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1. Ministoria delle ferrovie molisane

La storia della ferrovia è un tema che non è di interesse, o almeno non dovrebbe, solo per gli appassionati di questo mezzo di trasporto, come gli “Amici delle Rotaie” tra i quali vi sono alcuni isernini, ma ha notevole rilevanza anche per chi si occupa dell’evoluzione storica del territorio. Pure di un territorio, quello molisano, in cui le linee ferroviarie sono poche. Partiamo dall’inizio, anzi dal periodo che immediatamente precede la nascita delle strade ferrate la quale è coincisa pressappoco con la formazione dello Stato unitario; siamo nell’Italia suddivisa in numerosi staterelli, uno dei quali è il Regno delle due Sicilie cui apparteneva il Contado di Molise. Questa frammentazione non favorisce certo l’affermazione di un sistema di comunicazioni a lungo raggio, facendo capo la viabilità alle singole entità statali senza che vi sia un coordinamento interstatuale. Si parla di strade non intendendo comprese in esse le strade ferrate perché queste cominciano a prendere piede dopo l’Unità d’Italia; in verità è proprio alla monarchia borbonica che si deve la costruzione della tratta ferroviaria più antica del nostro Paese, ma il fatto che ricade in un’unica realtà istituzionale, i 36 chilometri tra Napoli e Portici, non smentisce quanto detto sopra relativamente alla debolezza dei collegamenti tra ambiti territoriali appartenenti ad autorità governative differenti.

Passando ora a questa regione vediamo che nei decenni successivi all’unificazione dello “stivale” si ha la realizzazione di due importanti assi ferroviari di interesse super regionale, dei quali uno, quello costiero, è addirittura di scala nazionale, la Napoli (o Roma)-Carpinone-Sulmona e la linea che dalla Puglia, cioè dal Sud, porta al Nord costeggiando l’Adriatico. Fondamentale, dunque, per tenere insieme, perlomeno la sua fascia costiera, la nuova Nazione appena costituitasi. Per quanto concerne la prima delle due direttrici, chiamata anche transappenninica, va rimarcato che essa, seppure di gittata più corta, è ugualmente essenziale perché lega comprensori i quali essendo montuosi sono percorribili con molto disagio per cui tendono all’isolamento. La politica ferroviaria del Governo italiano di quegli anni non si preoccupa solo di permettere gli spostamenti fra le diverse parti dello Stato, occupandosi pure di quelli interni alla regione: abbiamo così la nascita della Termoli-Campobasso che dal capoluogo regionale prosegue in direzione Napoli lungo la valle dell’alto Tammaro, tratta alla quale si ricongiunge, a Boscoredole, la ferrovia che aveva raggiunto Carpinone distaccandosi da tale paese con un percorso che attraversa l’importante centro di Boiano. Sono, come si può vedere, pochissimi gli scambi, li si ripete Boscoredole, Carpinone e Termoli dove si incrocia la Lecce-Bologna, per cui non si può parlare di una rete ferroviaria molisana non venendo a formare una maglia di vari tronchi e, del resto, sarebbe inappropriato definire così l’articolazione dei tracciati descritta non essendo estesa all’intera superficie regionale. È piuttosto il sistema ferroviario del Molise una sommatoria di tracciati ognuno concepito per una propria finalità, senza che si colga una logica complessiva. Lasciamo per un attimo da parte il tema dei fini per precisare che il reticolo del trasporto ferroviario è determinato oltre che dalla interconnessione delle strade ferrate, dalle cosiddette coincidenze, vale a dire dal tempo programmato ad una fermata per trasbordare in un altro treno, lunghissimo nella cittadina adriatica per chi giungendo da Campobasso è diretto, mettiamo, verso Milano. La rete, se vogliamo continuare a chiamarla così, ha da circa un decennio perso un pezzo poiché è stata disattivata la Carpinone-Sulmona, giudicata un”ramo secco”.

Riprendiamo la questione degli scopi dei singoli tragitti, anche perché non si coglie alcuna impostazione unitaria, evidenziando che la Campobasso-Termoli è legata alla richiesta degli agrari, un partito forte nel medio Molise, unità sub-regionale granaria per eccellenza, di portare cereali al porto da cui viene trasferito, mediante imbarcazioni, ovviamente, alle località marittime sede di mercato del prodotto, mentre la Sulmona-Carpinone che ricalca parzialmente una pista tratturale è voluta dagli armentieri abruzzesi e altomolisani per condurre velocemente, in sostituzione della transumanza, le pecore ai pascoli del Tavoliere. Il treno, in definitiva, sembra funzionale alla movimentazione delle merci piuttosto che dei passeggeri. All’epoca, che è precedente all’avvento dell’automobile, la ferrovia è davvero competitiva con la viabilità carrabile in quanto mancavano ancora i camion. C’è un ulteriore aspetto che rende conveniente la ferrovia il quale è paradossalmente connesso con un handicap tecnico del treno che è l’incapacità di superare dislivelli forti il che impedisce ad esso di salire sulle alture dove generalmente stanno i nuclei insediativi; tale limite tecnologico lo obbliga a correre quanto più in piano possibile e ciò se è un problema perché il percorso taglia fuori i centri abitati si rivela, nello stesso tempo, un vantaggio, se non due, potendosi aumentare la velocità se i binari poggiano su un sedime piatto e considerando che la planarità si associa alla rettilineità si ha di conseguenza la riduzione delle distanze. Per rendere pianeggiante il tracciato sono indispensabili gallerie e ponti, opere che richiedono investimenti cospicui, fondi che, negli stessi anni, non vengono stanziati per le arterie ordinarie; bisognerà attendere il secondo dopoguerra per l’ammodernamento delle infrastrutture stradali. Non per la loro manutenzione costante, pur essendo essenziale un patrimonio viario efficiente per il traffico locale, vantaggioso com’è il treno, in passato per il trasporto pesante, per le lunghe percorrenze e meno oggi per gli spostamenti pendolari. Dal momento in cui la Regione ha conquistato competenze nella gestione del traffico ferroviario dentro i suoi confini amministrativi si è ripreso a ragionare sui viaggi aventi mete ravvicinate. A svolgere il servizio dei treni accelerati i quali pur se con destinazione finale extraregionale prevedevano un numero di fermate maggiore di quelli odierni, sostando nelle stazioni di tutti i Comuni, sarà nel Molise Centrale la Metropolitana Leggera che rispetto ai suoi predecessori è stabilito che abbia una frequenza superiore delle corse. Si tratta di treni-navetta, e l’applicazione di questo concetto innovativo di ferrovia è appropriato per aree aventi una certa densità di popolazione, tipo il circondario di Campobasso.

Si pensa abitualmente che siano state le superstrade la principale innovazione in termini di miglioramento delle comunicazioni e, nel medesimo tempo, il “segno” più deciso della modernità impresso sul paesaggio. Non è così, per quanto riguarda quest’ultimo appunto, perlomeno se le contestualizziamo rispetto al periodo nel quale sono sorte, in quanto esse sono apparse sulla scena, visiva, insieme ai nuclei industriali e alle dighe determinando una trasformazione Si pensa abitualmente che siano state le superstrade la principale innovazione in termini di miglioramento delle comunicazioni e, nel medesimo tempo, il “segno” più deciso della modernità impresso sul paesaggio. Non è così, per quanto riguarda quest’ultimo appunto, perlomeno se le contestualizziamo complessiva dell’assetto paesaggistico. Detto diversamente le fondovalli, del Biferno e del Trigno, non possono essere lette come elementi capaci di conferire nuovi significati, quelli dell’ingresso nell’era contemporanea, ai nostri panorami se non congiuntamente alle altre grandi attrezzature, lo si ripete, gli invasi artificiali e gli agglomerati produttivi, realizzate negli stessi anni ’70. Ben più forte deve essere stata la novità, a livello tanto di infrastrutture di trasporto quanto di incidenza (che, seppure poco appariscenti, sono evidenti) sui quadri percettivi, costituita dalle ferrovie all’epoca della loro realizzazione, quasi 100 anni prima.

Il treno è il veicolo che ci ha portato dentro l’epoca della motorizzazione finendo per essere messo in secondo piano qui da noi, a cominciare dagli anni ’60 del secolo scorso allorché si diffuse l’uso dell’automobile il cui acquisto era alla portata di molti grazie al “boom economico”. Il mondo nel quale la strada ferrata si introdusse non solo in senso metaforico, era rimasto immutato pressoché dall’età medioevale, mentre quello della super-strada carrabile seguiva l’avvento della televisione, degli elettrodomestici in genere, delle fabbriche ecc. ragione per cui il clamore che le nuovissime arterie suscitarono fu, ovviamente, inferiore. Nonostante non sia un’operazione, quella che stiamo per fare del tutto corretta, se per archeologico consideriamo qualcosa di ormai finito, ma qui non è così perché i binari originari sono ancora in uso, analizziamo la ferrovia come un esemplare di archeologia industriale. Nella specifica situazione molisana dove non si sono costruiti ulteriori tracciati, successivi a quelli ottocenteschi, ne vi è stato un sostanziale ammodernamento dell’armamentario ferroviario è lecito definire gli esistenti appartenenti al campo dell’archeologia industriale per la loro datazione remota, sempre ammettendo la forzatura sul termine archeologico. Una forzatura, a meno di non voler stravolgere del tutto il significato dell’espressione archeologia industriale, che non è possibile effettuare negli altri settori poiché, con l’eccezione delle centrali idroelettriche di S. Massimo e di Colli al Volturno, interessati da trasformazioni radicali sia degli apparati tecnologici che dei manufatti che ospitano l’attività conservandosi, al massimo, il sedime su cui è poggiata la fabbrica. In ogni caso la carica semantica di cui è dotata la ferrovia alla stregua di un bene culturale è elevata tanto nel caso in cui la si voglia includere tra le testimonianze di archeologia industriale quanto nel caso di volerla riconoscere quale supporto della prima industrializzazione della nostra regione, ribadendo che in ambedue i casi rimane eccezionale, va puntualizzato, la valenza paesaggistico – storica. Guardandola dall’angolatura appena proposta, quella della proto-industria, vediamo che la linea ferroviaria, anche se nata precipuamente per il trasporto di passeggeri, si è rivelata il complemento indispensabile degli opifici con le imprese che si localizzano presso le stazioni al fine di poter rifornirsi della materia da lavorare, dunque in entrata, e di poter spedire verso i mercati di sbocco i prodotti lavorati, dunque in uscita, tramite il trasporto su ferro.

Nel capoluogo regionale si installano in prossimità della stazione i mulini Martino e Ferro (quello della «città nella città») più per la necessità di spedire la farina per mezzo del treno che per ricevere il grano il quale è a chilometri zero trovandosi Campobasso al centro del medio Molise, comprensorio granario per eccellenza. Anche allo scalo ferroviario di Matrice c’è un mulino il quale è tuttora funzionante, ma adesso il trasporto è su gomma. Analoghe motivazioni sono alla base dell’ubicazione dello stabilimento per la produzione di laterizi della ditta Petrucciani vicino alla stazione di Ripalimosani, dunque fuori del centro urbano perché la scelta localizzativa è condizionata pure dall’esigenza di facile approvvigionamento della materia prima, l’argilla la quale proviene da una cava contigua (il materiale è caricato su una teleferica). Fabbriche di laterizio stanno nelle vicinanze della stazione anche a Baranello, Cantalupo e a S. Pietro Avellana, quest’ultima è posta sulla linea Carpinone – Sulmona, ormai diventata un “ramo secco”, fatto negativo non solo per i viaggiatori, ma pure per l’industria che non ha la possibilità di convogliare sul treno le merci; tale “vettore” non più tardi di qualche decennio fa era ritenuto il mezzo di trasporto più conveniente per le realtà produttive e così si predisposero il “passante” ferroviario del Consorzio Industriale di Venafro, mentre in quello di Campochiaro sono stati previsti dei binari cosiddetti morti, per il carico e scarico dei container che viaggiano su treno. Ci sono, poi, gli smistamenti che entrano proprio dentro le aziende quali quello della falegnameria Di Lello a Isernia e lo Zuccherificio. Soprattutto, utilizzare la ferrovia per queste come per altre esigenze è vantaggioso per l’ecosistema. Se non ufficialmente, la tratta che va da Campobasso alla costa è quasi in disuso (si spera che a seguito dell’ammodernamento il traffico riprenda), le corse dei treni essendo ormai sostituite dagli autobus, appunto sostitutivi. Rimanendo sul tema economico, spesso trascurato nel dibattito sul destino delle nostre strade ferrate è da ricordare la ferrovia privata Pescolanciano – Agnone, della quale sono stati addirittura divelti i binari, voluta dalla classe imprenditoriale di questa città che era un importante polo artigianale il quale necessitava di collegamenti moderni per espandere il commercio. Anche la Carpinone – Sulmona e la Campobasso – Termoli erano funzionali all’economia locale, la prima al trasferimento delle greggi in Puglia una volta abrogata la transumanza e la seconda a quella dei cereali del Molise centrale verso il porto, “caricatoio”, della cittadina adriatica. Oggi per tali linee si può immaginare un futuro legato al turismo. Specialmente la Carpinone - Sulmona per gli ambienti bellissimi che viene a toccare e la Pescolanciano - Agnone di cui rimane traccia del percorso per le escursioni. È da sottolineare, infine, che la rete ferroviaria non copre, né copriva, l’intera regione essendo escluso da questo servizio l’alta Valle del Volturno e la media e la bassa del Trigno, oltre a quella del Fortore per la cui costruzione si era speso molto, senza successo, il senatore Magliano.

La decadenza dell’impero romano portò con sé il deperimento dell’antica rete viaria. Nel medioevo doveva essere pressoché impossibile circolare specie in inverno, perché i tracciati erano pieni di buche e di fango. Mancando in questo periodo qualsiasi istituzione pubblica capace di assicurare la gestione delle infrastrutture, la manutenzione delle strade era lasciata a chi le usava. I percorsi viari prediligevano le dorsali sia perché i centri abitati serviti erano arroccati sulle alture sia perché così si evitava l’attraversamento dei corsi d’acqua che avrebbero richiesto la costruzione di ponti, un impegno troppo gravoso. Va, poi, considerato che le zone montane, predilette per il passaggio delle strade, erano sufficientemente stabili e non richiedevano la realizzazione di massicciate in quanto il terreno è qui solido, a differenza dei fondovalle dove è facile impaludarsi. Bisogna attendere l’ultimo periodo borbonico per avere strade carrozzabili al Sud, in ritardo rispetto ad altre parti d’Italia. Questo impegno dei Borboni nella viabilità è figlio dei tempi poiché gli Stati moderni danno grande importanza alle comunicazioni. Se prima i trasporti dovevano essere fatti a dorso di mulo per il miglioramento delle tecniche costruttive delle strade le spedizioni potettero avvenire anche con i carri (a 2 ruote, carretto, invece che a 4, perché non essendo le strade pavimentate l’eccessivo peso del carico sfondava il sottofondo viario).

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Solo dopo l’Unità d’Italia poterono comparire anche nel Molise mezzi di trasporto collettivo come le diligenze prima e i treni che correvano lungo le nuove «strade ferrate». Così come vennero costruite le ferrovie vennero pure costruite delle moderne strade realizzando numerosi ponti (sono esposti con orgoglio i relativi progetti nella sede dell’ex Genio Civile a Campobasso). Le infrastrutture stradali diventano progressivamente un elemento fisso del territorio, alla stregua dei fatti della natura quali i fiumi e le colline, e non più delle linee di passaggio incerte che cambiano a seconda delle stagioni come avveniva prima. All’poca la regione era caratterizzata da una maglia fitta di collegamenti interni, particolarmente efficiente per ambiti ristretti, mentre erano scarse le comunicazioni extraregionali. Quindi vi era una buona mobilità all’interno della regione che metteva in relazione fra di loro i centri urbani, ma essa essendo a raggio limitato non favoriva gli spostamenti con le regioni limitrofe e quindi con il resto della nazione. Solo a partire dagli anni ’70 del XX secolo si ha il sovrapporsi a questo sistema viario di nuove direttrici che assolvono al ruolo di asse di scorrimento veloce a servizio della comunità locale, ma anche a scala nazionale (la “bifernina” e la “trignina” sono le più importanti arterie realizzate). Le superstrade sono di fondovalle, appunto del Biferno e del Trigno e, perciò, pianeggianti; questa non è una novità per l’asse Venafro-Boiano il quale ricalca il tracciato di un’antica strada romana (che, poi, era la direttrice di penetrazione nel Sannio degli eserciti di Roma). Se si considera pure il tratto fino a Termoli si arriva ad avere che è a servizio di circa il 70% dei molisani e non solo, perché tale asta viaria collega fra loro i 3 principali agglomerati industriali, a ovest Pozzilli, al centro Campochiaro ed a est Rivolta del Re. Tanto che essi vengono chiamati assi di sviluppo, le due arterie che seguono il corso dei maggiori fiumi e quella che si sviluppa nella fascia pedemontana del Matese.

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Questi assi di servizio, pensati per i poli di sviluppo, i 3 che si è detto, nel loro svolgimento attirano a sé numerose iniziative produttive, commerciali e ricreative. È vero che la fiducia dei pianificatori sulla capacità automatica delle infrastrutture, tra cui quelle stradali, di indurre uno sviluppo complessivo dl territorio, pure delle sue aree interne, era mal posta, ma nello stesso tempo si riscontra che localmente, cioè al loro contorno, esse hanno contribuito alla nascita di una pluralità di attività economiche, non concentrate, bensì diffuse in un raggio territoriale esteso, esteso quanta è la loro lunghezza, effetto, peraltro non di poco conto. A cavallo tra i 2 millenni si è proceduto alla modernizzazione pure di alcuni, pochi, segmenti della rete di comunicazione collinare, si pensi alla Campobasso-Casacalenda a servizio delle zone cosiddette marginali, la quale se in passato era quella privilegiata per gli spostamenti, oggi soffre di una diminuita frequentazione, fatto che conduce a non curarne troppo la manutenzione. Per diverse strade minori, percorrendo le quali, poiché sui rilievi, si godono interessanti scorci sui paesaggi integri, non alterati, si potrebbe pensare, al fine di rifunzionalizzarle, di attribuire loro anche il ruolo di strade panoramiche attrezzandole allo scopo. Anche nei piani paesistici è presente tale indicazione. Oppure, in quei luoghi, perché magari ambiti boscosi con le piante che bloccano le visuali, dove l’interesse prevalente non può essere quello percettivo, bensì naturalistico, farne delle strade-parco, suscettibilità che ha l’alto Molise. In tutto il patrimonio infrastrutturale viario molisano, non unicamente nei percorsi con valenze paesaggistiche, piuttosto specialmente, in quelli ad alta velocità, per così dire, occorre mettere in campo misure di mitigazione ambientale, dalla piantumazione di siepi ai margini alla realizzazione di sovrappassi per la grande fauna, tra cui i cinghiali, e di sottopassi per le microfaune, in maniera da favorire la concessione tra gli habitat dei tantissimi Siti di Importanza Comunitaria che costellano quasi ogni areale della regione, oltre ovviamente all’intensificazione delle azioni manutentive, di ripristino e di prevenzione in conseguenza della spiccata franosità del suolo in una molteplicità di comprensori collinari.

Partendo da un caso particolare che è quello della ditta Felice in agro di Casacalenda, il cui impianto di betonaggio sembra essere nato in funzione della costruzione della nuova arteria di collegamento nel tratto dalla Bifernina allo svincolo di Provvidenti, affrontiamo questioni più generali. La prima è quella della provvisorietà suggerita dalla provvisorietà del cantiere, questa attività insistendo sul sito del cantiere installato per la realizzazione della strada: percepiamo l’ambito interessato come un paesaggio, per così dire, provvisorio, tanto più che qui il tracciato stradale si interrompe in attesa del finanziamento del successivo pezzo che dovrà ricongiungerlo (vi è già un viadotto incompleto) con quello che porta a S. Elia a Pianisi, parte dell’unica direttrice viaria destinata a collegare la vallata del Biferno con quella del Tappino. Il secondo tema che viene subito in mente di fronte a tale infrastruttura stradale, comprensiva dei manufatti connessi, appunto il cantiere, è quello della velocità delle trasformazioni paesaggistiche; in verità non è proprio così nella nostra situazione perché l’arteria iniziata il 30 settembre 1993 è stata dotata di uno svincolo efficiente per Casacalenda solo da pochi anni. Si è citata tale data perché in quel giorno dovettero trovare avvio tutti i progetti rientranti nel programma finale dell’Intervento Straordinario per il Mezzogiorno, l’ultima grande «infornata» di opere pubbliche che ha interessato il Molise. Stiamo parlando di velocità delle mutazioni dei quadri visivi, una cosa alla quale noi molisani non eravamo abituati almeno fino, siamo negli anni ’70, alla nascita dei due invasi, delle due fondovalle, dei nuclei industriali.

In pochi decenni la vecchia immagine della regione è stata profondamente modificata lasciando i molisani quasi storditi dai cambiamenti in quanto di colpo ci si è trovati al cospetto di quadri visivi del tutto differenti. Ci si è calati in breve tempo in un mondo diverso e il Molise stava diventando irriconoscibile tanto sono state vistose le modificazioni dei panorami, specie in alcuni tratti del territorio come i comprensori, tra cui quello tra Ripabottoni e Casacalenda, attraversati dalle moderne strade. Mai si era vista una simile rapidità nelle modificazioni delle vedute panoramiche, dovendo risalire probabilmente all’epoca romana quando venne creato il municipio della vicina Larino per trovare qualcosa di comparabile, non il medioevo essendo l’incastellamento un fenomeno di lungo periodo. Un arco temporale più breve per le modifiche alla configurazione territoriale lo si ha unicamente con gli eventi bellici, ma, per fortuna, il Molise non è stato fronte di guerra nel secolo passato, o con il terremoto e S. Giuliano di Puglia, centro non troppo distante da Casacalenda, ne è un esempio. Il terzo punto tra gli argomenti di riflessione collegati alla faccenda del cantiere è quello del «non finito», il quale suscita un sentimento che equivale alla perdita di sicurezza dal punto di vista psicologico per il venir meno dei riferimenti visivi, scomparsi i “segni” del paesaggio tradizionale e non ancora affermatosi un paesaggio contemporaneo compiuto. Una strada, anche qualora completata, è una struttura che, per la sua rilevanza fisica, richiede un periodo non corto per essere assorbita nell’immagine dei luoghi. Ci stiamo assuefacendo al non finito che qui da noi impera in molti campi: dalla Ricostruzione post sisma non ancora conclusa neanche nel perimetro del «cratere» in cui c’è pure Casacalenda, alla baraccopoli, adesso siamo lontani da Casacalenda, di Rionero Sannitico per ospitare, sino a non molto tempo fa, persone con case distrutte da una frana, al formarsi, in assenza di un qualsiasi piano, di autentici insediamenti abitativi nella campagna di Campobasso. Non finito è una definizione che può impiegarsi pure per i capannoni produttivi ormai dismessi e non convertiti ad altro uso, neanche a testimonianza dell’archeologia industriale con opportuni interventi di restauro, o i tanti P.I.P. lasciati vuoti (parte della zona industriale Fresilia a Frosolone, ad esempio,).

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Seppure sempre di non finito si parli, quello di prima va definito paesaggio della disorganicità, quest’altro dell’abbandono. Riprendendo le fila del discorso, abbiamo messo in relazione l’impianto di betonaggio da cui si è partiti con 3 effetti percettivi che esso determina e cioè la provvisorietà, la velocità e il non finito. Bisogna, comunque, dare un peso alle cose: il sito di cantiere è una sorta di spia delle problematiche, una è l’arteria nel suo complesso a provocare, per il peso visivo, le sensazioni descritte. Le infrastrutture viarie attuali hanno sempre un grande impatto sul paesaggio che assorbe in sé quello delle opere connesse, per dirlo in altri termini. Una precisazione da fare che non si è fatta all’inizio è che si è presa la strada, quale esemplificazione, se non simbolo nell’età che stiamo vivendo della precarietà che ormai si è insinuata nella visione dei paesaggi. Costruire una arteria lo si fa velocemente poiché ci si avvale di tecniche avanzate, di grandi scavatrici meccaniche, non più il ritmo del lavoro manuale. Pensare che l’esecuzione di tracciati che corrono lungo versanti montuosi, quello tra il Biferno e Casacalenda, la quale richiede l’effettuazione di squarci nei rilievi e riporti di materiali per rendere piano la sede carrabile, ciò che è accidentato, si riescano ad integrare subito nel paesaggio è sbagliato: i processi naturali di riassestamento del terreno durano necessariamente un lungo tempo per cui vi è la provvisorietà nell’aspetto paesaggistico. I paesaggi preesistenti vengono alterati anche se la viabilità nuova segue percorsi precedenti e ciò lo si può constatare lungo l’antica statale per Termoli, tra Campolieto e Casacalenda; l’asse viario cambia, non è più ondulato come quello vecchio per seguire l’ondulazione del terreno e poi vi sono i viadotti per superare i corsi d’acqua oppure per passare con un gran balzo da una collina all’altra e gallerie. Non è stato finora bonificato e restituito alla natura o trasformato in pista ciclabile il sedime della strada che viene abbandonato, a causa, è da ritenere, della norma che stabilisce che i percorsi stradali essendo beni demaniali sono inalienabili e perciò inamovibili. Lungo questa arteria, la quale non è corretto ritenerla una rettifica, un semplice riassesto della Sannitica, sono rare le stazioni di servizio, mentre i sovrappassi e gli svincoli aerei, magari a quadrifoglio, sono inutili. Le strade richiedono nella fase di realizzazione a volte cave di “prestito” e superfici da colmare con la terra derivante dagli scavi, sempre un’area da destinare a cantiere, anch’esse, nonostante siano temporanee, opere complementari al percorso viario e con il quale costituiscono un tutt’uno in termini di incidenza ambientale, di effetti di provvisorietà, di velocità, di non finito avvertiti dalla coscienza collettiva.

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