormai allontanato dal Molise, né “morfologiche”, mettiamo, una sequenza di alture. L’idromorfologia traccia a lungo il limite della nostra regione sul suo secondo lato lungo (il primo, parallelo a questo, è quello che è a contatto con il territorio pugliese) che si svolge a settentrione; è la vallata morfologica del Trigno (idrologia) a porsi tra Abruzzo e Molise. Se in riguardo agli aspetti di tipo socio-economico, salvo che in un passato prossimo per l’estrazione di ghiaia dal suo letto, il fiume non rappresenta un “bene comune” per la gente che vive sulle rive, a destra e a sinistra, e, perciò, non funge da fattore aggregante di interessi, nello stesso tempo esso è avvertito quale presenza caratterizzante dell’ambito territoriale che il corso d’acqua viene ad attraversare e lo dimostra la circostanza che ai residenti dei borghi della valle piace farsi chiamare trignini. I Comuni, così come abbiamo visto succedere nelle nostre montagne, hanno areali di pertinenza di forma allungata una striscia che va da cima a fondo in quanto ciascuno di esse vuole essere rivierasco, toccare l’alveo fluviale; non esiste, detto in termini immaginifici nessuno (salvo S. Biase e Salcito) che voglia stare in “loggione”, tutti, pur distanti alcuni chilometri dal fondovalle specie in Abruzzo vedi Schiavi che ha un dislivello rispetto al fondovalle idrico di 700 metri, desiderano godersi lo spettacolo di questo meraviglioso fiume dalla prima fila, senza che non ci sia davanti (e, in coerenza con quanto detto, non ce ne possono essere dietro) alcuno, è una questione squisitamente culturale. Non è a dire, controbbattendo, che le piane erano appetibili un tempo poiché erano soggette a frequenti inondazioni. Arrivati sulla costa la terra si appiattisce, i pendii che fiancheggiano l’asta fluviale spianano e quindi scompare la causa morfologica a tenere disgiunte le due regioni; rimane, comunque, quella idrografica pur se la foce nei secoli si è leggermente spostata non più rappresentando, per poco, il termine geografico del Molise. All’altro capo del territorio molisano, quindi a sud, il Rio Salso, che è un semplice rivo non è molto di più che un segno topografico che marca il passaggio nella Puglia. Nel bacino del Sangro che investe una quota ridottissima della superficie regionale e per il resto è abruzzese, c’è un paese che si sdoppia, Pescopennataro sul monte e S. Angelo del Pesco sul fiume; qui prevale il modo orografico, i monti dell’Altissimo Molise, sul sistema di valle. Il collante della struttura insediativa, detto diversamente è la montagna e non il fiume, senza dunque che vi siano interazioni con l’oltresangro.

6 - La divisione in provincie, un caso non semplice

In effetti, il Molise come entità geografica a sé stante non esiste e ciò lo si dice non perché va tanto di moda oggi, ma perché non ha caratteri fisici così definiti da poterlo distinguere nettamente dai territori contermini. Il dibattito sull’esistenza o meno del Molise, seppure surreale, ha qualche senso se riferito al suo essere regione come la intendono i geografi: non fu il riconoscimento di una precipua identità regionale che portò i francesi ad istituire nel 1806 la Provincia di Molise, bensì esigenza di funzionalità amministrativa. Lo Stato venne ripartito in Province le quali dovevano avere dimensioni rapportabili fra loro per cui fu, pressappoco, un puro caso che questa Provincia coincidesse, peraltro parzialmente, con il vecchio Contado di Molise. È questa l’origine dell’equivoco il quale, detto diversamente, è che si è ritenuta la denominazione Provincia di Molise derivante dalla sovrapposizione di questa con un’area che geograficamente e storicamente fosse il Molise; in altri termini ancora, il predicato “di Molise” venne adoperato dal governo napoleonico per identificare la nostra Provincia solo perché il suo capoluogo non possedeva una forte riconoscibilità. Altrove, infatti, le Province sono, nel nome, associate a quello delle loro “capitali”. Campobasso non ha il rango di una vera e propria città, né lo aveva allora e il chiamare la Provincia “di Campobasso” non sarebbe stato utile per permettere a chiunque di individuarla con prontezza. Rimanendo nello scherzo qualcuno avrebbe potuto esclamare: “Campobasso, chi?”

Isernia

Quando si è cominciato a parlare di regioni ed è avvenuto qualche tempo dopo ci si è trovati, nel delimitarne la mappa, di fronte ad una Provincia che non era intitolata ad un centro urbano, ma ad un’area, proprio come si conviene alla regione. Tale miscomprensione ha portato alla nascita di una Regione davvero piccola, di una taglia che andava bene per una Provincia (Campobasso come Provincia nell’estensione territoriale del 1806 era simile alla maggioranza delle Province). Si vuole dire che è avvenuto il passaggio dell’applicazione del termine Molise da Provincia a Regione con un automatismo che non si spiega fino in fondo. È vero che la fondazione della Provincia di Molise era ispirata da grandi pensatori, Galanti e Cuoco, e, però, essa appare come un’operazione promossa da poteri esterni, lo Stato partenopeo, verticistica, e non dalla sensibilità popolare. La coscienza della “molisaneità” maturerà nella società locale in seguito portando alla richiesta, accolta nella Costituzione, di una Regione autonoma e ciò, cioè la convinzione dimostrata la volontà di indipendenza tanto più sorprende se messa a confronto con altre realtà, prendi la Romagna che continua a convivere con l’Emilia. Tutto è partito da lì, lo si ripete, dal nome scelto per la Provincia agli inizi dell’800. La storia delle istituzioni non finisce, comunque, lì e tra le evoluzioni successive, oltre alla formazione della Regione, tappa fondamentale, vi è la comparsa della Provincia di Isernia. Anche in questo caso si ripresenta il problema del nome che se ufficialmente è quello appena visto, nella vulgata diviene quello di Pentria. Pure adesso non c’entra la geografia né tantomeno l’etnia in quanto tale termine che evoca l’antica civita dei Sanniti, il periodo aureo della nostra terra, serve per attribuire una patente, se non di, per così dire, nobiltà, identificativa del comprensorio amministrato. Non c’è un chiaro motivo per cui la sua superficie sia inferiore, di ben due terzi, di quella della Provincia in cui ha sede il capoluogo regionale, se non quello che il centro cui fa capo è meno importante dell’altro (una spiegazione plausibile è che il territorio provinciale sia dimensionato in base alla consistenza demografica del suo polo di governo, ma non è pienamente convincente). Il Molise viene ad avere, in questo modo, due capoluoghi provinciali il che fa accrescere nello stesso tempo lo status della Regione il quale si accresce, uno dei parametri per misurarne la consistenza, se possiede più Province. Il Molise non è più il “nome di comodo” utilizzato per indicare la Provincia degli inizi essendo diventato il territorio che comprende più articolato e di conseguenza si rende necessario per una sua parte l’impiego di un ulteriore termine, appunto Pentria.

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Ambedue i capoluoghi di Provincia ricadono nell’antico Contado di Molise che è poi la fascia collinare e montana dell’attuale Molise; essi si collocano in prossimità dei rilievi appenninici e ciò rende sbilanciata la regione dal punto di vista amministrativo a favore delle zone più interne. Sull’Adriatico ci sono Termoli e gli altri Comuni rivieraschi, un tempo Capitanata, che con il loro peso demografico riequilibrano la distribuzione della popolazione, ma non degli uffici e ciò potrebbe spingere la maggiore città costiera a richiedere l’istituzione di una terza Provincia (quale sarà il nome?). I popolosi insediamenti litoranei ribaltano la situazione che si ha al capo opposto della regione, quello pedemontano, in modo speculare, determinando la concentrazione degli abitanti ad est e ad ovest del Molise, mentre al centro non vi sono agglomerati residenziali significativi configurandosi quest’ultimo come una sorta di iato tra le due polarità. Riprendendo il discorso iniziale, la Provincia di Molise come qualunque altra aveva bisogno di un capoluogo che era arduo da stabilire non potendo sfruttare centri che avessero svolto le medesime mansioni in precedenza in quanto la sua delimitazione territoriale non aveva corrispondenza con partizioni amministrative ante-dominazione francese. Del resto nel Molise non vi erano entità urbane che si imponessero sulla struttura insediativa, al più vi erano grossi borghi che avevano il predominio esclusivamente sul circondario di competenza. Campobasso presentava requisiti di centralità seppure distante dalla costa, un certo attivismo commerciale-artigianale, una tradizione storica di rilievo legata alla figura del Conte Cola che favoriscono la nomina a capoluogo della Provincia che conserva tuttora. Ricapitolando, le Province sono dei ritagli territoriali effettuati in relazione alle necessità di efficienza dell’amministrazione pubblica e, quindi, il fatto che abbiano o abbiano avuto un nome è secondario (Molise o Pentria). In base a ciò dovrebbero avere una dimensione standard, uniforme: se prendiamo come ampiezza ottimale quella della Provincia di Isernia vediamo che il Molise, essendo quella di Campobasso il doppio dell’altra, dovrebbe razionalmente essere scomposto in 3 unità provinciali, tutte della medesima grandezza. È logico, pertanto, secondo il ragionamento esposto la nascita di una terza Provincia con epicentro in Termoli.

Campobasso

7 - Una pluralità di luoghi, una pluralità di nomi

Forse perché ridotto ad uno striminzito, al di là della portata, canale, ingabbiato da argini cospicui che lo separano, salvo che in occasione della spaventosa piena di 17 anni fa, rendendolo poco percepibile da lontano, dalla stessa Bifernina che qui si allontana dal suo letto, o forse perché la vallata, fino alla diga del Liscione angusta, si è tanto allargata diventando addirittura sproporzionata rispetto alla dimensione dell’asta fluviale, il Biferno quando passa nel Basso Molise non è in grado di condizionare l’identità della zona. Fa riferimento al suo nome la denominazione del Consorzio Industriale di Termoli, ma è un semplice omaggio al corso d’acqua, peraltro dovuto perché una parte dell’agglomerato produttivo occupa il suo alveo, lì dove esso formava una serie di anse prima della rettificazione. Non è che nella fascia costiera, tanto più che si tratta di una pianura, luogo privilegiato per il transito dei fiumi, il sistema idrico non incida sulla conformazione territoriale, solo che in tale ambito l’acqua è confinata nelle maglie della bonifica la quale dà un’impronta forte ad un’ampia fetta di questa superficie. L’azione dell’uomo è stata decisiva nel determinare il cambiamento che è avvenuto, da un lato la canalizzazione del Biferno e dall’altro la realizzazione della rete di bonifica. Per i motivi esposti non si usa definire bifernini gli abitanti dei comuni a lato della valle, neanche quelli dei paesi che stanno immediatamente al di sopra del suo alveo e cioè Campomarino e Portocannone, a differenza di quanto succede in precedenza, da Boiano a Casacalenda.

Biferno

L’appellativo, in effetti, spetta unicamente a coloro che vivono nei centri il cui perimetro amministrativo è toccato dal fiume, alcuni dei quali, Castellino e Petrella (Tifernum, da cui Tifernino, in latino significa Biferno) si servono della specificazione di bifernino, non qualunque Comune ricadente nel bacino idrografico come potrebbe essere la stessa Campobasso la quale risulta separata dall’asse fluviale per via della popolosa frazione di S. Stefano, quasi un’entità autonoma, che si interpone tra la città e il fondovalle. La situazione è abbastanza simile nei bacini del Trigno (ad esempio Bagnoli del T. e in Abruzzo Celenza sul T.) e del Volturno (prendi Colli al V. o Cerro al V). Una considerazione doverosa è che le delimitazioni comunali tendono a comprendere al loro interno un pezzo di corso d’acqua la quale è una preziosa risorsa per cui presentano una forma allungata che va dal monte al fondovalle fluviale che fa sì che siano tutti “rivieraschi”, se non dei fiumi principali, di importanti affluenti quali il Callora per S. Massimo, il Verrino per Agnone e Castelverrino per l’appunto. Ritornando per un attimo al comprensorio basso molisano, in qualche modo per avvalorare la tesi sostenuta che lì il Biferno non riesce ad essere l’ “anima” dei luoghi, si riconosce facilmente che per le comunità di origine slava e albanese la riconoscibilità del territorio non è su basi geografiche, bensì etniche. È ancora molto forte il senso di appartenenza alla civiltà di provenienza e c’è un richiamo per chi è fuggito dall’Albania, ovunque all’eroe fondatore, nelle piazze e vie dei borghi e persino nell’insegna che ha avuto un albergo nel capoluogo regionale, Scanderberg, di proprietà di una famiglia di Ururi (ovviamente ciò accade negli altri numerosissimi insediamenti di albanesi che in Italia sono 150.000 dei quali 60.000 stanno tra la Calabria e la Sicilia). Quello della centralità dei fiumi per dividere in unità sub-regionali la nostra terra è uno dei modi, non di certo l’unico. Alle volte funziona, alle volte no. Un caso nel quale l’asse fluviale si rivela essere elemento dissociativo è quello del Volturno subito dopo aver ricevuto l’apporto del Vandra e del Cavaliere i quali lo hanno reso assai grosso. Fino al 1825 quando i Borboni costruirono il ponte dei (ben) 25 archi esso era invalicabile, venendo a costituire la barriera tra il Contado di Molise e la Terra di Lavoro.

invaso del Liscione

Superata tramite l’opera di scavalcamento tale divisione essa sembra, comunque, permanere ancora oggi nel modo di sentire collettivo, su una sponda la Pentria e sulla dirimpettaia il Venafrano. In questo punto del fiume converge pure l’area che comprende i cinque comuni (Capriati, Prata, Pratella, Valle Agricola e Fontegreca) un tempo molisani e trasferiti durante il Fascismo alla neonata Provincia di Caserta, città che era diventata raggiungibile con facilità grazie al ponte. Una scomposizione del Molise che era iniziata con l’Unità d’Italia allorché, ciò avviene al capo opposto della regione, vengono assegnati alla Provincia di Benevento istituita nel 1861 Morcone, Campolattaro, Sassinoro, S. Croce del Sannio. All’indomani della nascita del nuovo Regno la Provincia di Campobasso, unica per tutto il Molise, dovette apparire tropo grande e ciò fu usato come giustificazione per la sottrazione di alcune parti poste ai suoi lati estremi; il paradosso è che se per Provincia era eccessivamente ampia, per Regione, al contrario, è assai piccola, la penultima. Con la perdita dei comuni della valle del Tammaro si ha un ulteriore smembramento del Sannio a meno che, ma non lo si condivide, si voglia considerare Benevento la capitale di tale antico Stato e quindi ritenere quello attuato un processo, al contrario, di riaccorpamento, smembramento che ha avuto inizio con la conquista del Sannio da parte di Roma la quale lo spezzettò in porzioni distinte (il popolo sannita era composto dalle tribù degli Irpini, Caudini, Pentri, Frentani, Caraceni le quali ultime tre erano presenti nel territorio molisano, il che rivela anche in età antica l’assenza di unitarietà della regione) per controllare meglio una popolazione così riottosa, secondo il motto divide et impera. In conseguenza di questa frammentazione si ha che il Sannio si trova appartenere a più amministrazioni provinciali, tre se si somma quella casertana, i Sanniti Irpini venendo meno, in questo modo, quell’unitarietà che aveva il Molise quale fulcro della nazione sannita. Matese è l’indicazione di un “circondario” che si sovrappone a quello che si identifica con il termine Sannio, ma non totalmente in quanto il secondo si estende oltre i margini del massiccio montuoso; una giustapposizione del medesimo tipo si ha anche tra le parole matesino e bifernino, siamo, lo si segnala per inciso, di nuovo su questo fiume, usate indifferentemente per chiamare i residenti a Boiano che non sono mai individuati come sanniti e tanto meno pentri. Ciò succede per le frequenti trasformazioni che si sono avute di scomposizione e ricomposizione territoriale nel corso della storia.

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8 - I cambiamenti nello spazio e nel tempo delle realtà molisane

Per analizzare i cambiamenti nel paesaggio molisano è bene adottare inizialmente due distinti sistemi di coordinate, basate su due parametri distinti, quello dello spazio e quello del tempo. In seguito vedremo che essi si ricongiungono in un unico criterio di lettura, quello spazio-temporale in cui le due chiavi di interpretazione si confondono, ovverosia si fondono. È un po’ ciò che ci hanno insegnato le Avanguardie Artistiche del secolo scorso quando con il Cubismo hanno aggiunto alle tre dimensioni canoniche della raffigurazione delle cose, superficie, altezza e volume, descrittive dello spazio, una quarta, appunto la quarta dimensione, che è il tempo il quale è per gli esponenti di tale corrente pittorica (e anche scultorea, vedi il “futurista” Boccioni) il movimento dell’osservatore intorno all’oggetto. È questo spostamento, che consente la vista all’unisono delle varie facce e di ciò che si intende rappresentare, a dare la visione completa della realtà. La fusione di spazio e tempo non è solo il fondamento dell’arte contemporanea, ma pure di altri campi della cultura dei nostri tempi, compresa la scienza essendo l’essenza della teoria della Relatività. Questa temperia culturale informa ormai da tempo anche il mondo dei paesaggisti, i quali in prevalenza architetti sono abituati, poiché l’architettura partecipa alle questioni figurative insieme a quelle scientifiche, a misurarsi con il tema della simultaneità di spazio e tempo. Dunque, procediamo.

Carretto

La regione, in senso spaziale, va suddivisa tra basso, medio e alto Molise. Il panorama che abbiamo di fronte è costituito da un’area pianeggiante, oggi la più sviluppata, con insediamenti industriali, in verità in declino, agricoltura intensiva, abitati cresciuti in maniera consistente e, sulla striscia litoranea, aggregati turistici, da una fascia collinare dove, salvo il capoluogo regionale, si avverte un arretramento della presenza umana, da una zona montana, “costituzionalmente” poco popolata in cui il declino demografico appare irreversibile. È, ciò che si è esposto, un modo di vedere “sincronico”, cioè con tutti i luoghi dei quali si compone la terra in cui viviamo descritti in contemporanea, nel senso sia di età contemporanea sia visti l’uno fianco all’altro. L’ottica “diacronica” è, invece, quella dello studio storico, quindi l’evoluzione, la quale è differente tra ambito e ambito, che ciascuno dei territori ha avuto. Qui da noi le grandi fasi della storia non hanno interessato nella stessa maniera ogni angolo della regione: da quella sannita in cui la popolazione prediligeva i rilievi montuosi e, perciò, i comprensori più interni a quella romana nella quale gli indigeni vennero costretti a scendere nel piano, nei fondovalle, da quelle medesime “terre alte”, ad arrivare a quella novecentesca in cui si è assistito ad un autentico capovolgimento di fronte perché le trasformazioni hanno interessato, le più consistenti, il Basso Molise, il quale fino ad allora, vale a dire dalla notte dei tempi, non si era mai affacciato sull’ideale palcoscenico della Storia.

Capracotta

Alle mutazioni nel contesto territoriale bassomolisano ha fatto da contrappunto l’immobilità, per non dire immobilismo di quello altomolisano. In definitiva, la storia ha attraversato il Molise in momenti diversi e in punti diversi, magari ritornando sui suoi passi come quando nell’alto medioevo si ritornò, dato che le piane erano diventate inospitali per i frequenti allagamenti, ad abitare in altura, anche se non nei recinti sannitici, oppure allorché nel Secondo Dopoguerra dalla dispersione insediativa nei tanti minuscoli borghi risalenti alla dominazione normanna che sono in collina, con un processo inverso, si è passati ad una concentrazione degli abitanti nei centri di origine romana che sono di pianura. Da un lato tale vero e proprio saliscendi, da un altro lato lo spostamento degli interessi, innanzitutto economici, e, di conseguenza, delle persone sulla costa. Quest’ultimo è un fenomeno che è avvenuto con tempi rapidissimi, se rapportato alla lentezza delle modificazioni della distribuzione demografica e delle attività intervenute in precedenza. È come se il Molise nei secoli sia stato composto, scomposto e ricomposto una pluralità di volte. Colui, pertanto, che voglia comprendere a pieno la realtà regionale dovrà muoversi su e giù nella storia e nello spazio assumendo una modalità di osservazione quadridimensionale, simile a quella dei Cubisti o se si vuole dei Futuristi se non fosse che questi ultimi amavano la velocità, per loro la vera novità dei tempi moderni, la quale non si confà al lento fluire, c’è chi la chiama stagnazione, degli avvenimenti dalle nostre parti. Non veloce, di certo, altrimenti non si colgono i particolari (mettiamo il perché di una contea longobarda che fa capo a un semplice villaggio, è il caso di Pietrabbondante e di Rotello, oppure la ragione per cui, date le identiche caratteristiche dei siti in cui sono sorti, dei municipi di Bovianum e di Saepinum solo il primo ha avuto una continuità di vita, la cittadina odierna, e così via) ma, comunque, dinamico per mettere in relazione fra loro località distanti nel tempo, ad esempio il monastero De Iumento Albo nell’agro e Civitanova, forse “generata” da esso, e nello spazio, i poli opposti della transumanza che sono le montagne dell’Altissimo Molise e le distese pianeggianti a confine con il Tavoliere.

Come si è formato il Molise attuale

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Vengono prima i circondari e poi i loro capoluoghi nel senso che occorre innanzitutto individuare le ripartizioni geografiche e solo dopo i loro centri. Così i napoleonidi stabilirono la suddivisione del territorio molisano in tre ambiti distinti, uno a est, uno a ovest e uno in mezzo, e di seguito i poli, urbani, di ciascuno di essi. Isernia a occidente e Larino a oriente apparivano già predisposti per tale ruolo, delle entità urbanistiche belle e pronte per assolvere al compito di polarità direzionale del distretto di appartenenza. 

Nella partizione territoriale baricentrica della regione mancava una realtà insediativa idonea a svolgere la funzione di perno di questo areale; in più, visto che siamo nella zona mediana della appena istituita Provincia di Molise esso doveva essere anche l’insediamento di riferimento per l’intera superficie provinciale o, fa lo stesso, regionale. Non c’è niente da dire a proposito di tutto questo, è una questione scientifica, la geografia è una scienza, non vi furono altre valutazioni nel delineare l’assetto della regione o provincia che dir si voglia, mettiamo di tipo storico

l’essere stato quel comune designato municipio romano e/o sede di diocesi perché Campobasso non lo era. Si partiva dal grado zero come ogni cosa nell’Età dei Lumi, a governare doveva essere la Ragione e nient’altro. Torniamo, però, ora a noi, alla scelta della cittadina cui attribuire il rango contemporaneamente di capitale della circoscrizione mediana e della provincia intera. Il punto focale del Molise era ed è Campobasso che per dimensione demografica non costituiva l’unità comunale più grande della nostra terra, per un certo periodo lo era Agnone, la sua popolazione, di certo, andava incrementata. Si provvedette perciò a predisporre un piano di ampliamento dell’abitato che va sotto il nome di Borgo Murattiano. 

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L’impostazione urbanistica di questo, così come lo è stata la riorganizzazione spaziale della Provincia è figlia dell’Illuminismo, sono frutto dell’Età dei Lumi le idee della scacchiera viaria e del verde urbano. La città, adesso possiamo finalmente chiamarla così, raddoppia la sua estensione con la nascita del Nuovo Borgo voluta da Murat. In definitiva, la sua designazione a capitale del Molise viene fuori da un progetto per così dire astratto teso a definire un impianto ex novo dell’assetto degli stanziamenti antropici e tale decisione ha tenuto conto delle potenzialità del sito in termini di raggiungibilità sia dai paesi del circondario ad essa pertinente sia dei capoluoghi degli altri distretti oltre che dalla capitale del regno. 

Campobasso è l’epicentro della regione rappresentando una cerniera tra le varie parti se non proprio un passaggio obbligato. Essa è a cavallo dei bacini idrografici del Biferno e del Tappino-Fortore, due dei tre bacini fluviali di cui è costituito il Molise. È il punto nodale della maglia tratturale la quale in quel tempo era la rete viaria più efficiente e, del resto, vi aveva sede la Doganella organismo preposto al controllo della transumanza. Con la sua investitura a vertice della Provincia su di essa nella seconda metà dell’800 quando fanno la loro apparizione nel Molise convergono le linee ferroviarie, è ovvio non quella costiera. Cambiamo ora angolo visuale e guardiamo l’accaduto, meglio quello che sarebbe potuto accadere, non dal punto di vista campobassano

ma da quello isernino. Isernia pur nella sua perifericità anzi proprio per questo avrebbe potuto aspirare essa ad essere la città-regina per la sua vicinanza al re, la coppia regale, cioè a Napoli; ciò avrebbe garantito una “catena di comando” più corta, una più rapida trasmissione dei comandi regi verso la periferia del regno, più frequenti contatti tra l’autorità provinciale e quella statale. L’importanza dei collegamenti è messa ben in risalto nella cittadina pentra dalla rilevanza delle opere ferroviarie e stradali lì presenti per quanto riguarda il treno l’imponente ponte che scavalca con un balzo il Carpino divenuto simbolo della rinascita della città dopo la Seconda Guerra Mondiale, mentre per quanto riguarda il trasporto automobilistico

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il ponte ad arcate sovrapposte Cardarelli. Il rilievo che hanno acquistato le comunicazioni, all’opposto, non la si percepisce a Campobasso perché il treno arriva in stazione sbucando da una galleria e l’unico segno che evidenzia il raggiungimento della città dalla principale arteria extraurbana, la Sannitica, è, era, il filare di conifere che costeggia l’ex Romagnoli, Campobasso non ha ponti di sorta, non vi è neanche un fiumiciattolo nell’ambito cittadino. La riforma organizzativa napoleonica cambiò le gerarchie urbane preesistenti. Si prenda il caso, caso limite, di Trivento, antichissima e nobile città, che rimane marginalizzata, non

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servita né dalla mobilità su gomma né da quella su ferro. Va, infine, detto che l’azione rivoluzionaria, termine giusto in quanto si parla dei francesi, ha quale campo di applicazione il pezzo, invero predominante, del Molise che è ed è stato sempre Molise non coinvolgendo nel ridisegno amministrativo la fascia costiera che era stata appena staccata dalla Capitanata nonostante il rilievo economico, sociale, ecc. di un centro popoloso come Termoli che, comunque, riuscirà in futuro a far valere il suo peso subentrando a Larino nella guida del comprensorio bassomolisano.

Il Molise come esperimento di ingegneria istituzionale

Siamo frutto di un esperimento di ingegneria istituzionale. Siamo nati in provetta per così dire, figli di una riforma amministrativa calata dall’alto, da molto in alto voluta come è stata da Napoleone. Un’azione di revisione dell’amministrazione statale che ha riguardato tutti gli Stati annessi dall’Impero francese e che ha avuto come campo di applicazione per primo il Regno di Napoli. Un radicale processo riformatore quello attuato dal governo napoleonico che ha riguardato oltre al sistema gestionale della cosa pubblica anche altri settori, dall’eversione del feudalesimo all’abolizione degli ordini monastici e, decisivo per noi, all’abrogazione della transumanza. Tutto è in fermento nel cosiddetto decennio francese in giro per l’Italia e specialmente qui, non fosse altro che il Reame napoletano è l’entità statuale più grande della Penisola, non peraltro solo tra quelle conquistate dalle armate bonapartiste.

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Il modello di riferimento coincide con l’organizzazione, diciamolo pure, statalista che si era data la Francia connotata da una scarsa autonomia delle realtà locali, premessa doverosa. La novità non fu tanto l’istituzione delle province perché, seppure con connotazioni diverse, c’erano, qualcosa di simile, già in passato, ma altro che vedremo fra poco. Nel nostro Mezzogiorno le province rimasero pressoché le stesse di quelle presenti durante l’ancièn regime. Le regioni storiche del Sud erano 12 mentre le Province, il nuovo ente, nel ridisegno iniziale assommavano dapprima a 13 e poi a 14 con la creazione della Provincia di Campobasso da parte di Gioacchino Murat scorporando il vecchio Contado di Molise dalla Capitanata cui era stato unito da Giuseppe Bonaparte, quindi svincolando il territorio molisano dalla Puglia. È da dire, abbastanza incidentalmente, che questa suddivisione rimase invariata con il ritorno al trono nella città partenopea dei Borbone e solo con l’Unità d’Italia subì una rettifica, che peraltro ci riguarda direttamente staccando una parte del Molise per assegnarla alla neonata Provincia di Benevento.

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La novità maggiore, comunque, lo si era preannunziato sopra, non fu quella della formazione della Provincia bensì nella loro ripartizione in “circondari”. Questi risultavano essere in numero di 40, passati poi a 49; tra le aggiunte vi fu quella di Larino perché in principio nella nostra regione o provincia che dir si voglia non erano previsti solo quelli di Isernia e Campobasso. Si trattò di un’autentica “innovazione di sistema”. Si instaurò una specie di catena di comando con in cima la capitale del Regno cui facevano capo i capoluoghi di Provincia che a loro volta erano il riferimento dei Comuni vertice dei Circondari. La proliferazione delle unità amministrative è la cosa che colpisce di più di questa riforma. Potrebbe apparire, la struttura decisionale che ne deriva, un qualcosa di macchinoso, di ridondante, un appesantimento delle funzioni di gestione del territorio se non un aggravamento burocratico nella definizione di qualsiasi tipo di intervento da effettuarsi localmente; non si tratta, ad ogni modo, di una frammentazione del potere il quale rimane saldamente in mano alla Corona, non ha nulla a che vedere con il conferimento di autonomia ai territori. Il senso profondo di tale minuziosa articolazione territoriale dell’apparato pubblico è un altro ed è la capillare diffusione della presenza dello Stato in periferia avvicinando, ma non troppo essendo gli organismi direzionali non elettivi, la popolazione alle sfere del potere.

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È un disegno imposto dall’esterno, viene d’Oltralpe dove nel 1789 la Rivoluzione aveva posto le basi per la creazione di uno Stato moderno anzi contemporaneo in quanto l’età contemporanea nei manuali di storia la si fa iniziare proprio da tale data. Dunque un Meridione che una volta tanto sta al passo con i tempi precedendo in questo altri ambiti territoriali del continente; esso si rivela un antesignano a livello nazionale e europeo di una visione aggiornata della statualità. L’equivalente del Prefetto francese era l’Intendente, Biase Zurlo era in carica quando fu varato il piano del Borgo Murattiano a Campobasso, del Sotto Prefetto, con una perfetta analogia, il Sottointendente. Forse siamo andati troppo oltre nell’esaltazione del prendere forma di una istituzione statale vera e propria nel Sud d’Italia all’ingresso nella contemporaneità, sarebbe stato opportuno rimarcare che questa era l’unica porzione dello Stivale in cui fin dall’epoca dei Normanni, i quali avevano puntato assai su ciò, qui vi era uno Stato omogeneo non un insieme di città-stato o di domini principeschi di estensione ridotta il che favorì l’applicazione a questo pezzo d’Italia dello schema governativo francese. Detto diversamente, il travaso al Sud delle idee transalpine sul governo del territorio, ricordiamo che la Francia era uno Stato unitario da secoli, fu facilitata dal trovarsi di fronte ad una realtà statuale di antica origine. Con l’unificazione della nostra Nazione tale specialità si è persa, la singolarità meridionale non è più percepibile per via dell’omologazione nell’assetto organizzativo dell’intero Paese. Rimane l’orgoglio per l’essere stati il prototipo di una entità amministrativa diventata di esempio alle altre realtà territoriali italiane.

Le delimitazioni del territorio regionale

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C’è confine e confine, è difficile dire una volta per tutte cosa delimita il perimetro regionale, dipende dalla situazione geografica. Si ritiene che, generalmente, siano le catene montuose a definire i contorni di una regione ma non è sempre così. Si prenda il caso dei monti dell’alto Molise i quali non costituiscono il limite da questo lato del Molise, lo è invece il fiume Sangro. Forse ciò è dipeso dal fatto che questo sistema montuoso, non troppo alto, non è difficile da valicare mentre tale corso d’acqua nel periodo in cui è in piena è pericoloso da attraversare. Rimaniamo al corpo idrico, poi ritorneremo alla montagna, per evidenziare che se la sua valle è un qualcosa di stabile, una fascia di territorio fissa lo stesso non si può dire del corso fluviale il quale una volta si sposta su una sponda una volta sull’altra tanto che l’Isola di Fonte della Luna pur essendo amministrativamente molisana insiste attualmente nella riva abruzzese. I crinali montani sono le linee più certe per segnare la separazione tra due regioni, come si era promesso si torna a parlare di montagna, purché si tratti di massicci imponenti come lo sono le Mainarde e il Matese.

Si prende spunto da quest’ultimo per mettere in luce, contrariamente a quanto si presuppone, che nel caso di complessi carsici la linea di cresta non la si può considerare uno spartiacque; infatti, la risorsa idrica viene immagazzinata nelle cavità sotterranee, è il carsismo, per cui l’acqua, quella del Biferno, che fuoriesce a Boiano on è detto che sia quella riversata dalle precipitazioni atmosferiche, neve e pioggia, sul versante molisano del gruppo montuoso matesino. Non si intende approfondire il tema che è oggetto di un’annosa diatriba ma solo segnalare la complessità dell’attribuzione della proprietà dell’acqua ad una delle regioni confinanti. Gli antichi probabilmente facevano coincidere i termini del territorio con gli spartiacque proprio per prevenire i dissidi. Le guerre per l’acqua sono ricorrenti nella storia, si pensi a “la secchia rapita”, conflitti facilmente dirimibili se fosse vero che le dorsali sommitali a cavallo tra due entità statali sono delle linee di displuvio; nessuno può sapere con sicurezza di chi è il quantitativo idrico che scaturisce da una sorgente.

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Visto che ci siamo proseguiamo ad osservare la sommità del Matese, ora non nel suo sviluppo lineare bensì nel suo punto emergente, la vetta che è m. Miletto con il circo glaciale ad essa sottostante che è il frutto di uno sprofondamento a causa del ghiaccio accumulatosi sopra uno spicchio della stessa, quasi uno sfettamento della cima. Non è inverosimile l’ipotesi che il crinale prima del crollo predetto corresse un po' più in qua e ciò ci dice che anche in montagna considerata il mondo della stabilità i confini nel tempo possano variare. Si coglie l’occasione avendo nominato il circo glaciale che forse anche l’altezza del Miletto prima del collasso del ghiacciaio era maggiore.

Questa dell’altitudine raggiunta da un monte è sempre stato un motivo di orgoglio per la comunità cui appartiene. In diversi, tutti campani, stanno facendo ricerche topografiche per cercare di appurare se il vertice della Gallinola, finora considerato molisano, rientri invece in Campania nel qual caso esso sarebbe il “tetto” di questa regione scavalcando il Cervati che è nell’Appennino Lucano. Se quelle alle quali abbiamo accennato sono configurazioni dei confini più o meno consolidate ve ne sono altre, in verità una sola che è la divisione tra le porzioni molisana, campana e pugliese del lago di Occhito, che in passato, prima dell’invaso, erano chiare e che oggi non son distinguibili, come nel caso, appunto, di un bacino idrico.

er segnare questi confini si dovrebbero apporre delle boe dentro l’invaso in corrispondenza dei confini delle regioni, operazione che però non ha alcun senso. La massa acquosa non è ripartibile e alla stessa maniera la massa arborea, la distesa forestale che ricopre una vasta area tra Agnone, Molise, e Rosello, Abruzzo; non è individuabile per la densa copertura boscosa dove finisce l’uno e comincia l’altro e del resto i biotopi non hanno frontiere, essi impongono anche in termini di azioni di tutela di adottare misure transfrontaliere. È fluido il confine regionale che è al contempo statale con l’Adriatico, in fin dei conti con i Paesi balcanici nostri dirimpettai.

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La costa può avanzare e retrocedere e per arrestare questa oscillazione, specie l’arretramento si posizionano in mare le barriere frangiflutti che vengono a configurare una scogliera disposta parallelamente al litorale. Le più volte richiamate montagne vanno messe in campo un’ennesima volta perché ci aiutano a spiegare bene, in modo “plastico” il significato più autentico o almeno auspicabile del termine confine il quale etimologicamente deriva dall’insieme di due parole, con e fine, non come vorrebbe l’accezione corrente di separazione. Andando al dunque le montagne non sono fattori di divisione, viceversa di unione e così erano sentite un tempo quando la popolazione era dedita alla pastorizia con i prati in alta quota che venivano sfruttati unitariamente. La nazione sannita comprendeva ambedue i versanti del Matese.

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