ASPETTI DEL PATRIMONIO AMBIENTALE
ROCCAMANDOLFI: UN CENTRO ABITATO "ESEMPLARE"
Roccamandolfi, pur essendo un comune piccolissimo (ha, infatti, solo 1.000 abitanti) è pieno di cose da vedere. Cominciamo dal castello situato al di sopra del centro abitato, a non grande distanza dalla strada che conduce allo splendido pianoro carsico di Campitello (circa 1300 metri di altitudine). Si tratta di un maniero di origine longobarda (dal nome del conte Maginulfo che lo fondò viene il nome del paese) dove trovò ultimo rifugio il conte di Molise assediato dal conte di Celano. Quest’ultimo espugnò il castello, peraltro difficile da conquistare perché dal lato verso il paese è ben munito di torri mentre alle spalle vi è l’orrido del fiume Callora. Egli, comunque, non dovette raderlo al suolo, ma la sua riduzione a rudere è un processo di lunga durata e il suo abbandono deve essere dipeso dal fatto che era situato in un luogo troppo impervio. Perciò, qui, non possiamo leggere il passaggio avvenuto altrove a partire dal XV secolo dal recinto fortificato al palazzo nobiliare. La residenza feudale si spostò nel cuore dell’insediamento e perse i caratteri di edificio fortificato. L’antica struttura castellana è stata oggetto di recente di restauri che non sono ancora completati per mancanza di fondi. Di questi restauri eseguiti, come di altri nel Molise, non abbiamo testi a stampa che ce ne forniscano un resoconto. Il palazzo del feudatario è diventato poi della famiglia Berlingieri, una famiglia di «galantuomini», che lo acquistò dopo l’eversione della feudalità. Un componente di questa famiglia ci ha lasciato un libro sulla storia del brigantaggio, particolarmente interessante perché raccontata da un contemporaneo. Il fenomeno del brigantaggio all’indomani dell’Unità d’Italia fu a Roccamandolfi molto cruento. Uno degli episodi più significativi contenuti nel libro fu la cattura del famoso brigante Cimino, nascosto sui monti del Matese: il battaglione di carabinieri che gli dava la caccia era preceduto da un sacerdote con l’ostia consacrata che doveva servire a sconfiggere il demonio che sicuramente si era impossessato di questo bandito. Il suo cranio, racchiuso in una gabbia, venne appeso al campanile, esposto come monito alla popolazione. Per questi precedenti oltre 20 anni dopo i due noti anarchici Errico Malatesta e Carlo Cafiero a capo della “banda del Matese” tentarono di far insorgere la gente del luogo, fidando nel loro spirito ribelle, così come avevano fatto i fratelli Pisacane a Sapri. Bruciarono le carte del municipio, considerato espressione dello Stato oppressore, e offrirono armi ai contadini e ai pastori di Roccamandolfi, considerati eredi dei briganti della generazione precedente, ma la loro spedizione fu un fallimento perché nessuno li seguì. Con il campanile al quale si è accennato prima, siamo giunti alla chiesa parrocchiale dedicata a S. Giacomo, la cui configurazione attuale deriva da un rifacimento settecentesco operato dal vescovo Antonio Manfredi come rivela una lapide posta presso l’ingresso. In questa chiesa si venera S. Liberato, un martire cristiano trasportato dalle catacombe di Roma a Roccamandolfi all’incirca 250 anni fa (questo anniversario è stato occasione di celebrazioni solenni). Ogni anno a ricordo della traslazione delle reliquie del santo conservate in questa chiesa, “comitive” di pellegrini che provengono anche da paesi campani, la prima domenica di giugno ogni anno compiono un lungo tragitto a piedi che dura diverse ore scavalcando la montagna. L’altra chiesa di Roccamandolfi è quella di S. Sebastiano dove si portavano i bambini epilettici pregando S. Donato (che si festeggia il 7 agosto), al quale in cambio si offriva un quantitativo di grano equivalente al peso del bimbo, di guarirli. La chiesa principale sta nella piazza principale dove si trova pure il municipio. Questa piazza nasce da un incontro di strade, una proveniente dalla «Trainara», una caratteristica fontana con lavatoio protetta da una loggia, un’altra che passa sotto il cosiddetto «arco santo», uno spazio voltato legato alla chiesa nelle cui vicinanze vi sono le “misure” del grano scavate nella pietra. Essa è, pertanto, un polo urbano significativo. Questo nodo di strade ruota intorno alla chiesa madre formando vari slarghi a diverse quote e questo continuo cambio di livello crea una certa tensione che drammatizza lo spazio. Tra i segni della religiosità presenti a Roccamandolfi per la sua notevole rilevanza dal punto di vista storico artistico, va segnalata la presenza di una croce in pietra di epoca medioevale. Il simbolo della croce è inscritto in un cerchio ed è sostenuto da una colonna poggiata su un basamento rotondo. La croce è collocata lungo un percorso urbano sotto un arcone al cui interno vi sono sedute anch’esse in pietra. L’impianto urbanistico di Roccamandolfi comprende oltre alla parte abitativa, un intero quartiere destinato alle pecore, la principale risorsa economica del passato. Si tratta di una zona periferica, ma abbastanza ampia, una autentica «città delle pecore», in cui sulle strade, che sono parallele fra di loro e disposte a quote differenti, vi sono le aperture delle stalle. Queste sono strutture originali, ben diverse dalle case d’abitazione, con tetto ad una sola falda e ingresso a monte per il fienile e a valle per gli animali. Le greggi compivano ogni anno la transumanza verso il Tavoliere pugliese; oggi è rimasto l’alpeggio che si svolge sui rilievi del Matese che nel territorio di Roccamandolfi raggiungono la quota più elevata con i 2.050 metri di monte Miletto, una delle vette più elevate del centro-sud. Nella zona montana vi sono molte emergenze naturalistiche, dai “campanarielli”, torri simili a guglie dolomitiche, alle grotte, quale quella denominata “del fumo”, ai pianori tra cui si cita Serra Soda, ai valloni come il vallone di S. Nicola. Nel complesso Roccamandolfi è piena di motivi di interesse, ai quali va aggiunto quello enogastronomico. Vi è un albergo con annesso ristorante che ha rinnovato di recente la gestione dove è possibile gustare i tipici piatti locali. Tra i prodotti più ricercati vi sono i latticini, ma a Roccamandolfi è possibile in particolari occasioni assaggiare le lumache e gli orapi, gli spinaci di montagna.
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LA NASCITA DELL'INDUSTRIA NEL MATESE
Tra le architetture civili dell’area matesina vanno segnalati i cosiddetti «casini» padronali realizzati nel XIX secolo nel territorio di S. Massimo, i quali sono significativi sia dal punto di vista storico in quanto attestano la presenza di vasti possedimenti terrieri, sia dal punto di vista percettivo poiché si pongono quali elementi ordinatori del paesaggio. Il territorio agrario si organizza intorno ad essi. È da sottolineare che la posizione in località elevate dei due casini della Cappella e del Masomartino fa di essi dei riferimenti visivi. Un cenno ai mulini, i quali qui sono tantissimi da non poterli enumerare, che sono sempre stati l’unica attività di trasformazione legata all’agricoltura, prima della nascita dei pastifici (ve n’era uno al bivio di Cantalupo e un altro all’entrata di Roccamandolfi) che avvenne nell’ottocento quando acquistò importanza il consumo della pasta; in precedenza i maccheroni erano limitati ai giorni di festa e il grano veniva consumato prevalentemente sotto forma di pane per cui l’unico segmento dell’industria agroalimentare era dato dal mulino. Siamo arrivati a parlare degli opifici: nell’area del Matese vi è una certa varietà di testimonianze della paleoindustria. Abbiamo una fabbrica di laterizi alla Taverna di Cantalupo, ben visibile perché la ciminiera è più alta di un campanile. Si tratta di una fabbrica a sviluppo orizzontale mentre il lanificio di Sepino è ancora uno stabilimento su più piani (due). Quest’ultimo è particolarmente interessante perché azionato ad acqua. Alla fine del XIX secolo i motori idraulici raggiungono un elevato livello di perfezionamento tecnico che permise loro, nell’industria tessile, di resistere a lungo, pure dopo l’avvento delle macchine a vapore. Il lanificio sta vicino al torrente Tappone non solo per sfruttare l’energia idraulica, ma anche perché l’acqua entra a far parte del processo di produzione dei panni. Il lanificio sta vicino anche al centro abitato nonostante che con l’industrializzazione si sia ormai sciolto il legame che c’era un tempo tra residenza e posto di lavoro; esso, come del resto lo stabilimento di laterizi a Cantalupo, si presenta come il luogo di concentrazione degli operai, sconvolgendo la precedente organizzazione del lavoro il quale, nel campo tessile, veniva svolto a domicilio. L’ultimo esempio di archeologia industriale è la centrale idroelettrica di S. Massimo che ha un aspetto, per le sue facciate in pietra con archetti ciechi a coronamento, di un architettura di stile romanico, non allineandosi per la sua preziosità all’immagine consueta di un edificio industriale, il quale è, di norma, semplice. Il suo interno è inconsueto rispetto al resto delle attività produttive, essendo assenti in esso i lavoratori, ma avendo quali protagoniste incontrastate le turbine che debbono essere solo periodicamente controllate e messe a punto; attraverso gli ampi finestroni dal di fuori si può vedere un ambiente asettico, oltre che deserto, popolato di quadranti, spie luminose, leve. Nel medesimo periodo si realizzano le fontane pubbliche, come quella di S. Massimo che è una fontana monumento in cui l’acqua casca dall’alto, oppure quella di Sepino dove si riutilizza un mascherone rinvenuto ad Altilia facendo in modo che l’acqua zampilli dalla bocca spalancata di un barbaro, una maschera tragica che raffigura un prigioniero (o il dio Oceano) che emette un urlo senza tempo.
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UN FIUME, IL TAPPONE, IN CUI INSIEME ALL'ACQUA SCORRE LA STORIA
È un’area di grande interesse per i valori storici, naturalisti e paesaggistici presenti. Tra gli elementi che concorrono a questa ricchezza vi è sicuramente il fiume Tappone che è dotato di valenze culturali e ambientali notevoli. Non si tratta di una semplice sommatoria di «beni», in quanto essi sono legati a formare un autentico sistema. Il Tappone ha le proprie scaturigini nelle vicinanze del centro termale (il quale purtroppo non è ancora funzionante) Tre Fontane; le proprietà di queste acque minerali sono conosciute da tempo, ma l’idea di realizzare le terme è recente e, del resto, l’interesse per simili strutture ha avuto un incremento ovunque, negli ultimi decenni. In verità, già ad Altilia erano presenti complessi termali i quali sono, in qualche modo, l’antecedente di ciò che è stato costruito in località Tre Fontane. A favorire la nascita di tale impianto che sfrutta le acque delle sorgenti del Tappone, una delle poche del Matese, montagna carsica in cui sono rare le risorgive idriche in quota, vi è la strada che attraverso il passo Crocella scavalca la montagna. A questo proposito va evidenziato che le catene montuose in passato non costituivano un intralcio pesante alle relazioni tra i due opposti versanti, cosa che, invece, si verifica oggi perché i nuovi mezzi di trasporto richiedono strade tendenzialmente rettilinee. Le acque oligominerali delle Tre Fontane oggi vengono imbottigliate in uno stabilimento posto a valle. Nel suo tratto terminale il nostro fiume prima di confluire nel Tammaro incontra il tratturo. Incontrare il tratturo, comunque, non significa incontrare i pastori che si muovono lungo la pista tratturale in primavera e in autunno per la transumanza mentre nelle altre stagioni è vuoto, privo di presenze umane e animali. Nell’età contemporanea è quasi incomprensibile la ciclicità delle attività. Il tempo discontinuo è rimasto tipico solo dell’agricoltura e adesso si è aggiunto il turismo, quello balneare e quello legato alla neve. Dunque il Tappone svolge la funzione di abbeveramento delle greggi due volte l’anno; la sosta delle pecore transumanti non dura, però, un attimo, ma, di certo, lo stazionamento si prolunga per qualche giorno con i conduttori degli armenti che si ristorano nelle tre taverne presenti nell’agro di Sepino, non distanti dal nostro corso idrico. Per comprendere la lentezza del cammino sul tratturo bisogna riflettere sul fatto che la transumanza è un fenomeno più vicino al nomadismo che all’alpeggio, il quale è presente pure nell’area matesina, poiché non si tratta di un semplice spostamento tra il punto d’inizio e quello finale, bensì di una combinazione dell’incedere con il brucare, attività che si svolgono insieme. Proprio come i nomadi che si allontanano da un territorio dopo averne esaurito le risorse. Il tratturo è connesso con Altilia trasformandone la ragione d’essere originaria che è quella di un castrum, cioè di un accampamento militare di cui conserva l’impianto planimetrico, a servizio dell’occupazione romana del Sannio. L’attraversamento del percorso tratturale che è anche sfruttato per il trasporto di merci porta l’antica Saepinum a diventare un centro mercantile. Gli scambi avvengono nel foro garantiti dalla presenza di un tribunale, con l’amministrazione della giustizia che si svolgeva vicino alla basilica. Tra i traffici c’è pure la lana che viene lavorata nella gualchiera che sfrutta le acque del Tappone, ancora una volta, quindi, protagonista della vita del comprensorio. Le medesime acque servono per la Cartiera, anch’essa adiacente al tratturo, riportata fin dal XVII secolo nelle cartografie del demanio tratturale (la mappa del Capecelatro). Sepino è una terra ricchissima di acque che vengono utilizzate quale forza motrice di numerosi mulini, alcuni dei quali situati sulle sponde del medio corso del Tappone (il mulino Volpe e il Vignone). Ormai sono strutture obsolete e, alla stessa maniera, è superato anche il novecentesco stabilimento molitorio dotato di un motore a vapore che sorgendo non troppo lontano dal Tappone fa da contrappunto ai mulini tradizionali, almeno visivamente; la sua chiusura è emblematica delle difficoltà dell’industria agroalimentare molisana. Sul fiume, inoltre, ci sono i resti di una piccola centrale idroelettrica, a monte dei mulini citati; pure se minuscoli, impianti simili sono stati essenziali per garantire l’infrastrutturazione energetica di zone rurali come questa altrimenti dimenticate dalle altre aziende elettriche. Ancora sopra si trova il lanificio il quale si sovrappone, facendola scomparire, la gualchiera di cui si è detto visibile in una stampa di metà ottocento. Il lanificio Martino si avvale della medesima concessione all’impiego di risorsa idrica di un preesistente mulino il quale continua a restare in azione mediante l’acqua in uscita dal lanificio. È questa una caratteristica precipua dell’intera asta fluviale, cioè quella di una utilizzazione in serie dell’acqua. Siamo di fronte ad un sistema ininterrotto di salti dovuto alla disposizione in sequenza di lanificio, mulino, centrale idroelettrica e, ancora, 2 mulini e infine la cartiera. Vale la pena precisare che insieme ai fabbricati dove trovano posto i macchinari, volta per volta, per la lavorazione della lana, per la produzione di energia, per la molitura, per la fabbricazione della carta, bisogna considerare le opere di presa con i relativi sbarramenti, i canali di adduzione (in tubatura nel caso del lanificio) e quelli di restituzione, le vasche di accumulo; ciò determina una completa artificializzazione del Tappone. Le sue portate sono a tal punto costanti che hanno permesso al lanificio, il quale si serve dell’energia idraulica per mettere in moto la turbina, di reggere la concorrenza fino al 1971. Non è stata, comunque, solo la fonte energetica a impedirgli di reggere in seguito il passo delle fabbriche moderne, quanto piuttosto i problemi dei collegamenti essendo il lanificio raggiungibile scavalcando un ponte a schiena d’asino, il suggestivo ponte di S. Pietro, sul Tappone, non idoneo per il passaggio dei camion. In definitiva, è lecito definire questo fiume nel suo complesso un monumento di archeologia industriale o, meglio, un parco scientifico-tecnologico-storico e naturalistico per la molteplicità degli interessi che ad esso si connettono.
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UNA GOLA PROFONDA
Il ponte dell’Arcichiaro non era quello che vediamo oggi, così ardito, elevato, con uno dei primi impalcati in cemento apparsi nel Molise tanto che nella vulgata corrente viene chiamato «ponte del diavolo» (un indizio di quel sentimento di paura suscitato dalla gola di cui parleremo dopo), denominazione affibbiata ai ponti a schiena d’asino medioevali, strutture anch’esse impressionanti sotto l’aspetto tecnico. Con la costruzione della diga venne demolito l’antico ponte al quale quello moderno si sovrappone nello stesso sito, ma molte decine di metri al di sopra; un ponte qui è sempre stato necessario perché la strada che esso serve è l’unico percorso viario che permette di superare il massiccio del Matese raggiungendo il valico di Sella del Perrone. I viaggiatori di un tempo non apprezzavano, di certo, la suggestione della gola del Quirino che erano tenuti ad attraversare per andare in Campania, bensì, al contrario, avvertivano un senso di fastidio. Il medesimo modo di sentire verso gli elementi naturali più aspri è quello dei contadini, almeno nel passato, i quali ammiravano alcuni angoli del territorio in quanto sfruttabili dal punto di vista agricolo; non è, comunque, questa una valutazione solo dei coltivatori se si pensa al trecentesco affresco del Buon Governo a Siena nel quale è raffigurata, con compiacimento, una campagna ben curata. Ritorniamo al ponte per dire che le vedute dall’alto nel caso delle gole forse sono maggiormente stimolanti di quelle dall’interno dove si ha un campo visivo troppo angusto. Un punto di visione dell’identico tipo è la parte storica dell’abitato di Guardiaregia il quale si deve essere localizzato immediatamente ai margini della gola perché così, da questo lato, si rendeva inespugnabile. Le pareti della gola sono pressoché verticali e perciò per chi le osserva vertiginose anche se non sempre su di esse affiora la pietra, talvolta lo scoscendimento diventando meno accentuato, non del tutto a strapiombo, è rivestito di boscaglia e, a tratti, di un manto erboso che addirittura sembra pendulo. Si tratta di specie vegetali particolari tra le quali si segnala il tasso e i raggruppamenti arborei antichi si perpetuano lì dove l’orografia è impervia. Questo è uno degli ambiti più selvatici del Molise ed è, perciò, compreso nell’Oasi WWF. La natura originaria è quasi ovunque scomparsa e quelle che oggi chiamiamo aree naturali e, pertanto, le tuteliamo possono essere, prendi le faggete ad alto fusto e i pascoli d’altitudine, delle formazioni vegetali che risentono di un forte condizionamento antropico attraverso, per i boschi, il taglio periodico e, per le praterie, l’alpeggio. Unicamente le rocce e le gole, per via dei versanti a perpendicolo, non sono state appetibili per l’uomo. L’inaccessibilità della gola del Quirino ne fa il luogo più integro naturalisticamente (insieme alla gola del Pesco Rosso a Monteroduni) dell’intero complesso montuoso matesino. La gola suscita emozioni negli appassionati della wilderness, un concetto nato in America mentre da noi piuttosto che la contemplazione del mondo selvaggio si apprezzava, influenzati dal Romanticismo, le ascensioni sulle vette, specie se condotte in solitario, perché portano ad una elevazione dello spirito. In ogni caso si è sempre di fronte al nuovo atteggiamento per il quale il paesaggio diviene un argomento estetico. Rousseau con il mito del “buon selvaggio” propugna il ritorno allo stato naturale da parte dell’essere umano da cui deriva la nascita del cosiddetto sentimento della natura. Tanti pittori raffigurano immagini di squarci paesaggistici alpini e di mari in tempesta e ciò porta a stimolare i turisti che sostituiscono ormai i viaggiatori del Grand Tour in quanto nel tempo si è affermato il fenomeno del turismo di massa, a fare esperienza degli ambienti incontaminati, di nuovo le zone alpestri, le coste rocciose, dirupi, voragini, grotte e così via. Si tratta di esperienze della natura saltuarie, non di una vera presa di coscienza, limitata com’è a momenti circoscritti, coincidenti con le ferie, un’altra espressione della società contemporanea, durante le quali si vuol interrompere il tran tran della vita quotidiana (simile considerazione vale per il week end). Si è alla ricerca dell’«orrido», del «sublime», secondo la terminologia dei Romantici e la gola del Quirino ha sempre affascinato i corregionali poiché capace di evocare tali sensazioni. C’è una componente diversa rispetto al godimento estetico usuale che rende pregnante la veduta della gola suddetta, aumentando il senso di terrificità o, meglio, tenebrosità che essa emana, la quale è legata alla consapevolezza dell’energia dei movimenti tettonici che hanno interessato la crosta terrestre. Essa, infatti, costituisce una discontinuità, quasi un solco che separa nettamente due porzioni di una montagna che per il resto nelle sue pendici si presenta compatta visivamente, essendo scarsi i corsi d’acqua che originano in quota e, dunque, i valloni che la incidono. La gola del Quirino non è definita faglia e, tanto meno, «attiva», ma piuttosto una frattura dovuta alla rigidità del calcare, il substrato geologico di questo rilievo montano, il quale tende a spezzarsi sotto le spinte endogene, le forze che hanno modellato la terra, invece che a piegarsi dando vita a morfologie non così dure; rimane l’associazione spontanea con la pericolosità tellurica dato che il Matese è uno dei comprensori a maggiore rischio sismico della regione. Incuteva timore, quando l’invaso dell’Arcichiaro non esisteva il quale funge da bacino di laminazione, il rigonfiamento nelle stagioni piovose e a seguito dello scioglimento delle nevi del Quirino le cui piene, con il trasporto dei detriti a valle, hanno contribuito alla formazione della piana; lo scorrere delle acque nella gola, peraltro, le conferisce una certa vivacità, percepibile da coloro che vi si inoltrano, per il contrasto con l’immobilità delle rocce. Ad animare lo scenario vi è anche il volo, ora davvero solitario, degli uccelli (tra i quali fino ad alcuni decenni fa si annoverava l’aquila la quale nidificava nei costoni della gola); ad essi si vanno ad aggiungere le persone che amano i gesti avventurosi, le emozioni estreme, quelle che si provano nell’essere trascinati da una carrucola, sulla quale si viene imbracati, sospesa su un filo di acciaio teso tra le due opposte sponde della gola. Il progetto, presentato dal Comune di Guardiaregia, prevede opere simili a quelle già realizzate nelle Dolomiti Lucane; in qualche modo non modifica ciò che si avverte guardando la gola, cioè i brividi e contemporaneamente il piacere dell’«orrido».
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