- OSSERVANDO ALTILIA -
Altilia
Altilia ha almeno tre ragioni che ne motivano la formazione, oltre quella universalmente riconosciuta di essere un presidio romano in un territorio ostile qual’era il Sannio. La prima è la necessità di evitare un eccessivo intasamento dell’Urbe dovuto all’afflusso dei veterani i quali dopo tanti anni di campagne belliche risultavano sradicati, senza più contatti con i loro luoghi di origine; la colonizzazione era un modo per impedire ciò. Città, dunque, di origine artificiale e non come fenomeno geografico autentico; ne deriva che venute a cadere le motivazioni iniziali vengono a perdere le giustificazioni per la sua esistenza. In verità, Altilia è l’unico caso di città romana che cessa la sua vita, mentre le altre, e cioè Boiano, Isernia e Venafro, sopravvivono alla dominazione romana, attraversano il medioevo e le epoche successive giungendo fino ai nostri giorni. La permanenza è una componente essenziale dell’”idea” di città, mentre il centro sepinese ha più qualcosa per quanto detto di un accampamento, seppure vissuto per molti secoli, che di una vera e propria entità urbana e, non a caso, dell’accampamento militare, quello costruito durante le guerre sannitiche dai Romani in tale luogo, segue lo schema viario. Il secondo motivo, il quale si lega strettamente al precedente, è di tipo economico. Bisognava mettere a valore le terre conquistate e per far ciò i Romani operavano la centuriazione dell’agro. Ve ne sono tracce nella campagna sepinate, non distante da qui. L’andamento del cardo e del decumano i quali sono ortogonali fra loro assomiglia a quello seguito dalla centuriatio a dimostrazione che siamo di fronte ad un progetto unitario di città e campagna, il classico binomio con una differenza, però, che il disegno dell’insediamento urbano per il cui sito viene scelta una superficie piatta, non è soggetto a condizionamenti fisici come potrebbe essere il torrente Tammaro, la centuriazione, invece, per considerazioni pratiche, si adegua alla situazione morfologica. Si è appena detto che la “forma urbis” è indipendente dal contesto territoriale e già lo si smentisce, in vero parzialmente: il cardo e il decumano sono orientati, di regola, rispettivamente da nord a sud e da est ad ovest, ma nell’antica Saepinum si ha uno slittamento, pur conservando la linearità e la perpendicolarità, degli assi, per tener conto del passaggio del tratturo.
Non è raro, succede pure nella vicina Bovianum dove il decumano il quale fiancheggia il corso del Calderari che è curvo deve in qualche modo misurarsi con esso. Per precisazione, si ritiene di dover evidenziare che quando il terreno non è in piano l’applicazione del modello stradale costituito da aste che si incrociano è difficoltosa e lo dimostra Terventum dove il foro, il quale è la congiungente dei vari percorsi, non può essere, come ipotizzato da Matteini Chiari, la piazza della Cattedrale perché il tempio di Diana, che doveva trovarsi nel piano del foro come qualsiasi tempio, è più in basso della quota della chiesa di cui è divenuto cripta. Il terzo fattore che ha portato alla nascita di Altilia non è di natura funzionale come quelli elencati prima, ma di ordine squisitamente simbolico. La costituzione di una realtà insediativa risponde all’esigenza di manifestare in ogni angolo del suo dominio la presenza di Roma. L’intento semantico si rafforza con l’avvento dell’Impero quando l’immagine di Altilia si, per certi versi, monumentalizza con la costruzione del teatro, delle terme, di templi. Per quanto riguarda questi ultimi è da sottolineare che anche le divinità devono traslocare in città, la quale è il riferimento assoluto, muovendo dai santuari posti nelle zone in altitudine dai Sanniti, vedi Ercole Curino a Campochiaro. La Città Eterna si replica, è scontato in scala ridotta e con varianti, tantissime volte, tra cui Altilia in giro per i confini dei possedimenti imperiali, quindi dall’Asia Minore all’Africa Settentrionale, dalla Penisola Iberica alla Gran Bretagna, dalla Francia ai Balcani. Si avverte pervadendo pure le coscienze individuali all’interno di questo vastissimo territorio, l’ubiquità del potere imperiale che controlla qualsiasi cosa, ogni aspetto della vita delle popolazioni assoggettate per farne i loro componenti cittadini romani. La Pax Romana indetta da Augusto si manifesta con la civilizzazione urbana e i centri abitati ora sono maggiormente espressivi che nel passato, nel Sannio erano semplici vici almeno fin quando esso non entrò in contatto con la Magna Grecia e, perciò, con il concetto di polis. L’autorità imperiale è connaturata con la teatralità pure degli spazi: l’organizzazione assiale degli abitati e le stesse lunghissime, larghe e rettilinee strade rispondono a tale scopo. Nell’architettura ciò equivale al classicismo che tra i suoi dettami ha la disposizione rialzata, non conta di quanto, degli edifici pubblici (il crepidoma), a cominciare, ad Altilia, dalla Tribunal sopra la Basilica, per imporsi nelle vedute cittadine. Quello che costituisce il segno distintivo dell’urbanistica voluto dagli Imperatori è l’ordine il quale rimanda alla pianificazione perché nel sistema di governo romano niente deve essere lasciato al caso. Un sistema altamente centralizzato non ammette di conferire una vera autonomia neanche al Municipio che è il rango concesso ad Altilia.
Così il foro, tanto vasto, presente al suo centro non può essere considerato propriamente l’erede dell’agorà greca che era il posto delle assemblee democratiche nelle quali si prendevano le principali decisioni riguardanti la comunità locale, pur se ha caratteri formali simili. Era, comunque, il foro una novità assoluta in quanto nella struttura vicana del Sannio preromano fatta di minuscoli villaggi non esisteva il concetto stesso di piazza, il luogo dove assumere le determinazioni sulle problematiche maggiori concernenti il futuro della tribù (equivalenti alle città-stato della Grecia) essendo rappresentato dai grandi santuari religiosi, il più grande è quello di Pietrabbondante presso cui si radunava periodicamente l’intera nazione sannita. Il foro, ad ogni modo, nonostante non poteva essere una sede decisionale, con un gioco di parole, decisiva, rappresentava, di certo, un momento vitale di incontro per gli abitanti di Altilia, inevitabile del resto data la sua posizione nel crocevia tra il cardo e il decumano. Lo spazio pubblico quale punto focale dell’insediamento abitativo è cosa non da poco. Questo suo ruolo di convergenza, peraltro non solo di chi vive in Altilia, ma anche dei mercanti che l’attraversano collocata com’è la nostra città sulla via Minucia e dei pastori durante la transumanza per via del decumano che è il tratto urbano del Pescasseroli-Candela, è esaltato dal non essere un episodio cittadino fisicamente a sé stante, segregato, come pure sarebbe potuto accadere, rispetto alla rete di circolazione, pure quella extraurbana (l’altra direttrice, il cardo, collega il Matese con la piana). Non è affatto appartato, bensì pienamente integrato nel tessuto urbanistico e ciò ne rivela la pregnanza civica.
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Un cammino nella storia
È l’itinerario che partendo da Altilia e, quindi, dal tratturo, e passando per il santuario italico di località Cantoni, prima, e, poi, per il «conventino» raggiunge le fortificazioni sannitiche di Terravecchia e, infine, il pianoro di Campitelli di Sepino.
Il nostro itinerario comincia da Altilia. Normalmente siamo abituati a considerare questa città sannitica come meta di percorsi turistici, invece questa volta vogliamo considerarla come un punto di partenza. Infatti accanto a una forza centripeta, cioè una forza di attrazione per le testimonianze archeologiche in esso presenti, questo luogo esercita anche una notevole forza centrifuga. Esso trasmette una spinta verso l’esterno dovuta al fatto che l’agglomerato di Saepinum non è un sistema chiuso e isolato perché l’impianto urbano è generato dall’incrocio di due strade, il tratturo Pescasseroli-Candela e il tratturello trasversale ad esso che scendeva dal Matese, le quali all’interno dell’ambito urbano diventano il cardo e il decumano. Sono loro a dare quella sensazione centrifuga che si avverte nella vista dell’area archeologica per la continuità che si stabilisce tra la viabilità urbana e quella extraurbana e, quindi, tra il nucleo insediativo e il territorio circostante. La rete stradale è dunque un “segno” forte che caratterizza questo antico abitato. Addirittura si riconosce un’influenza cosmologica nella intersezione delle due arterie che definiscono il foro i punti cardinali. L’altro “segno” forte è la cerchia muraria ed anch’esso rimanda alla tensione centrifuga sprigionata da Altilia che le murazioni tendono quasi di arrestare. Lo stesso nome di Sepino (da saepio: recingere) che significa recinto, testimonia l’importanza di questo elemento: la recinzione può essere considerato il primo tentativo umano di impossessarsi di un dato ambiente. Per via dell’accuratezza costruttiva delle mura realizzate con la tecnica dell’opus incertum si può dire che una maggiore attenzione è stata attribuita alla configurazione della cinta fortificata con le sue 4 monumentali porte piuttosto che al tessuto urbano. In definitiva, l’itinerario che si propone parte dal foro con i suoi templi e la basilica seguendo il decumano che conduce a porta Boiano dopo aver visitato, di certo, le terme e il teatro. Questa è una strada che anticipa quelle moderne perché ha funzioni diverse, distinguendo lo spazio per la mobilità pedonale da quello per i veicoli; infatti vi è il marciapiede, mentre lungo la carreggiata si notano i solchi prodotti dai carri romani distanziati fra loro di circa un metro a causa dell’asse cortissimo che avevano tali carri. Il percorso procede lungo il tratturo, l’antica via Numicia secondo il cui andamento sono orientate le maglie della centuriazione romana che ora si lascia perché esso si svolge in pianura e ci si dirige verso la montagna. Si incontra prima, in località S. Pietro, un santuario italico rinvenuto di recente dove vi sono ancora in corso gli scavi archeologici e si giunge, dopo, al cosiddetto conventino, una struttura forse mai completata. Si raggiunge, poi, Terravecchia con le sue possenti fortificazioni sannitiche, per arrivare quindi ai pianori di Campitelli i quali costituiscono una sorta di momento di pausa tra i pendii che salgono dalla piana e la parte più elevata del rilievo montuoso. Da Campitelli l’itinerario può continuare in direzione, appunto, di monte Mutria con i suoi m. 1823 che ne fanno una delle vette più alte del Matese, dopo aver valicato monte Tre Confini (le tre province di Benevento, Caserta e Campobasso) ed essersi inerpicati, quindi, lungo il crinale di Costa Palombara che porta alle caratteristiche vallette (“chianelle”) del Mutria.
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Il tratturo che diventa decumano
Succede ad Altilia e succedeva pure 2 mila anni fa quando essa nacque e quando l’economia pastorale era il motore della società locale.
Il tratturo è all’origine di Altilia e, nello stesso tempo, c’entra con la sua fine. Questa città è posizionata a cavallo del Pescasseroli-Candela e ne costituisce un punto di sosta. La pista tratturale, addirittura, è l’elemento ordinatore dell’impianto urbanistico, in verità insieme al percorso che si diparte dalla piana per raggiungere la montagna, utilizzato per l’alpeggio, che attraversa anch’esso, ortogonalmente al primo, l’area urbana. Un insediamento abitativo, dunque, il cui schema viario è impostato sulle percorrenze pastorali. Il decumano che, in qualche modo, si fonde con il tratturo è la strada principale, mentre la monticazione segue la direzione ad esso perpendicolare, lungo il cardo il quale, nell’urbanistica antica, è un tracciato viario secondario. Che il tratturo debba essere l’asse più importante è spiegabile con il fatto che esso è utilizzato per la transumanza, uno spostamento di greggi su grande scala, al contrario dell’alpeggio che avviene a corta distanza. Ancora di più, a giustificare la primazia dell’asse tratturale nello schema stradale cittadino è la circostanza che la transumanza è governata dallo Stato cui spettano i pedaggi, come dice l’iscrizione De Grege Oviarico. La pastorizia transumante per decisione dell’autorità centrale che la protegge diventa una delle maggiori attività economiche di questa provincia romana alla quale sono subordinati gli altri settori produttivi, cioè l’agricoltura che non può occupare i terreni del demanio tratturale, aventi valenza esclusivamente locale. Si ritenne che fosse la zootecnia, per la presenza di vaste superfici pascolive tra l’Appennino e la distesa tabulare del Tavoliere, il nome non è a caso, il comparto capace di sviluppare i più elevati standard di produttività e, di conseguenza, portare introiti (il pagamento delle concessioni al transito sui tratturi) considerevoli all’erario centrale. La pratica della monticazione, invece, che interessa il cardo viene considerata una forma di conduzione dell’allevamento di tipo, per così dire, residuale. Si stabilisce, in definitiva, una gerarchia di natura funzionale tra le due vie urbane. Ancora di più si accentua, pur avendo la medesima sezione trasversale e la stessa lunghezza, il grado di significatività che distingue le arterie allorché il tratturo viene ad ospitare la Via Minucia, una specie di transappenninica ai tempi dell’antica Roma, la quale funge pure da alternativa alla Via Appia per andare da Roma a Brindisi. Se non è una vera e propria via Consolare è, comunque, una via come si deve lungo la quale si muovono persone e merci (oltre, beninteso, alle pecore durante la transumanza). Si sviluppano i commerci nei centri in cui passa e, quindi, ad Altilia e la sua presenza, più che la costrizione imposta ai Sanniti dai Romani di scendere dalle alture e insediarsi nel Municipium, dovette essere lo sprono a trasferirsi in Altilia per coloro che vivevano a Terravecchia; il desiderio di avviare esercizi commerciali ai margini della Minucia, maggiormente, lo si ripete, dell’ordine impartito dai dominatori, stimolò la gente dell’area ad abitare la città coloniale, il che, con probabilità, avvenne in un breve lasso di tempo tanta era la voglia di intraprendere, lo si immagina, iniziative mercantili attraverso le quali scambiare i prodotti del luogo con beni provenienti anche da lontano, di mettersi in relazione non solo con l’Urbe, bensì con gli altri centri serviti dalla nuova viabilità voluta dalla potenza dominatrice. La via Minucia, così come il tratturo, all’interno delle mura urbiche coincide con il decumano e arriva direttamente nel cuore dell’abitato dove c’è il foro che è anche luogo deputato al mercato. Nel tratto urbano il tratturo sul quale nel frattempo si era sovrapposta la via Minucia, nel trasformarsi in decumano cambia pelle per via dei basoli con cui è lastricato dove sono visibili i solchi scavati dalle ruote dei carri, dei marciapiedi e degli attraversamenti pedonali.
Si è detto all’inizio che è stato il tratturo a dare vita ad Altilia e si è anche aggiunto che esso è stato una concausa della sua morte; ripartendo dalla questione del “decesso” della realtà urbana in esame va specificato che si è nominato il tratturo anche se, in effetti, più propriamente si sarebbe dovuto dire transumanza se non che essa che avviene 2 volte l’anno non basta a dare ragione della presenza di una città. C’entra, ripetendo l’espressione iniziale, pure l’abbandono della via Minucia che abbiamo visto correre sul tratturo. La caduta dell’Impero e l’insicurezza che si è generata nella circolazione degli individui e delle mercanzie, le migrazioni stagionali delle greggi provoca il declino delle reti di comunicazione, tanto quelle dedicate agli uomini quanto quelle destinate agli animali. Altilia diviene una sorta di città fantasma per oltre un millennio nonostante che l’entità cospicua dei resti non ha permesso che venisse obliterata del tutto; con la ripresa del fenomeno della transumanza a partire dal basso Medioevo essa ricomincia ad essere frequentata dai conduttori degli armenti i quali, quelle tramandate a noi sono di epoca tarda, ne lasciano testimonianze orali. Quando si avvia il processo di ripopolamento cambia addirittura nome da Saepinum ad Altilia, perché si era smarrita pure la denominazione originaria, un po’ come è successo con Terravecchia che sostituisce l’originario Saipins. Altrove, si pensi alla prossima Boiano, vi è stata una continuità di vita nei secoli successivi: non è dato sapere perché qui sì e lì (Altilia) no. Le condizioni geografiche sono identiche, ambedue insediamenti di pianura soggetti, a causa della mancata regimazione dei corsi d’acqua (il Biferno per Boiano e il Tammaro per Altilia) nell’era post-imperiale, ad inondazioni (i Romani ad Altilia si erano preoccupati della bonifica idraulica con la centuriazione dei campi), entrambe soggette alle scorrerie dei Saraceni accampati su monte, appunto Saraceno in riguardo alle quali appare più difendibile Altilia in quanto conserva una cinta muraria, peraltro turrita, intatta, tutte e due colpite fin dall’antichità da violenti terremoti, e, specialmente, sia l’una che l’altra investite dal passaggio del tratturo. Deve essere una specificità, ovviamente è un assurdo, del territorio sepinate quello delle città scomparse perché quanto è successo ad Altilia era accaduto a Terravecchia, una peculiarità locale essendo queste delle rarità che è in aggiunta raro trovare così vicine. L’estinzione di Altilia, in definitiva, non può essere collegata solo alla cessazione della transumanza, ci deve essere dell’altro!
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Il foro ombelico di Altilia
Quasi che tale città si sia sviluppata a partire da tale piazza la quale è stata usata quale punta di un compasso per tracciare il cerchio, in realtà è un quadrato, all’interno del quale si sarebbe dovuto sviluppare l’abitato. Oltre che in senso geografico l’area forense è il cuore dell’insediamento svolgendosi qui le funzioni direzionali e culturali ed essendo il luogo di incontro della cittadinanza.
Lo spazio occupato dal foro risulta concepito fin dal momento della nascita di Altilia. Qui, come del resto nel resto delle colonie, la prima definizione della città non è stata limitata al tracciamento delle mura, tracciamento che Romolo per delimitare i confini della capitale dell’impero effettuò con il vomere dell’aratro scavando un solco, bensì ha compreso il disegno della viabilità, in verità i due assi viari seguono percorsi preesistenti, il tratturo e il tratturello, e pure l’individuazione dell’area forense. Se per l’Urbe, in altri termini, era stato sufficiente stabilire la linea di demarcazione del perimetro urbano, nelle cittadine da essa create nelle Province c’è stato bisogno anche della fissazione del sedime delle strade e della piazza per poter attribuire a quel luogo il rango di urbs. In poche parole, il foro ricopre, magari non ha la medesima pregnanza simbolica della trincea fatta dal primo re di Roma, un ruolo primario, insieme alla rete stradale e ovviamente alla cinta muraria, nell’ideazione della, in greco, polis. All’origine il foro era una semplice superficie vuota, non è nato cioè come Minerva dalla testa di Giove già tutta formata, ma ha preso forma nel tempo, più propriamente in 2 tempi, la fase repubblicana in cui si ha il primo impianto delle opere pubbliche che vi insistono e la fase imperiale in cui si ha un processo di monumentalizzazione delle attrezzature cittadine; si ha una trasformazione radicale delle costruzioni alla stregua di quanto stava facendo a Roma Augusto il quale si vantava di averla trovata fatta in mattoni e lasciata in marmo. Durante i secoli dell’impero si aggiunsero a Saepinum ulteriori strutture a carattere collettivo le quali, però, non trovarono posto nel foro sia perché questo era ormai saturo, non il piazzale, s’intende, i suoi fronti, sia perché servizi, si sta pensando al teatro e alle terme, che richiedono zone dedicate. Un inciso, per quanto riguarda le terme vi doveva essere presumibilmente anche un impianto termale proprio alle spalle del foro, le Terme Silvane. La società all’inizio dell’età cristiana si presentava in evoluzione la quale aveva portato a far emergere una domanda di infrastrutture anch’esse evolute, per soddisfare la mente, gli edifici, ad Altilia è un edificio, teatrali, e il corpo, le terme e la piscina, di quest’ultima non ci sono pervenute evidenze fisiche. Tali manufatti vennero posizionati adiacenti l’un l’altro in un apposito quartiere, tutte cose voluttuarie se non voluttuose inconcepibili per l’austera mentalità del periodo della Repubblica. Non solo per le specifiche esigenze funzionali e per l’insufficienza di terreno disponibile nel centro città, cioè per una impossibilità oggettiva, ad impedirne l’ubicazione nel foro vi era soprattutto una questione legata alla loro significatività. Sarebbe stato veramente difficile integrare queste architetture nell’ambito forense per il loro carattere ludico il quale è in contrasto con le valenze sacrali conferite al foro dalla presenza del templio. Inoltre esse sarebbero dissonanti rispetto all’aura di ufficialità attribuita al foro dalle sedi delle magistrature le quali qui sono ubicate e alla sua natura di centro direzionale. Gli organismi architettonici di tipo ricreativo di cui stiamo parlando, le terme e il teatro, sono comunque di uso comunitario e perciò la loro localizzazione ottimale sarebbe nel cuore della comunità. Non bisogna, occorre avvertire, fare l’errore di imputare la carenza di lotti da assegnare a funzioni aggiuntive ad una ristrettezza del foro il quale, anzi, ha una dimensione notevole, ancora oggi sorprendente se paragonata agli slarghi, i larghi, che incontriamo nei nostri nuclei storici, anche i maggiori. Una estensione davvero consistente, se non esuberante se si considera che per completare l’occupazione del lato che condivide con il decumano si è permessa la costruzione di una dimora privata i cui ricchi proprietari hanno prontamente approfittato dell’ubicazione privilegiata aprendo una bottega con affaccio, nientemeno, sul foro.
C’è, inoltre, a seguire sul medesimo lato che è nello stesso tempo del foro e del decumano un opificio industriale, una fullonica, anche se non sarebbe da scartare l’ipotesi che consista in un silos con le anfore contenenti granaglie infilate in fosse semiconiche, il grano un autentico bene comune da custodire nel punto, il foro, di riferimento comune; ad avvalorare la tesi vi è la vicinanza del mulino ad acqua recentemente ricostruito. Il progetto di foro non risponde ad una tipologia prefissata, non vi è uno schema prefissato nella trattatistica antica, esempio in Vitruvio, per esso non vi sono misure prestabilite. L’unico elemento che fa pensare all’esistenza di una qualche regola tipologica è l’equivalenza tra la lunghezza del lato corto, uno dei due, del foro con quella del lato lungo, uno dei due, della basilica la quale fa da sfondo al primo, un bel fondale. Si noti che la basilica è l’unica architettura di rilievo che non dispone la sua facciata maggiore lungo il decumano prediligendo mostrare il suo prospetto principale, nel senso del più esteso, a chi si trovi a frequentare il foro. L’impianto basilicale, peraltro, è emblematico in riguardo alla questione della univocità della destinazione d’uso derivante da una certa configurazione architettonica: l’utilizzo della basilica è intercambiabile, si ha la sua conversione in chiesa con la conversione della popolazione al cristianesimo, cosa che ad Altilia non è avvenuta. Nella basilica c’è una ripetitività della forma, non, lo si ripete, della funzione cui assolve, nel foro, al contrario, vi è un’unicità della soluzione adottata. Per il foro ci si è lamentati poco fa dell’assenza di una regola, tipologicamente parlando, da seguire nella sua “progettazione” e dire che Altilia è nata nel segno, lo si è sottolineato all’inizio, dell’assoluto rispetto di un canone urbanistico collaudato, applicato mille volte dai Romani in giro per il Mediterraneo e nei territori conquistati dell’Europa continentale. L’indeterminatezza che si rileva dal punto di vista formale la si coglie pure nella ragione sociale attribuita a tale “vuoto” in seno all’aggregato insediativo: da agorà, in greco, cioè arena per le discussioni e i confronti cui partecipa la cittadinanza, quindi da simbolo della democrazia a quello del potere centralizzante di Roma con il foro dominato, è rialzato su un podio, dal tempio di Giove Capitolino, da largo spiazzo per le libere assemblee del popolo a piazzale per le adunanze del popolo indette dai dominatori.
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Da Altilia a Terravecchia a tappe
In questo percorso costituiscono soste obbligate il tempio di S. Pietro in Cantoni e, più in alto, il cosiddetto Conventino, un piccolo insediamento monastico forse mai completato.
Non è la stessa cosa che arrivare da località Masserie Parente, il punto più vicino a Terravecchia raggiungibile con l’auto. Partire da Altilia ha molto più significato almeno per 4 motivi che si illustrano di seguito. Il primo è che attraverso questo percorso si compie un salto all’indietro nella storia delle civiltà passando da quella romana, Saepinum, a quella sannita, Saipins, una sorta di viaggio nel tempo. Il secondo è che il tragitto che si svolge dal sito dell’antico municipium, quindi dalla piana verso l’alto incontrando nel suo svolgimento prima Terravecchia, poi Campitelli di Sepino e, di seguito, passo S. Crocella è quello che si doveva effettuare in passato (prima della costruzione della strada rotabile che passa dentro l’abitato di Sepino) per andare in Campania, collegando popolazioni sannite che vivevano nei due opposti versanti del Matese. Il terzo è che esso, portando dai prati della valle del Tammaro all’altopiano, ovvero ai pianori, oppure campitelli di, appunto, Campitelli di Sepino, era, quando la pastorizia veniva praticata in maniera tradizionale, la via dell’alpeggio. Il quarto è che nel sistema vicano, quello adottato all’epoca del Sannio nell’organizzazione insediativa la Saepinum romana doveva essere un vicus, magari recintato, da cui il suo nome che rimanda al verbo saepio, cingere, mentre il templio italico di S. Pietro in Cantoni costituiva il santuario tribale e Terravecchia la fortezza da utilizzare nei momenti di pericolo; il sentiero che congiunge questi tre fatti permette di comprendere in maniera, come si dice oggi, plastica le relazioni che intercorrono tra di essi. Per quanto riguarda quest’ultima motivazione, che è, poi, la quarta di quelle annunciate all’inizio, è da dire che la si ritiene la più convincente, non perché le altre non siano valide, ma perché il territorio sepinese costituisce un caso unico in cui è possibile cogliere con un colpo d’occhio, per così dire, o meglio con una breve escursione, come era strutturata in senso spaziale una tribù sannita. In altri termini si vuole evidenziare che, rimanendo nella stessa area che è la matesina, stradelli per la monticazione, percorrenze viarie che scavalcano la montagna (se pur rare), possibili itinerari che intendono mettere insieme luoghi aventi datazioni differenti, non è difficile trovarli mentre non vi è nessun altro comune dove vi sia la compresenza, beninteso non la sovrapposizione nel medesimo sito, bensì la giustapposizione, a una certa distanza, di tutti gli elementi del modello urbanistico dei sanniti con i vici che rappresentano le zone residenziali, i santuari le zone di culto e le cinte fortificate quelle militari e, infine, la rete sentieristica che è la viabilità. Si cammina in salita dovendo compiere un salto di quota di quasi 500 metri, a differenza di quello che congiunge Masserie Parente a Terravecchia che sono pressoché di comparabile altitudine, il che lo rende più faticoso oltre che molto più lungo, fatica che viene ridotta dalla presenza di alcuni gradoni morfologici disposti lungo il pendio del monte, quelli dove sono collocati il templietto di S. Pietro in Cantoni e il Conventino, un complesso edilizio formato da una cappella, forse mai completata, annessa ad una costruzione che doveva fungere da abitazione dei frati. L’ascensione, dunque, offre dei momenti di riposo che permettono di riprendere fiato e, nel contempo, gli episodi architettonici, in verità entrambi allo stato di rudere, di cui sopra spezzano l’uniformità dell’incedere verso l’alto costantemente in ambiente boscoso. Per quanto riguarda S. Pietro in Cantoni in cui una chiesetta cristiana si è sovrapposta presumibilmnte dopo un millennio (i Romani spostarono le divinità nei centri urbani) al templio pagano, sfruttandone il podio e le colonne, è interessante osservare che è l’unico edificio di culto conosciuto nella parte bassa del territorio comunale; ad Altilia, nonostante che un pezzo della sua superficie, dal XVII secolo in poi perlomeno, sia stato abitato non si reinvengono tracce di strutture religiose di età cristiana per cui l’architettura sacra prossima, ma non vicinissima, è quella di S. Pietro la quale è la prima tappa nel nostro salire.
Successivamente, si incontra il Conventino che, seppure in rovina, emana anch’esso, come S. Pietro in Cantoni che lo si è detto era il solo riferimento della gente che andava a ripopolare il piano per soddisfare il bisogno di pregare, un senso di spiritualità essendo, per via del suo isolamento, una postazione di eremitaggio (vi è vissuto Padre Anselmo, un uomo considerato santo). In definitiva, ancora si avverte, in entrambi i casi, la sacralità del posto. Se si aggiunge che in Terravecchia, riabitata nel periodo altomedioevale, sono stati trovati resti di due chiesette paleocristiane si può vedere come ad Altilia, una città sorta durante il paganesimo, quasi per liberarsi pure della sua memoria si sia sovrapposta sul rilievo montuoso adiacente una sorta di catena di emergenze cultuali legate al nuovo credo, il cattolico, che conferisce, in qualche modo, anche al fianco del monte un non so che di spirituale. Pure per questo aspetto è importante il percorso ascensionale e, più in generale, sono determinanti le percorrenze per capire a fondo il nostro ambito. Qui più che in altre parti è significativo spostarsi a piedi e non in macchina come si fa quando a Terravecchia si va parcheggiando alle Masserie Parente. Non si tratta, muovendo verso l’acropoli sannita da questo bellissimo agglomerato di case tradizionali che già di per sé è meritevole di una gita, di «turismo mordi e fuggi» quale quello esecrato da Antonio Cederna in un articolo su L’Espresso a proposito del fabbricato sorto presso Porta Boiano, definito un “archeogrill”, ma, comunque, visitare pedonalmente questo comprensorio archeologico (assai più ampio del parco archeologico previsto, limitato agli intorni di Saepinum) è un’esperienza sicuramente più completa. Per onestà intellettuale bisogna ammettere che il raggio in cui muoversi è abbastanza indefinito potendo comprendere pure la Villa dei Neratii a S Giuliano del Sannio, nonostante sia rimasta un fatto a sé stante nel circondario, non avendo portato nel periodo finale dell’Impero, a differenza di quanto è sistematicamente successo altrove, all’affermarsi dell’economia curtense; da tale Villa sorpassando il Tammaro si entra ad Altilia proprio da Porta Tammaro e continuando, seguendo il cardo, si sottopassa Porta Terravecchia diretti sul Matese, Poco prima il cardo si era incrociato con il decumano, cioè il tratturo il quale ha tanto a che fare con Terravecchia e con il percorso che si è indicato in quanto su di esso venivano convogliati gli armenti, che in estate avevano pascolato non distante da Saepins, per andare in Puglia.
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Andare a teatro ad Altilia
Ha una funzionalità senza tempo tanto che pure in epoca recente vi si sono tenute rappresentazioni, anche di testi drammatici contemporanei. Qui si affrontano questioni soprattutto urbanistiche, quindi connesse alla sua ubicazione in seno all’impianto urbano di Saepinum.
Le questioni che le diverse evidenze archeologiche in cui ci si imbatte passeggiando per Altilia pongono sono tante e allora bisogna saper ponderare bene il tempo che si ha a disposizione. I temi che i suoi monumenti sollevano sono variegati e allora occorre fare in modo che la propria attenzione non venga assorbita esclusivamente da uno di questi. Di certo, l’area che colpisce di più è il teatro, ma attenzione a che la visita non sia troppo lunga, la tentazione c’è, perché ci sono molte altre cose da vedere oltre questa. Strutture teatrali come la presente che solo in parte è scavata, la gran parte è fuori terra, sono tra le poche testimonianze in alzato sopravvenute dall’età antica. È più frequente trovare teatri le cui gradinate sono interamente ricavate nel terreno, un esempio a Venafro, sfruttando la collocazione su un pendio, che qui, però, non c’è trattandosi Altilia di un sito, pianeggiante. A tale proposito e rimanendo alla comparazione con Venafrum dove l’anfiteatro, il Verlasce (in comune con il teatro sono parzialmente, il nome e le attività di intrattenimento) è fuori città ci si potrebbe chiedere perché il teatro a Saepinum non sia stato realizzato extramoenia, alla base del rilievo su cui sorge il tempio di S. Pietro in Cantoni, appoggiandosi al suo fianco. Una risposta possibile è che gli anfiteatri per via degli spettacoli cruenti che ospitava, le lotte di gladiatori e i combattimenti tra animali, con il frastuono conseguente, prodotto pure dalle grida di incitamento degli spettatori, avrebbe causato disturbo alla tranquillità della cittadina. Nei teatri, invece, ad eccezione delle pantomime le quali suscitano ilarità e, tutt’al più, schiamazzi del pubblico, gli spettacoli erano. diciamo oggi, di tipo culturale, che non creano problemi all’ordine urbano. C’è un ulteriore aspetto da considerare il quale di sicuro è stato determinante nella localizzazione all’esterno delle mura dell’anfiteatro ed è che si tratta di attrezzature di grandi dimensioni, peraltro di “dimensione conforme”, definizione lecorbusiana, cioè che ha una grandezza prestabilita, non modulabile, almeno lo spazio scenico, in relazione alla “taglia” della città; poiché esso non era stato previsto nel momento della fondazione dell’abitato, né poteva esserlo essendosi diffusi in età imperiale, non trovava spazio all’interno del circuito murario. Una cosa analoga succedeva per il teatro ad Altilia il quale pure sia nasce dopo la fine della Repubblica sia ha l’orchestra di misure prefissate. La sua ubicazione a ridosso della murazione urbica, quindi all’estremo dell’abitato e, soprattutto, in una fascia, quella del pomerio che va lasciata libera da costruzioni proprio perché vicina alle mura, in cui c’era il,rischio di essere colpiti da oggetti contundenti lanciati dagli assedianti, è motivata dal processo di saturazione delle superfici urbanistiche. Se la scelta del sito qui appare come un ripiego, si hanno, comunque, risvolti vantaggiosi, essenzialmente quello di consentire l’apertura di un varco nel perimetro murario in corrispondenza del teatro, la portella, per l’accesso diretto delle persone provenienti dall’esterno della città, magari dai centri vicini, la stessa Boiano, per assistere alle rappresentazioni. Così non si intralciava la vita urbana. Affiancate al teatro vi sono le terme, pure esse, per così dire, in prima fila rispetto alla cerchia (in verità, ad Altilia è un rettangolo!) muraria e alle sue spalle vi è un’area per gli esercizi ginnici e piscina: tutte e tre coeve, di epoca augustea, e occupazioni ludiche come si vede e, perciò, forse, raggruppate insieme. Stanno insieme pure perché al divertimento, dello spirito, il teatro, e alla cura del corpo sono, nella prima fase di Altilia, più austera com’era la civiltà romana arcaica, si teneva meno non si teneva conto delle esigenze di evasione e la vita era più spartana. Vanno notate, per completezza, due cose delle quali la prima è che il teatro volge, letteralmente, le spalle alle mura, ma ciò non perché sarebbe stato, è ironico lo si capirà, scortese mostrare le terga alla città; la ragione è che coloro che entravano dalla portella, cosa che comunque doveva fare ogni partecipante all’evento teatrale attraverso i percorsi che si diramano da i due tetrapili, raggiungevano i posti a sedere assegnati mediante i diversi vomitori ai quali si accede dal muro posteriore del teatro. La seconda delle due cose di cui sopra è che in cima alla cavea, nella summa cavea dunque, si sono rinvenute tracce di un tempietto, il che non è infrequente, e ciò conferisce, in qualche modo, un’aura sacra a quanto si svolgeva sulla scena richiamata la sacralità da quel deus ex machina nel finale delle opere drammaturgiche. Il dio è costantemente presente, abita in città per i Romani, non sta più relegato nei santuari rurali dei Sanniti e il templio nel teatro è una giustificazione del posizionamento di quest’ultimo nel contesto insediativo aggiuntiva alla motivazione esposta precedentemente (la quale era, in fin dei conti, che non c’erano motivi per metterlo in campagna). È il momento anche per un ulteriore specificazione, avendo assolto al compito di illustrare per grandi linee i connotati del teatro, di affinamento, della lettura del manufatto. Esso consiste nell’osservazione che una parete semicircolare qual è quella che sorregge gli spalti mal si sarebbe inserita nel disegno di un isolato edilizio poiché nelle planimetrie di una città romana i lotti sono rettangolari, di norma e ciò può essere alla base della realizzazione del teatro al limitare dell’agglomerato edilizio. La pianta, quella di questa struttura con un lato a semicerchio è, si insiste, la meno consona (vale pure per l’anfiteatro che è emicircolare e, però, non pone problemi essendo posto nell’agro) per un insieme urbanistico che segue lo schema ippodameno impostato sull’ortogonalità e, pertanto, refrattario alle forme curve, e, ciò nonostante il teatro è l’impianto architettonico della città che più di tutti si è conservato quantomeno in elevazione. Tanto il teatro di Altilia quanto il Verlasce si sono rivelati, a dispetto delle loro tipologie al massimo grado specialistiche, unicamente determinate dalla funzione che la costruzione era chiamata a svolgere, adattabili ai nuovi usi, rispettivamente abitativo e di deposito agricolo. Il che ha permesso loro di sopravvivere fino all’era attuale. Stiamo riannodando le fila, lo si è inteso, di vari discorsi intrapresi qualche rigo fa e tra questi vi è quello al quale vogliamo passare ora, il carattere ricreativo, di luogo della ricreazione, del teatro per cui, essendo un’opera voluttuosa essa è superflua. Nell’affermare ciò si trascura di considerare che l’arte dà prestigio ad una società. Al posto di essere una struttura inutile, poiché dal punto di vista pratico non essenziale, esso è il segno del livello di civilizzazione raggiunto da una comunità; il teatro che è rimasto in piedi, seppure trasformato, in bella evidenza è uno dei monumenti più significativi di Altilia, ammirato dai turisti alla pari della basilica, del foro e di porta Boiano. Non è un inserimento casuale nel testo di queste emergenze monumentali e alla cui visita accurata si è piacevolmente e inevitabilmente obbligati durante la permanenza nell’antica Saepinum, chissà quante cose da raccontarci ognuna di esse ha.
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Altilia, profumo di colonia
Per capire il presente, in questo caso la struttura insediativa molisana, bisogna capire il passato. I Romani hanno lasciato una forte impronta nel nostro territorio attraverso la loro politica coloniale con la creazione anche qui da noi di numerose colonie, poi evolute nelle città odierne di Venafro, Isernia, Boiano, Larino, Trivento. Solo Altilia è rimasta una città «archeologica», morta.
Altilia è il frutto, in alternativa, di una delle seguenti politiche di Roma, al plurale perché esse sono all’origine di gran parte delle sue colonie. La prima è che essa è un distaccamento, forse per evitare il suo sovraffollamento, della capitale, quasi fosse, come nell’urbanistica inglese del secondo Dopoguerra, una città satellite; poco più che un quartiere, appunto, distaccato, privo di autonomia e che, alla stregua di qualsiasi periferia, fa riferimento ai servizi presenti nell’area centrale di una grande conurbazione urbana la quale al momento della fondazione di Saepinum, va intesa limitata all’Italia. Pertanto l’agglomerato molisano è un luogo secondario in cui vivere perché staccato dal centro. L’essere un distaccamento, cosa diversa da filiazione parola che sta ad intendere un nucleo generato, si, da un altro, ma che poi viene lasciato vivere da quest’ultimo di un’esistenza propria, va da sé che esso abbia dimensioni contenute. Inoltre poiché rientra il suo concepimento nel disegno complessivo della, per dirla con termini odierni, metropoli, un sistema nel quale ogni parte ha una collocazione assegnata, definita, nuclei periferici, come Altilia, non possono espandersi perché produrrebbero squilibri all’interno dell’area metropolitana immaginata dai Romani. La cerchia di mura così curata sta ad indicare il limite entro il quale l’insediamento sepinese può estendersi, una sorta di crescita programmata; nello stesso tempo rappresenta la volontà di una sua cristallizzazione. Un diverso modo di interpretare le città coloniali, in effetti non in contraddizione con il primo, è quello di avamposti della dominazione romana, in una logica di tipo militare, non urbanistica come la precedente. Esse, in tale visione avrebbero lo scopo di controllare il territorio sottomesso, quello sannita nella fattispecie, contemporaneamente alle vie di comunicazione. L’ossessione di Roma di tenere sotto scacco le popolazioni riottose, tra gli avversari vi sono gli Italici, va di pari passo con quella di “romanizzare” le società ormai assoggettate nel proprio dominio che porterà alla concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti della penisola italiana. La finalità di esportare, con le buone o con le cattive, si fa per dire, la civiltà di Roma è un ulteriore obiettivo che spinge alla creazione delle colonie. La cultura dell’Urbe raggiunge, in maniera pervasiva, ogni angolo dei suoi possedimenti e l’effetto che produce è quello di tante Rome in piccolo nelle quali si alimenta la coscienza di appartenenza alla “nazione” romana, alle idealità che la impregnano, al modo di sentire il mondo che viene loro trasferito. Le città coloniali, in definitiva, quali riproduzioni in scala minore di ciò che diventerà la Città Eterna, mutuandone, non spontaneamente, almeno all’inizio, le istituzioni che la reggono con gli apparati di governo locale simili, fatte sempre le debite proporzioni, con quelli dello Stato; ne consegue in ogni colonia, e pure ad Altilia, la presenza del foro, della curia, della basilica, ecc.. Si trattava della quarta ragione e ora si passa alla quinta la quale si basa sulla necessità di assegnare terreno da coltivare ai veterani delle guerre, insieme ad un posto in cui collocarsi avendo perso i legami con le zone di origine dopo i tanti anni passati a combattere, in lungo e largo nel nostro continente, risultando così degli sradicati. I soldati dell’Undicesima legione furono dislocati a Boiano che assunse la denominazione di Bovianum Undecanorum, specificazione che ha suscitato, peraltro, un annoso dibattito se essa coincida o meno con la Vetus, lì dove ebbe la conclusione il Ver Sacrum.
Mettere a coltura il suolo, è ovvio, è stata una priorità delle conquiste dei Romani poiché aumenta il Prodotto Interno Lordo, o qualcosa che all’epoca assomigliava all’attuale strumento convenzionale di calcolo della ricchezza nazionale; ad essa si aggiunge quale “effetto collaterale” quello del sostentamento dei legionari, una ricompensa per il servizio prestato nelle forze armate, ognuno dei quali ricevette una parcella, senza o con la centuriazione di cui c’è traccia nell’agro di Sepino, dell’ager. Infine si segnala, per dovere di completezza, anche senza crederci tanto, che la spinta a creare la colonia, perlomeno in quel punto, possa essere dipeso dalla sussistenza di un accampamento di truppe e ciò indurrebbe a pensarlo la identicità dello schema viario tra questo e una città coloniale, ma nulla più. Non è che colonie non siano sorte su abitati preesistenti che, comunque, erano da secoli poli urbani di rilievo, vedi Aesernia e, però, sembra strano che ciò si possa essere verificato su quelli provvisori quali sono i campi, i castrum, di alloggiamento delle guarnigioni; tutto, ad ogni modo è possibile, pur se non plausibile. La forza attrattiva del sito in cui si svilupperà l’antica Sepino, piuttosto deriva dall’essere una tappa della transumanza per l’abbeveraggio degli armenti con le acque della fonte prossima di Cantoni, una delle sorgenti del Tammaro, importante affluente del fiume Calore; qui, come si conviene ad uno stazzo, invero gigantesco, di pecore, doveva esserci una recinzione e recingere sia in osco sia in latino si dice saepio, da cui Saepinum. È debole questa argomentazione che lega la nascita di Altilia con il passaggio e sosta delle greggi che migrano dall’Abruzzo alla Puglia, perché ciò succede solo due volte l’anno, mentre è forte la tesi che vuole il nostro centro legato al tratturo, la pista erbosa lungo la quale si spostano i capi di bestiame transumanti. I tracciati tratturali infatti, oltre che al transito degli ovini, diventati poi bovini nelle ultime stagioni di questo millenario fenomeno, erano utilizzati pure per i movimenti delle persone e delle merci, parola questa che evoca il mercato il quale richiede per potersi svolgere un centro di mercato e, appunto, Altilia è tale, tutto l’anno e non unicamente in primavera e in autunno quando è attraversata dagli animali che transumano (con un neologismo). Lo si esplicita, stiamo parlando in verità da un po’ dall’esame che ci eravamo riproposti al principio dei perché legati alla decisione di Roma di avere delle colonie (che noi abitualmente associamo ad un impero, anche se in effetti Altilia è di età repubblicana) all’analisi delle determinanti che portano alla sua collocazione in quel dato spicchio di territorio, in particolare nella piana dell’alto Tammaro ai piedi di m. Mutria, l’ambito in cui ricade Altilia. Lo si è anticipato sopra il legame tra nucleo abitativo e collegamenti viari, pure il tratturo, a suo modo, era una via, è il fattore fondamentale e il Pescasseroli-Candela per quanto riguarda Altilia funge da strada. Addirittura il percorso stradale da extraurbano diventa urbano sovrapponendosi al decumano. È talmente decisiva tale presenza, se non invadente, che questo è l’asse primario dell’entità insediativa, non il più lungo che, anzi, ha una lunghezza superiore quello ad esso perpendicolare, il cardo, termine che nell’urbanistica greca si applica agli elementi della viabilità secondaria. Il tratturo, trasformato nella via Minucia si trasforma nuovamente all’interno della cerchia muraria, quindi si allarga una volta raggiunto il momento nodale dell’aggregato trasformandosi in foro.
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Altilia, la forma urbis
Apparentemente è una città costruita sulla base di un modello astratto di piano e, invece, il suo disegno deriva da una cosa molto concreta. L’impianto cruciforme non è il frutto di un pensiero teorico bensì è dovuto all’incrocio all’altezza del foro del tratturo e del tratturello ai quali la viabilità cittadina si accavalla, è stata la realtà territoriale a dettare le linee dell’urbanistica cittadina.
Tracciate quattro linee ed ecco, bella e pronta, è fatta una città. Questo accadde, passato remoto perché si tratta di un tempo assai remoto, con Altilia. Le quattro linee sono le strade più che sufficienti per organizzare lo spazio urbano, se fosse successo oggi sarebbe stato necessario predisporre un Piano Regolatore Generale o, tutt’al più, un Programma di Fabbricazione, vedi Campitello un altro insediamento ex-novo. Gli urbanisti romani erano chiamati a scegliere quali sarebbero dovute essere le direttrici da seguire su cui impostare la viabilità cittadina, una scelta aperta a moltissime opzioni in quanto si è in una superficie piana la quale non pone vincoli di sorta, dimostrandosi indifferente a qualsiasi ipotesi sia di localizzazione dell’aggregato edilizio sia di disposizione delle arterie viarie all’interno dell’appezzamento di terra che si intende urbanizzare. Andiamo per ordine: per quanto riguarda l’ubicazione, ma c’entrano i percorsi, si ritiene di dover centrare l’abitato su quel particolare punto in cui si incrociano il tratturo il quale porta dall’Abruzzo alla Puglia e il tratturello il quale va dal Tammaro al Matese, punto che diventa il baricentro del nuovo agglomerato. Ne consegue, è scontato, che la viabilità interna ad Altilia si sovrapponga a tali percorrenze. Le vie urbane sono, dunque, segmenti di questi tracciati viari di portata superurbana. In definitiva, apparve opportuno approfittare dei sedimi di queste due piste per ragioni evidenti di economicità, il suolo era ben consolidato dal passaggio millenario delle pecore. Va, poi, considerato che esse erano perpendicolari fra loro, una condizione, lo si ammette, fortunosa e casuale nel contempo, ritenuta ottimale perché l’ortogonalità è stata una autentica parola d’ordine nella progettazione urbanistica delle colonie dell’Urbe. C’è una ulteriore coincidenza ed è l’orientamento secondo i punti cardinali di tali due nastri erbosi il quale dà un tocco cosmologico alla forma della città che si adegua ad essi. La pregnanza semantica della forma urbis di Saepinum è sia nel suo asse cruciforme e sia nella particolare direzionalità delle aste della maglia stradale le quali sono allineate l’una all’arco eliografico che va da est ad ovest e l’altra alla linea congiungente i due poli della Terra, il nord e il sud. È una visione ideale, se n’è consapevoli, perché nella realtà la viabilità non è stata assolutamente predisposta avendo la bussola in mano la quale, peraltro, all’epoca non esisteva. Per quanto riguarda l’andamento del cardo lo si può spiegare, oltre che per la faccenda della direzione da settentrione a meridione, con il fatto che si trova a seguire il declivio naturale del terreno il che favorisce l’allontanamento rapido delle acque dell’area urbana. Lasciando ora le implicazioni astronomiche, per quel che valgono, passiamo ad un diverso approccio alla lettura della viabilità interna dell’antica Sepino, mettendola in relazione a quella esterna. Ciò che emerge è lo stretto legame che intercorre tra le due. Le strade che intersecano al di dentro dell’abitato sono, in fin dei conti, degli spezzoni delle direttrici viarie che si sviluppano al di fuori le quali non possono essere interrotte nel loro svolgimento per il ruolo primario che avevano nell’economia di un tempo, l’una era il canale della transumanza l’altra dell’alpeggio. Le vie urbane poiché porzioni di vettori di comunicazione a lungo raggio devono essere diritte, l’obiettivo è quello dell’attraversamento veloce dell’insediamento, se non delle pecore che già effettuano una sosta prolungata in occasione delle fiere di chi si sposta per commercio o dei militari.
La meta dei vari quattro, tratti viari non è tanto il foro, come pure potrebbe essere equivocato, quanto la porta opposta a quella da cui si è giunti in città. Le porte sono reciprocamente fronteggianti e collegate fra loro secondo la linea più diretta, appunto una retta. Neanche l’area forense può costituire un ostacolo, un fattore di rallentamento di persone e mezzi, il traffico lungo il decumano la penetra. Si sarà notato che ci si è riferiti al decumano il quale è il percorso urbano più importante, la più trafficata di Altilia, poiché coincide con il tratturo regio, come si dirà in seguito, mentre in quel periodo si sarebbe dovuto appellare imperiale, che è il percorso extraurbano più importante. Per un attimo, visto che abbiano introdotto nella discussione il foro, torniamo alle combinazioni astrali: in questo caso è quella dell’innesto a squadro del tratturello nel tratturo, un angolo retto che in natura non è facile incontrarlo, un caso fortuito se non si crede all’influsso degli astri sulle cose terrene. Per fare una città anche smentendo quanto detto all’inizio, non bastano i punti, il foro, le linee, le strade, ma servono anche le aree, quindi l’intero repertorio degli elementi basilari della geometria. L’area di Sepino è quadrata, quindi ha quattro lati e ciò, il quattro, rimanda al numero delle strade le quali sono, per l’appunto quattro; neanche questa corrispondenza, così come la congiunzione a 90 gradi di tratturo e tratturello, può essere intesa come un qual-cosa di casuale, ma non ci spingiamo oltre su tale cosa. L’impostazione della maglia stradale non è in correlazione con la cintura muraria, salvo che con le porte urbiche, ancora quattro, da cui i percorsi cittadini si dipartono. Infatti alla murazione non risulta affiancato un circuito viario a circoscrivere il quadrilatero, né all’estradosso né all’intradosso. Parallela alla faccia esteriore delle mura, in verità, vi è un accenno di quello, quadrangolare di stradine di cui la più lunga è quella che va dalla Porta Terravecchia alla Porta Benevento, mentre nella faccia interiore cui era parallelo il pomerio, una striscia di terreno vuota che doveva essere lasciata libera per esigenze difensive, è sopravvissuto solo il camminamento alle spalle del teatro il quale doveva servire da ambulacro di accesso agli spalti tramite i vomitoria. La migliore figura geometrica, siamo giunti alle conclusioni, per un perimetro urbano è il cerchio e non il quadrato e se si è effettuata la scelta di tale disposizione è per ragioni espressive. Ha un valore simbolico che si ricollega al tema della pianificazione dell’agglomerato basata sul numero quattro e anche uno estetico perché l’ordine dell’insieme assicurato da un disegno regolare è il presupposto della bellezza classica tanto apprezzata nell’antichità.
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Altilia, l'ubiquità dell'urbe
Roma è presente ovunque, nei confini dell’Impero vi sono infinite città che in infinitesimo sono la sua replica, ognuna dotata di terme, foro, basilica, templi, arco trionfale, manifestazioni visibili del suo potere.
Altilia ha almeno tre ragioni che ne motivano la formazione, oltre quella universalmente riconosciuta di essere un presidio romano in un territorio ostile qual’era il Sannio. La prima è la necessità di evitare un eccessivo intasamento dell’Urbe dovuto all’afflusso dei veterani i quali dopo tanti anni di campagne belliche risultavano sradicati, senza più contatti con i loro luoghi di origine; la colonizzazione era un modo per impedire ciò. Città, dunque, di origine artificiale e non come fenomeno geografico autentico; ne deriva che venute a cadere le motivazioni iniziali vengono a perdere le giustificazioni per la sua esistenza. In verità, Altilia è l’unico caso di città romana che cessa la sua vita, mentre le altre, e cioè Boiano, Isernia e Venafro, sopravvivono alla dominazione romana, attraversano il medioevo e le epoche successive giungendo fino ai nostri giorni. La permanenza è una componente essenziale dell’”idea” di città, mentre il centro sepinese ha più qualcosa per quanto detto di un accampamento, seppure vissuto per molti secoli, che di una vera e propria entità urbana e, non a caso, dell’accampamento militare, quello costruito durante le guerre sannitiche dai Romani in tale luogo, segue lo schema viario. Il secondo motivo, il quale si lega strettamente al precedente, è di tipo economico. Bisognava mettere a valore le terre conquistate e per far ciò i Romani operavano la centuriazione dell’agro. Ve ne sono tracce nella campagna sepinate, non distante da qui. L’andamento del cardo e del decumano i quali sono ortogonali fra loro assomiglia a quello seguito dalla centuriatio a dimostrazione che siamo di fronte ad un progetto unitario di città e campagna, il classico binomio con una differenza, però, che il disegno dell’insediamento urbano per il cui sito viene scelta una superficie piatta, non è soggetto a condizionamenti fisici come potrebbe essere il torrente Tammaro, la centuriazione, invece, per considerazioni pratiche, si adegua alla situazione morfologica. Si è appena detto che la “forma urbis” è indipendente dal contesto territoriale e già lo si smentisce, in vero parzialmente: il cardo e il decumano sono orientati, di regola, rispettivamente da nord a sud e da est ad ovest, ma nell’antica Saepinum si ha uno slittamento, pur conservando la linearità e la perpendicolarità, degli assi, per tener conto del passaggio del tratturo. Non è raro, succede pure nella vicina Bovianum dove il decumano il quale fiancheggia il corso del Calderari che è curvo deve in qualche modo misurarsi con esso. Per precisazione, si ritiene di dover evidenziare che quando il terreno non è in piano l’applicazione del modello stradale costituito da aste che si incrociano è difficoltosa e lo dimostra Terventum dove il foro, il quale è la congiungente dei vari percorsi, non può essere, come ipotizzato da Matteini Chiari, la piazza della Cattedrale perché il tempio di Diana, che doveva trovarsi nel piano del foro come qualsiasi tempio, è più in basso della quota della chiesa di cui è divenuto cripta. Il terzo fattore che ha portato alla nascita di Altilia non è di natura funzionale come quelli elencati prima, ma di ordine squisitamente simbolico. La costituzione di una realtà insediativa risponde all’esigenza di manifestare in ogni angolo del suo dominio la presenza di Roma. L’intento semantico si rafforza con l’avvento dell’Impero quando l’immagine di Altilia si, per certi versi, monumentalizza con la costruzione del teatro, delle terme, di templi. Per quanto riguarda questi ultimi è da sottolineare che anche le divinità devono traslocare in città, la quale è il riferimento assoluto, muovendo dai santuari posti nelle zone in altitudine dai Sanniti, vedi Ercole Curino a Campochiaro.
La Città Eterna si replica, è scontato in scala ridotta e con varianti, tantissime volte, tra cui Altilia in giro per i confini dei possedimenti imperiali, quindi dall’Asia Minore all’Africa Settentrionale, dalla Penisola Iberica alla Gran Bretagna, dalla Francia ai Balcani. Si avverte pervadendo pure le coscienze individuali all’interno di questo vastissimo territorio, l’ubiquità del potere imperiale che controlla qualsiasi cosa, ogni aspetto della vita delle popolazioni assoggettate per farne i loro componenti cittadini romani. La Pax Romana indetta da Augusto si manifesta con la civilizzazione urbana e i centri abitati ora sono maggiormente espressivi che nel passato, nel Sannio erano semplici vici almeno fin quando esso non entrò in contatto con la Magna Grecia e, perciò, con il concetto di polis. L’autorità imperiale è connaturata con la teatralità pure degli spazi: l’organizzazione assiale degli abitati e le stesse lunghissime, larghe e rettilinee strade rispondono a tale scopo. Nell’architettura ciò equivale al classicismo che tra i suoi dettami ha la disposizione rialzata, non conta di quanto, degli edifici pubblici (il crepidoma), a cominciare, ad Altilia, dalla Tribunal sopra la Basilica, per imporsi nelle vedute cittadine. Quello che costituisce il segno distintivo dell’urbanistica voluto dagli Imperatori è l’ordine il quale rimanda alla pianificazione perché nel sistema di governo romano niente deve essere lasciato al caso. Un sistema altamente centralizzato non ammette di conferire una vera autonomia neanche al Municipio che è il rango concesso ad Altilia. Così il foro, tanto vasto, presente al suo centro non può essere considerato propriamente l’erede dell’agorà greca che era il posto delle assemblee democratiche nelle quali si prendevano le principali decisioni riguardanti la comunità locale, pur se ha caratteri formali simili. Era, comunque, il foro una novità assoluta in quanto nella struttura vicana del Sannio preromano fatta di minuscoli villaggi non esisteva il concetto stesso di piazza, il luogo dove assumere le determinazioni sulle problematiche maggiori concernenti il futuro della tribù (equivalenti alle città-stato della Grecia) essendo rappresentato dai grandi santuari religiosi, il più grande è quello di Pietrabbondante presso cui si radunava periodicamente l’intera nazione sannita. Il foro, ad ogni modo, nonostante non poteva essere una sede decisionale, con un gioco di parole, decisiva, rappresentava, di certo, un momento vitale di incontro per gli abitanti di Altilia, inevitabile del resto data la sua posizione nel crocevia tra il cardo e il decumano. Lo spazio pubblico quale punto focale dell’insediamento abitativo è cosa non da poco. Questo suo ruolo di convergenza, peraltro non solo di chi vive in Altilia, ma anche dei mercanti che l’attraversano collocata com’è la nostra città sulla via Minucia e dei pastori durante la transumanza per via del decumano che è il tratto urbano del Pescasseroli-Candela, è esaltato dal non essere un episodio cittadino fisicamente a sé stante, segregato, come pure sarebbe potuto accadere, rispetto alla rete di circolazione, pure quella extraurbana (l’altra direttrice, il cardo, collega il Matese con la piana). Non è affatto appartato, bensì pienamente integrato nel tessuto urbanistico e ciò ne rivela la pregnanza civica.
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Altilia si fa in quattro, 4 porte, 4 strade, 4 settori urbani
Tutto in questa città è divisibile per tale numero il quale costituisce la chiave di comprensione dell’organizzazione urbanistica. Il 4 ha quasi un valore simbolico e insieme rappresenta una volontà d’ordine, l’ordine imposto da Roma ai popoli che ha assoggettato. Sono 4 pure i lati della cintura muraria la quale non è un cerchio che sarebbe stata la forma più appropriata per le mura urbiche bensì un quadrato. Alla stessa maniera è quadrangolare anche il foro.
Per comprendere Altilia bisogna affidarsi alla geometria. Il perimetro della città tende al quadrato e lo spazio interno è suddiviso in quattro settori ognuno dei quali, idealmente, è quadrato, la rete viaria è formata da quattro segmenti che si incontrano nel foro il quale è quadrangolare. La scelta di una organizzazione urbanistica dominata da una precisa forma geometrica risponde sì ad esigenze funzionali, ma nello stesso tempo è rivelatrice di una certa visione del mondo. Scomodare una figura cartesiana per disegnare la pianta di un insediamento non lo si fa a cuor leggero di certo, ripartire una superficie in moduli-base che sono sottomultipli di un massimo comune denominatore dell’insieme potrebbe apparire un’operazione artificiosa, addirittura leziosa, se non si riconosce a questa modalità di pianificazione un valore simbolico. L’entità insediativa deriva dalla somma di più unità minime tutte uguali fra loro, una città modulare dunque, e una scansione simile la ritroviamo anche nella parcellizzazione dell’ager attraverso la centuriazione. Non c’è bisogno di misurare l’intero, basta conoscere le dimensioni della particella minimale e poi procedere al conteggio del numero di questi fatti elementari: dalla moltiplicazione dei metri quasi quadri dell’area occupata da una di queste minuscole entità per il quantitativo totale delle stesse si giunge a stabilire la grandezza dell’abitato. Una formula matematica analoga è valida anche per l’agro soggetto a centuriatio di cui nella campagna di Altilia vi è traccia. L’uomo mediante tale metodo con un colpo d’occhio può controllare il territorio, aspirazione di qualsiasi governante. Alle finalità pratiche vanno aggiunte quelle politiche perché il dominio si estende dalla sfera spaziale a quella culturale con l’Urbe che alla stregua di un Grande Fratello tiene sotto osservazione e di conseguenza sotto scacco i suoi possedimenti giungendo a permeare la coscienza delle persone con la sua regola formale d’ordine, geometrico, la teoria del Panottico di Foucault. È tempo di passare dal preambolo di carattere generale alla descrizione puntuale della città. Iniziamo dalla cinta muraria, il segno più evidente di tale volontà regolarizzatrice. I suoi lati si incontrano ad angolo retto, sono cioè a “squadro” per richiamare la parola “quadro”, il confine della città non è una linea continua o meglio non è una linea curvilinea come ci sarebbe da attendersi per una murazione urbica. L’adozione di un poligono perfetto, il quadrato, quale pianta della città fa il paio con la ricerca di una sorta di “regola aurea”, di tipo lineare e non areale, quella leonardesca, nella disposizione delle torri lungo la cortina appunto turrita le quali sono numerose, oltre 20, e equidistanti fra loro. Che siano utili o meno così tante torri, una serie così fitta, non si è in grado di dirlo in termini di tecnica militare, un problema quello della coerenza con le necessità guerresche che riguarda pure la forma a quadrilatero delle mura perché non c’è dubbio che un tracciato curvo sarebbe preferibile, basta dire che gli spigoli ad arco di cerchio sono più resistenti di quelli con angoli a 90 gradi agli urti delle palle di pietra scagliate dalle macchine da guerra degli assalitori. Può darsi che il posizionare le torri ad identica distanza sia dipeso da una questione estetica più che da finalità belliche, il frontone, l’estradosso delle mura è un po' questo, si vuole che sia bello, che si offra a chi guarda il centro abitato dall’esterno una immagine architettonica compiuta, non lo sarebbe se la loro sequenza fosse irregolare.
Se c’è una motivazione connessa alla funzione e non alla bellezza di questa lunga teoria di torri è piuttosto che quella militaresca una di tipo statico fungendo tali cilindri quali elementi verticali rompitratta utili per stabilizzare ovvero tenere fermo il muro. È da aggiungere a favore della tesi che si sta sostenendo che la cerchia, però non è un cerchio, muraria sia un’opera, per certi versi, di abbellimento oltre che di protezione è la circostanza che essa venne realizzata quasi in coincidenza dell’età imperiale, all’avvento della quale scattò la Pax Augustea che garantirà un periodo protrattosi a lungo di assenza di conflitti, Rimane, comunque, il fatto che il fronte murato rappresentava il connotato distintivo di Saepinum il cui nome sembra derivare proprio dal verbo saepio, recingere attribuito a questo luogo forse dalla presenza di una palizzata in legno, delimitazione a mo’ di stazzo di ovile dove si raccoglievano le pecore transumanti che vi sostavano in attesa dello svolgimento del mercato. A favore del riconoscimento della natura di opera di difesa all’origine vi è che la murazione è una delle componenti costitutive del castrum qual era al momento della sua fondazione Altilia che ha la planimetria classica di un accampamento di soldati. Sentirsi al sicuro fra quattro muri, i muri, è evidente sono, le porzioni delle mura sepinesi, ambedue plurali, è una curiosità, del termine muro, è un obiettivo primario che la cittadinanza si pone fin dall’atto fondativo dell’insediamento castrense, Proseguendo con l’andamento altalenante della discussione in corso torniamo alla lettura della cintura muraria quale sorta di cornice che inquadra il nucleo abitativo: ogni porzione della cortina muraria, sono quattro, ha i caratteri di una facciata di rappresentanza dell’abitato, non vi sono differenze fra loro, non vi è un fronte principale e gli altri secondari. In comune con i palazzi, comunque, le mura hanno qualcosa che sono le porte, i “pezzi” di maggior prestigio in genere per entrambi. Per la loro fattura ad Altilia le porte assomigliano ad archi di trionfo ad unico fornice, uguali all’Arco di Tito sulla Via Sacra del Foro Imperiale della capitale dell’Impero e non a triplice archeggiatura, l’esempio è l’Arco di Costantino che sta lì vicino, dunque un portone solo proprio come nei palazzi. Le porte urbiche con le iscrizioni commemorative sovrapposte, hanno le sembianze di arcate d’onore erette per celebrare la gloria di Roma. Nello stesso tempo esse rappresentano un monito diretto alle popolazioni sannite che avevano osato ribellarsi alla dominazione romana. Le porte per via delle loro fattezze monumentali conferiscono un’aura speciale all’ingresso nell’area urbana ed esse quasi preannunziano la ricchezza di monumenti che si incontrano inoltrandovisi; esse, ovviamente per coppie, fanno il paio con l’Arco dei Neratii che si erge nel foro. Da segnalare in uno stipite della Porta Boiano la lapide denominata De Grege Oviarico che indica il pedaggio che i pastori devono pagare per entrare in città disturbando la tranquillità e sporcandola.
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Altilia quale new town ante litteram
Lo schema ad assi viari ortogonali si è ampiamente diffuso in Nord America al momento della colonizzazione di queste terre da parte degli Inglesi. Saepinum è anch’esso una colonia, adesso, in verità allora, dei Romani. È un impianto urbanistico utilizzato pure nei nuovi quartieri urbani a cominciare dal Borgo Murattiano di Campobasso.
Può sembrare strano che il foro di Altilia si trovi decentrato rispetto al baricentro geometrico dell’insediamento. Una ragione di tale anomalia potrebbe essere il fatto che l’ambito delimitato dalle mura comprende anche un settore urbano, un vasto appezzamento di terreno, vuoto che è numerato dagli archeologi nella mappa topografica della città con il numero 4, il settore IV, destinato a futuri ampliamenti dell’abitato; la pianta urbica perciò si presenta di forma rettangolare e non quadrata. La cosiddetta agorà se non è centrale in senso longitudinale lo è in quello trasversale ponendosi nel punto mediano tra le porte Boiano e Benevento collocate rispettivamente a est e a ovest. Essa costituisce il punto, e da ciò ne deriva il suo carattere di centralità, in cui si incrociano i percorsi viari fondamentali del municipium, il cardo e il decumano. Visto che stiamo parlando della centralizzazione dello spazio, discorso in cui abbiamo appena inserito le arterie cittadine, bisogna aggiungere che l’area forense se non è nella mezzeria del cardo lo è in quella del decumano il quale è l’asse stradale maggiore circostanza che assicura la polarità di questa piazza. Conta meno perché conta meno il cardo o cardine che dir si voglia il fatto che tale piazza sia molto più vicina a porta Terravecchia rispetto a porta Tammaro; al limite, a ben pensarci non cambierebbe un granché se il foro fosse stato localizzato al termine del cardo, per capirci nel sito dove nel XVIII secolo si formò il raggruppamento di case chiamato il Malborghetto, anche se è inusuale nell’urbanistica romana la posizione marginale del foro, ciò sarebbe una diminutio. Del resto fin quando non si fosse verificato il riempimento con abitazioni di quel comparto urbanistico al momento, non lo sarà mai, non occupato il foro sarebbe stato perfettamente, o quasi, centrato sull’agglomerato insediativo in essere. Riprendiamo l’osservazione fatta sopra che il foro è il crocevia tra il cardo e il decumano per dire che così come queste due strade non sono ortogonali fra loro, vi è un lieve scostamento dalla condizione di perpendicolarità, così i lati della superficie forense non formano tutti un angolo retto quando si congiungono, solo 2 sono a 90 gradi, il che determina che essa sia planimetricamente trapezoidale. Di annotazione in annotazione, il lato del foro che fiancheggia il cardo è di lunghezza inferiore al lato adiacente al decumano e così pure per tale via (via non nel senso di strada) viene confermata la superiorità di quest’ultimo nello schema vicino. Il decumano non è solo un “fiancheggiatore” del foro, fa ad esso da spalla, poiché conserva una sua autonoma leggibilità all’interno dello stesso, vedi la differente pavimentazione. La gerarchia tra le vie urbane, va evidenziato, segue quella fra le direttrici extraurbane delle quali esse sono il segmento durante il passaggio dentro il perimetro murato, il decumano è un pezzo del Pescasseroli-Candela, il cardo del tratturello che porta dal fiume Tammaro all’acropoli antica di Terravecchia, destinazioni rivelate dal nome delle porte che attraversa; il fenomeno della transumanza è ben più rilevante di quello dell’alpeggio da cui la prevalenza del tratturo che ne è il “canale di trasmissione” nelle percorrenze pure intramoenia. All’obliquità nel rapporto tra i due tracciati, comunque, si fa poco caso perché è lieve. Ambedue sono percorsi rettilinei e ciò fa sì che l’impronta generale di Saepinum sia dominata da linee rette, una caratteristica geometrica che è confermata pure dalle murazioni, un poligono regolare (un rettangolo e non un quadrato come nei castrum classici). Qualora non si ritengano sufficienti le argomentazioni addotte a sostegno della tesi sulla primazia del decumano se ne fornisce una ulteriore che appare decisiva, quella che il decumano è lastricato e il cardo è in battuto nonostante si ammetta che lascia un po' perplessi il fatto che il secondo sia assai più lungo. Infatti ad uno sviluppo superiore corrisponde una quantità superiore di persone che vi transitano, raccolte durante il suo svolgimento, solo è che, puntualizzazione già fatta, un pezzo dell’aggregato urbano che esso costeggia è un quartiere che non è mai stato popolato (e, peraltro, mai infrastrutturato). L’urbanistica delle colonie di Roma segue, in verità precede di molto, il modello delle città coloniali sorte tra il XVIII e il XIX secolo, tra cui vi è il Borgo Murattiano di Campobasso, e nello stesso tempo se ne discosta avendo in comune, sì l’ortogonalità delle strade, ma avendo la peculiarità dell’assetto cruciforme. Nel reticolo stradale delle realtà urbane coloniali, inoltre, non vi sono percorsi prevalenti, si tratta di scacchiere con vie di livello paritario funzionali a delimitare lotti edificatori tutti uguali. Dei lotti e degli isolati in cui essi si accorpano, le unità minime dell’insediamento, è ciò di cui ora vogliamo ragionare. Seppure non vi siano evidenze archeologiche poiché gli scavi finora effettuati hanno interessato una piccola parte della superficie di Altilia è da presupporre che essa fosse suddivisa in isolati, e a cascata in singoli lotti, le unità minime della città, deducendolo dalla comparazione con altre entità insediative dell’antichità di nuova fondazione. In questa maglia di isolati si inserisce il foro senza determinare perturbazioni a tale organizzazione dello spazio urbano. Il foro è ottenuto sottraendo alcune tessere a tale maglia. Si è usato il verbo sottrarre ovviamente in modo improprio, la presenza del foro viene concepita fin dal momento della creazione della città, non successivamente con una operazione di sottrazione, quindi non si è trattato, per fare posto ad esso, di cancellare tre o quattro isolati previsti dal programma di fabbricazione, asportare dei tasselli dal cuore dell’abitato, modificare il, per così dire, piano regolatore. Che sia così, che i fatti si siano svolti nel modo descritto, è provato dalla circostanza che questo luogo è rispettoso degli allineamenti viari, ha, per quanto consentito vista la mancanza di una esatta perpendicolarità tra cardo e decumano, una conformazione regolare così come si conviene agli isolati, tanto presi individualmente quanto in aggregazione, regolarità che deriva dalla loro natura di essere multipli delle particelle edificatorie; i fabbricati è meglio che non siano sghembi, funzionerebbero male, per cui neanche il loro insieme che costituisce un’insula lo è. C’è qualcosa che rimanda alla memoria le lottizzazioni edilizie contemporanee, in particolare quelle regolari ovvero in regola con le norme.
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Altilia nascita, sviluppo, decadenza e morte di una città
Il ciclo di vita di Altilia è stato, tutto sommato breve, circa 500 anni. È sorta qualche secolo prima dell’avvento dell’Impero e si è conclusa dopo la sua caduta, ha vissuto, cioè, tutta la parabola dell’età d’oro della civiltà romana. Poi è caduta in un lungo letargo, se così si può dire, dal quale si è iniziata a risvegliare in età contemporanea con gli scavi archeologici che hanno fatto riemergere le sue vestigia. Per oltre un millennio era scomparsa addirittura dalla memoria. Un flebile legame con il mondo dei viventi è stato il tratturo che la attraversa per il passaggio della transumanza
È vero che Altilia ha come marchio di fabbrica l’essere una colonia, cioè un centro da popolarsi con gente proveniente da altre zone dei domini di Roma che viene trapiantata lì in modo che così fosse assicurata la fedeltà della città creatura dell’Urbe, un suo avamposto in un territorio ostile qual era il Sannio, ma è altresì vero che qui si trasferirono, obbligatoriamente e volontariamente nello stesso tempo, le popolazioni ormai assoggettate che al momento della conquista romana erano presenti in quel comprensorio. In qualche modo questa unità urbana è derivata dalla fusione, forzata o meno, di più villaggi sannitici, oltre che, lo si è detto, da forestieri, i coloni stabilitivisi per volere dei conquistatori. La comparsa di Saepinum ha quale contraltare, pertanto, l’abbandono dei precedenti siti italici, da quello di Terravecchia a quello di monte Saraceno a quello di colle S. Rocco. In definitiva, si è trattato nel contempo di una colonizzazione e di un sinecismo. Quest’ultimo non è stato un fenomeno artificioso perché già antecedentemente se i luoghi dell’abitare erano separati vi erano momenti di vita comunitaria legati alle pratiche di culto le quali si svolgevano presso il santuario di Ercole Curino e alla sepoltura dei morti nelle necropoli di Vicenne e di Cantori, sempre a Campochiaro. La sfera spirituale, la religiosità è un valore fondamentale, era vissuta in comune. Non una fusione a freddo, dunque, bensì a caldo. Che dovesse essere la piana formata dai depositi alluvionali del fiume Tammaro ubicazione dell’insediamento da fondare è abbastanza scontato in quanto per realizzare un’entità insediativa di dimensioni significative occorreva necessariamente una pianura, per una cittadina di una certa estensione sono poco adatti i suoli in pendio. C’è, poi, da tener conto che lo schema impiegato dai Romani il disegno della pianta delle loro fondazioni coloniali è, di regola e Altilia non fa eccezione, quello castrense, modello urbanistico che si cala bene su terreni pianeggianti, anzi è indicato esclusivamente per questi altrimenti bisogna ricorrere, vedi Bovianum, ad un impianto urbano a terrazze sull’esempio di Priene considerato il capostipite di tale tipo di urbanistica. È da evidenziare che il castrum rappresenta una tipologia elementare se non rudimentale, una specie di abitato “quadro e squadro”, assai semplice e, però, ritenuto sufficiente per un agglomerato qual era la Sepino delle origini assai primitivo, il riferimento tipologico che fu scelto era quello di un accampamento militare. Di certo la nostra città non era stata dotata di un Piano Regolatore Generale e, di conseguenza, non vi era il Programma Pluriennale di Attuazione, strumento, lo dice la parola stessa, attuativo del primo, per cui le fasi di sviluppo dell’aggregato edilizio sono state discontinue, a quella iniziale di annucleazione si sussegue prima un consolidamento del tessuto abitativo e, poi, quando la formazione dell’insieme urbano appare ormai completata si innesca un processo di trasformazione dell’edificazione esistente in senso monumentalistico e contemporaneamente l’addensamento del costruito cui segue la saturazione degli spazi liberi preferendo procedere, per quanto riguarda quest’ultima, anche temporalmente, tendenza, al riempimento dei vuoti sussistenti nell’insieme edilizio piuttosto che all’occupazione delle superfici del quartiere appositamente destinato all’ampliamento dell’abitato il quale non venne mai urbanizzato rimanendo da allora privo di case e di infrastrutture. Per l’economia del discorso si tralascia l’illustrazione punto per punto di quanto è avvenuto e si passa direttamente alle conclusioni, o meglio alla conclusione, cioè alla fine di Altilia. Il termine definitivo di vita della cittadina deve essere stato preceduto da un periodo di lenta decadenza in coincidenza con la crisi delle istituzioni municipali verificatasi nel tardo Impero. La scomparsa definitiva dell’Altilia romana va datata all’età delle invasioni barbariche alle quali, peraltro, va attribuita la causa della morte. Una timida ripresa si è cominciata a registrare con la ripresa contestuale della transumanza nel XIV-XV secolo per via del tratturo Pescasseroli-Candela che l’attraversa. Vi è stato, perciò, un millennio di totale oblio. Ad ogni modo, non siamo di fronte ad una rinascita vera e propria in quanto dal rango di città Altilia scende a quello di villaggio. La sua storia la si può sintetizzare come una parabola che dalla nascita passando per la formazione embrionale dell’abitato giunge al concepimento dell’assetto urbanistico cui segue il declino che si conclude con il decesso. Vi è stato un intervento di rianimazione nella cosiddetta età di mezzo e, però, è stato tardivo, esso non è riuscito a risvegliare la città divenuta nel frattempo fantasma, una ghost town come se ne vedono molte oggi in giro per il mondo. La minima ripresa era di carattere spontaneo, lo sfruttamento del patrimonio edilizio ancora recuperabile, non è stato guidato dall’autorità politica che avrebbe avuto interesse a farsi parte attiva nel ripristino di questo antichissimo luogo di scambio a servizio della transumanza; l’erario ne avrebbe tratto consistenti entrate incassando l’obolo da pagarsi da parte degli armentieri per la partecipazione della fiera che li ab imis si svolgeva in occasione del transito delle greggi. Sebbene in rovina l’immagine del municipium si è conservata, in certi tratti sostanzialmente inalterata, prendi il decumano, un percorso viario che non poteva scomparire a pena di interrompere il flusso della transumanza essendo il segmento urbano del tratturo il quale si infila sotto Porta Boiano e si trasforma in una via cittadina, appunto il decumano e riappare quando esce da Porta Benevento. Una terminazione dell’esistenza tutto sommato abbastanza repentina la quale non ha dato alla città tempo di invecchiare, di consumarsi, un po' quello che è successo ai monumenti della civiltà Maja. Deve essere stato merito di qualche divinità pagana che ha avuto a cuore Altilia se è vero il detto «muor giovane chi è caro agli dei».