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A PROPOSITO DI PAESAGGIO

1  - Le nuove strade e il paesaggio

la diversità dei boschi
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Partendo da un caso particolare che è quello della ditta Felice in agro di Casacalenda, il cui impianto di betonaggio sembra essere nato in funzione della costruzione della nuova arteria di collegamento nel tratto dalla Bifernina allo svincolo di Provvidenti, affrontiamo questioni più generali. La prima è quella della provvisorietà suggerita dalla stessa provvisorietà del cantiere, insistendo questa attività sul sito del cantiere installato per la realizzazione della strada: percepiamo l’ambito interessato come un paesaggio, per così dire, provvisorio, tanto più che qui il tracciato stradale si interrompe in attesa del finanziamento del successivo pezzo che dovrà ricongiungerlo (vi è già un viadotto incompleto) con quello che porta a Sant’Elia a Pianisi, parte dell’unica direttrice viaria destinata a collegare la vallata del Biferno con quella del Tappino. Il secondo tema che viene subito in mente di fronte a tale infrastruttura stradale, comprensiva dei manufatti connessi, appunto il cantiere, è quello della velocità delle trasformazioni paesaggistiche; in verità non è proprio così nella nostra situazione, perché l’arteria iniziata il 30 settembre 1993 è stata dotata di uno svincolo efficiente per Casacalenda solo da pochi anni. Si è citata tale data perché in quel giorno dovettero trovare avvio tutti i progetti rientranti nel programma finale dell’Intervento Straordinario per il Mezzogiorno, l’ultima grande “infornata” di opere pubbliche che ha interessato il Molise.

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Stiamo parlando di velocità delle mutazioni dei quadri visivi, una cosa alla quale noi molisani non eravamo abituati almeno fino, siamo negli anni Settanta, alla nascita dei due invasi, delle due fondovalli, dei nuclei industriali. In pochi decenni la vecchia immagine della regione è stata profondamente modificata, lasciando i molisani quasi storditi dai cambiamenti, perché di colpo ci si è trovati al cospetto di quadri visivi del tutto differenti. Ci si è calati in breve tempo in un mondo diverso e il Molise stava diventando irriconoscibile tanto sono state vistose le modificazioni dei panorami, specie in alcuni tratti del territorio come i comprensori, tra cui quello tra Ripabottoni e Casacalenda, attraversati dalle moderne strade. Mai si era vista una simile rapidità nelle modificazioni delle vedute panoramiche, dovendo risalire probabilmente all’epoca romana quando venne creato il Municipio della vicina Larino per trovare qualcosa di comparabile, non il Medioevo essendo l’incastellamento un fenomeno di lungo periodo. Un arco temporale più breve per le modifiche alla configurazione territoriale lo si ha unicamente con gli eventi bellici, ma per fortuna il Molise non è stato fronte di guerra nel secolo passato, o con il terremoto, e San Giuliano di Puglia, centro non troppo distante da Casacalenda, ne è un esempio. Il terzo punto tra gli argomenti di riflessione collegati alla faccenda del cantiere è quello del «non finito», che suscita un sentimento equivalente alla perdita di sicurezza dal punto di vista psicologico per il venir meno dei riferimenti visivi, scomparsi i “segni” del paesaggio tradizionale e non ancora affermatosi un paesaggio contemporaneo compiuto. Una strada, anche qualora completata, è una struttura che, per la sua rilevanza fisica, richiede un periodo non corto per essere assorbita nell’immagine dei luoghi. Ci stiamo assuefacendo al non finito che qui da noi impera in molti campi: dalla Ricostruzione post sisma non ancora conclusa neanche nel perimetro del “cratere” in cui c’è pure Casacalenda, alla baraccopoli, adesso siamo lontani da Casacalenda, di Rionero Sannitico per ospitare, sino a non molto tempo fa, persone con case distrutte da una frana, al formarsi, in assenza di un qualsiasi piano, di autentici insediamenti abitativi nella campagna di Campobasso. Non finito è una definizione che può impiegarsi pure per i capannoni produttivi ormai dismessi e non convertiti ad altro uso, neanche a testimonianza dell’archeologia industriale con opportuni interventi di restauro, o i tanti P.I.P. lasciati vuoti (parte della zona industriale Fresilia a Frosolone, ad esempio).

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Seppure sempre di non finito si parli, quello di prima va definito paesaggio della disorganicità, quest’altro dell’abbandono. Riprendendo le fila del discorso, abbiamo messo in relazione l’impianto di betonaggio da cui si è partiti con tre effetti percettivi che esso determina, e cioè la provvisorietà, la velocità e il non finito. Bisogna, comunque, dare un peso alle cose: il sito di cantiere è una sorta di spia delle problematiche, una è l’arteria nel suo complesso a provocare, per il peso visivo, le sensazioni descritte. Le infrastrutture viarie attuali hanno sempre un grande impatto sul paesaggio che assorbe in sé quello delle opere connesse, per dirlo in altri termini. Una precisazione da fare che non si è fatta all’inizio è che si è presa la strada, quale esemplificazione, se non simbolo nell’età che stiamo vivendo, della precarietà che ormai si è insinuata nella visione dei paesaggi. Costruire un’arteria lo si fa velocemente poiché ci si avvale di tecniche avanzate, di grandi scavatrici meccaniche, non più del ritmo del lavoro manuale. Pensare che i tracciati che corrono lungo versanti montuosi, quello tra il Biferno e Casacalenda, l’esecuzione dei quali richiede l’effettuazione di squarci nei rilievi e riporti di materiali per rendere piano la sede carrabile, riescano a integrarsi subito nel paesaggio è sbagliato: i processi naturali di riassestamento del terreno durano necessariamente un lungo tempo per cui vi è la provvisorietà nell’aspetto paesaggistico. I paesaggi preesistenti vengono alterati anche se la nuova viabilità segue percorsi precedenti e ciò lo si può constatare lungo l’antica statale per Termoli, tra Campolieto e Casacalenda; l’asse viario cambia, non è più ondulato come quello vecchio per seguire l’ondulazione del terreno e poi vi sono i viadotti per superare i corsi d’acqua oppure per passare con un gran balzo da una collina all’altra e gallerie. Non è stato finora bonificato e restituito alla natura o trasformato in pista ciclabile il sedime della strada che viene abbandonato, a causa, è da ritenere, della norma che stabilisce che i percorsi stradali, essendo beni demaniali, sono inalienabili e perciò inamovibili. Lungo questa arteria, che non è corretto ritenere una rettifica, un semplice riassesto della Sannitica, sono rare le stazioni di servizio, mentre i sovrappassi e gli svincoli aerei, magari a quadrifoglio, sono inutili. Le strade richiedono nella fase di realizzazione a volte cave di “prestito” e superfici da colmare con la terra derivante dagli scavi, sempre un’area da destinare a cantiere, anch’esse, nonostante siano temporanee, opere complementari al percorso viario e con il quale costituiscono un tutt’uno in termini di incidenza ambientale, di effetti di provvisorietà, di velocità, di non finito avvertiti dalla coscienza collettiva.

2 -L’inizio dell’interesse per il paesaggio

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Fino agli anni Settanta, pur essendo la legge sulle «bellezze naturali» del periodo fascista, non vi erano vincoli paesaggistici nel Molise e, del resto, erano rari in tutta la Penisola (interessando solo le località rinomate, come ad esempio il lago di Garda). Il primo vincolo è proprio del 1970 e riguarda la costa; ne seguiranno altri nel 1974, è il caso di quello del Matese, e nel 1977 in coincidenza con il passaggio delle competenze sulla tutela alle Regioni, con una progressiva estensione delle zone vincolate che, però, non arriverà a coprire l’intero ambito regionale. Il territorio molisano in precedenza non era soggetto ad alcuna forma di controllo, non solo paesistico. Infatti, anche dal punto di vista urbanistico bisognerà aspettare il decennio tra il 1970 e il 1980 per l’avvio della regolamentazione territoriale, nonostante la legge istitutiva dei piani sia del 1942, sempre di epoca fascista, dunque di oltre trent’anni prima. C’è voluta la spinta della cosiddetta Legge ponte che è del 1967 per convincere le amministrazioni comunali molisane a varare gli strumenti urbanistici, senza i quali, in base a tale disposizione legislativa, non sarebbero state possibili nuove edificazioni. In verità, lo sforzo compiuto dai nostri Comuni non è stato enorme poiché ci si è limitati a redigere prevalentemente Programmi di Fabbricazione, invece di elaborare Piani Regolatori Generali, documento ben più significativo. Il 1970 è una data importante pure per un’altra ragione: l’inizio dell’autonomia regionale. Fino ad allora, l’unica legislazione esistente era quella statale, che evidentemente si muoveva su una scala nazionale: il problema principale in Italia a quel tempo era (ed è) quello della crescita disordinata delle periferie, non unicamente nei centri maggiori o in quelli del Nord dove si erano trasferite masse consistenti di meridionali. Collegate a queste vi erano altre questioni spinose, dalla speculazione edilizia all’intasamento automobilistico delle città. L’obbligo della pianificazione imposto dalla già citata Legge ponte è legato alla necessità di fronteggiare le minacce di alterazione degli insediamenti abitativi, conseguenze dello sviluppo industriale. Nessuno nell’età del “boom economico” si sarebbe sognato di opporsi all’installazione di una fabbrica che porta posti di lavoro, seppure con il rischio di guastare il paesaggio e financo di causare inquinamento. Vi è il mito di un progresso che fa tutt’uno con la crescita produttiva. Che non bastino i Programmi di Fabbricazione, i quali hanno quale campo di applicazione fondamentalmente gli agglomerati urbani, senza alcuna incidenza sull’agro rurale, ma che necessitino i Piani Regolatori Generali risulta evidente se si pensa a come sono cambiate le campagne sia perché invase da capannoni, tanto a destinazione zootecnica quanto per rimessa di prodotti o mezzi agricoli sia in quanto sedi privilegiate, in epoca più tarda, di discoteche o centri commerciali.

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Vi sono, poi, le trasformazioni delle zone extraurbane provocate dall’esplosione proprio negli anni Settanta del fenomeno del turismo di massa legato all’aumento del tempo libero, legato a sua volta alla nuova tipologia di lavoro che è il lavoro dipendente e legato, infine, all’affermarsi della motorizzazione privata che ha portato alla costruzione delle arterie moderne che permettono di raggiungere stazioni sciistiche, prendi Campitello, dunque località montane, oppure posti di villeggiatura marina, anche assai reconditi, sul litorale adriatico, si pensi a Campomarino. Sia il centro turistico estivo che quello invernale sono del 1970; essi hanno comportato la “cementificazione” delle aree più belle del Molise, che è avvenuta per compiacere il nascente e irrefrenabile impulso al consumismo. Non è stato risparmiato, prima della “Legge ponte” che qui ammette unicamente ristrutturazioni, neanche qualche borgo collinare pittoresco il cui skyline è stato alterato da volumetrie ingombranti, vedesi ciò che è accaduto lungo l’imponente scalinata di via San Nicola a Trivento, dove a circa metà della stessa un antico fabbricato è stato sostituito da una palazzina pluripiano del tutto anonima. Non si riesce a credere che la gente, compreso uomini di cultura, non si rendesse conto della banalità estetica della produzione architettonica corrente, prediligendo solamente il fatto che quelle brutte case fossero più comode da vivere. Manco tanto, peraltro, funzionali, considerato che i loro autori erano in genere geometri, anche per via dello scarso numero di architetti nel passato (Pacanoski e Antonelli a Campobasso, Gentile a Boiano, Coppola a Isernia e pochi altri). Le ragioni dell’apprezzamento della modernità nel settore costruttivo sono molteplici e, fondamentalmente, nelle persone uscite dagli eventi bellici della Seconda Guerra Mondiale c’è il desiderio di rinnovamento in ogni campo, di rinascita. Per i ceti subalterni si aggiunge la volontà di sfuggire la miseria contadina, e l’appartamento in condominio, di norma periferico, viene a rappresentare una sorta di ascesa sociale. Attraverso le riviste illustrate popolari e i primi programmi televisivi, di frequente visti al bar, entrano nell’immaginario collettivo, anche nei paesi più piccoli e isolati, visioni della vita cittadina nelle quali si idealizzano pure i quartieri delle case popolari. Vi è un processo di omologazione culturale che investe, in maniera indistinta, qualsiasi angolo del Paese e in nome del mutamento si distrugge o si compromette il patrimonio edilizio tradizionale. Non è che oggi le cose vadano tanto meglio, poiché se è vero che adesso i borghesi, piccoli o medio-alti che siano, ricercano, specie per farne una seconda casa, quelle dimore contadine che prima disprezzavano, e che per essi sono diventate oggetti esotici piuttosto che beni culturali. Attraverso i lavori di ristrutturazione si tende a imitare le più trendy costruzioni agricole della Toscana o dell’Umbria, adottando così, nei rifacimenti dei poveri fabbricati campagnoli molisani, stilemi architettonici (tipo le riquadrature con mattoni a faccia vista delle aperture) in uso nella parte centrale dell’Italia e ciò produce un effetto di falsità. È sembrato doveroso fare questa sottolineatura, ma ora proseguiamo il nostro discorso sull’atteggiamento che prevaleva prima rispetto al paesaggio e, questa volta, nell’accezione di ambiente. Quest’ultimo, in particolare nelle zone industrializzate, è diventato un problema negli ultimi decenni, attirando in tal modo l’attenzione su di sé e ciò ha rappresentato anche una spinta per incrementare l’interesse verso il paesaggio. La Legge Galasso ,che è del 1985, porta definitivamente a conclusione questo percorso di avvicinamento tra valori ambientali e paesaggistici sancendo il loro legame indissolubile: i piani paesistici che sono contenuti in questa normativa e che le Regioni sono obbligate a redigere (e il Molise adempì nel 1991) tutelano accanto agli aspetti storico-culturali quelli ecologici e con essi si entra in una nuova era del governo del territorio, che fa sembrare tanto lontano il mondo degli anni Settanta.

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3 - Componenti antropiche del paesaggio

3 - I boschi e il territorio
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C’è poco da fare per l’inserimento paesaggistico delle architetture contemporanee, specie quelle di grandi dimensioni. Ciò è difficile in particolare quando queste opere sono caratterizzate dall’impiego di nuove tecnologie quali l’acciaio o il legno lamellare, oltre al cemento armato, quando non è occultato dentro costruzioni dall’aspetto tradizionale. Vi sono tipologie edilizie che in passato non esistevano, si prendano i cimiteri che si sviluppano in altezza (ad esempio a Isernia) invece di ampliarsi in pianta, il che ne snatura l’immagine consolidata di giardino dove meditare nel verde sulla caducità della vita terrena; qui non è il materiale utilizzato, che può essere anche la muratura ordinaria, bensì è lo sconvolgimento del senso originario dell’attrezzatura cimiteriale a determinare un certo sconcerto (lo stesso, comunque, succede anche in quei casi, prendi Busso, in cui di fronte all’impossibilità dell’allargamento dell’area si satura lo spazio interno con altre fila di loculi eliminando le presenze vegetali). Negli stadi, l’unico veramente tale è quello di Campobasso, viene invece esibita l’innovazione tecnologica, la struttura in cemento armato, e il manufatto è a una scala che prima non era neanche pensabile. C’è, poi, la questione della prefabbricazione, una modalità costruttiva utilizzata per i capannoni (agricoli, artigianali, ecc.) che sono ormai delle componenti costanti del paesaggio, figli di quella fase della storia della nazione che prende avvio dal “boom economico” e rispondono alle due esigenze che si sono andate manifestando: da un lato quella delle attività produttive di avere grandi luci e, dall’altro, l’intercambiabilità delle funzioni da ospitare all’interno per far fronte ai continui cambiamenti che si registrano nell’economia. Il termine che si adopera per descriverli, pure per tale motivo, è quello di contenitore, una parola chiave dell’urbanistica dei decenni 1970-80, insieme a comprensorio e a città-regione. I capannoni vengono prodotti, d’obbligo in serie, pure nel Molise (uno stabilimento per tutti: Valtappino). Non si tratta, comunque, sempre di oggetti, essendo ripetitivi, privi di identità, bastando poco per caratterizzarli; si è affiancato al volume edilizio nel centro commerciale denominato Lo Scrigno, a Termoli, una scala mobile esterna che richiama quella del Beaubourg a Parigi, e qui l’impianto architettonico diventa esso stesso un’insegna pubblicitaria, tanto è straordinaria, almeno nel nostro contesto, la soluzione dell’elemento distributivo posto “sfacciatamente” sul prospetto. Niente a che vedere queste opere, insieme ai viadotti, ai silos, ai serbatoi idrici e così via, con il costruito storico.

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L’unica categoria di fabbricati che continua ad avere rapporti con il passato è quella delle case unifamiliari. A esclusione della movimentazione dei tetti, una moda assai diffusa, le “villette” odierne, sia a schiera che isolate, sono formalmente simili a quelle tradizionali. Cambia il sistema portante, oggi prevalentemente in conglomerato cementizio armato, ma l’aspetto esteriore, cioè il manto di copertura, il rivestimento in intonaco se non il mascheramento del setto murario con una cortina in pietra, le aperture, la pavimentazione del piazzale, la recinzione, ha molto in comune con quello delle residenze di una volta. Perciò hanno gioco facile i nostri piani paesistici a fissare prescrizioni per i fabbricati da edificarsi che richiamano l’architettura del luogo. Ciò è contenuto nelle Norme Tecniche di Attuazione che, pur se il numero delle indicazioni è limitato (d’altro canto, una eccessiva quantità di disposizioni è ingestibile tanto da parte del progettista quanto del controllore del progetto), tendono piuttosto che a tipicizzare la dimora a incrementare quanto più possibile i caratteri capaci di assicurare la sua aderenza al paesaggio. Più complesso è il compito delle Norme Tecniche di Attuazione quando si tratta del recupero delle case contadine (rurali e urbane). Ormai si è affermato un vernacolo universale che sostituisce i dialetti, per fare un paragone con la lingua, dei vari posti, una sorta di esperanto per cui l’abitazione storica molisana non è riconosciuta nelle sue specificità perché esiste un unico modello abitativo che omologa le differenti culture architettoniche locali. A dire la verità, così come è successo per la lingua da Manzoni in poi, esso coincide con il tipo edilizio toscano e negli interventi di ristrutturazione del patrimonio costruttivo compaiono di frequente elementi stilistici che non appartengono alla tradizione del Molise: si allargano le finestre e si incorniciano con laterizio, mentre da noi le bucature delle abitazioni popolari erano piccole, oltre che prive di contorni, per contenere la dispersione del calore e per l’assenza, negli esemplari più poveri, del vetro negli infissi. Vi possono essere, di certo, contaminazioni da altri linguaggi tra cui l’avanzamento in facciata dei cornicioni aumentando lo sporto di gronda come si usa nelle regioni alpine dove si giustifica per la necessità di allontanare la neve dalle mura; a Vastogirardi, in effetti, l’ultima parte del tetto è sorretta da mensoloni in pietra, mentre quelli delle Alpi sono in legno (e in legno, sempre per lo spirito di emulazione con i villaggi nordici, a Capracotta in recenti caseggiati sono stati realizzati i parapetti dei balconi).

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Data l’importanza che gli episodi edilizi minori, maggiormente degli edifici monumentali non fosse altro che per il loro numero notevolmente superiore, hanno nel definire l’identità paesaggistica bisogna nelle azioni di restauro avere attenzione a ogni dettaglio senza operare alcuna semplificazione e senza scadere nel “pittoresco”, almeno nella definizione esterna dell’edificato. Un qualsiasi regolamento, a partire dalla normativa sui materiali a corredo degli strumenti di pianificazione paesistica, si deve limitare, gioco forza, a fornire schemi da seguire o impartire raccomandazioni, ma nulla può sulle modalità realizzative, cioè sul “saper fare”. Quest’ultimo è forse l’aspetto più preoccupante, ora che si vanno perdendo le conoscenze artigianali dei mastri muratori, rimasti, purtroppo, senza apprendisti in bottega che vogliano imparare il mestiere. Oramai anche i materiali da impiegare nei lavori di recupero sono difficoltosi da reperire e bisogna accontentarsi, di conseguenza, di un elemento lapideo di provenienza extraregionale al posto di roccia presa in sito.

 

4 - Le forme del Molise
4 - il vivaio di colle ast
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Non è proprio così, ma si può affermare che da noi l’angolo più a est, cioè Montenero di Bisaccia (in verità lo è, di poco, Campomarino) è anche il più settentrionale e viceversa che quello più meridionale, Sesto Campano è quello più occidentale (pure in questo caso va aggiunto “all’incirca”). Ci troviamo, in un caso, sull’Adriatico e, nell’altro, sul versante tirrenico. Le temperature, tenendo conto per Montenero di Bisaccia dell’effetto mitigante delle escursioni termiche dovuto al mare, hanno valori simili in questi due punti estremi della regione, nonostante il primo stia a nord e il secondo a sud, e la spiegazione di ciò è data dal fatto che il Molise è, in definitiva, una fascia, un ambito abbastanza stretto seguendo tale orientamento, quello, per meglio precisare, dei Paralleli. È, quello proposto, uno dei possibili modi di approcciarsi alla lettura del nostro territorio che, se è poco significativo dal punto di vista climatico, è interessante in termini puramente geografici, in quanto la striscia superiore della regione appare appartenere all’Italia Centrale, mentre quella inferiore al Mezzogiorno; non per niente, per la nostra terra si usa spesso l’espressione “terra di mezzo”.

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Dunque, secondo il verso che va dall’alto al basso della Penisola, noi siamo una zona di transizione. Per quanto può valere, si segnala che nel Molise la mezzeria dell’Italia peninsulare in senso longitudinale, quello dei Meridiani, non coincide con il limite del suolo regionale come succede altrove dove l’Appennino è sulla mediana della nazione, perché qui la catena appenninica è spostata verso il Tirreno, cioè verso ovest, per cui non siamo del tutto una regione orientale, qualifica che ci viene attribuita nelle previsioni meteorologiche dell’Aeronautica Militare. Oltre al rapporto con i punti cardinali, vi sono ulteriori differenziazioni territoriali possibili, basate non sulla posizione (rispetto ai Poli o se ci si colloca a levante o a ponente), bensì sulla configurazione del terreno. Una di esse è quella che porta a distinguere i comprensori in dipendenza dell’essere montagna, pianura o collina, suddividendo in fasce la regione, quella appenninica, quella del Medio Molise e la piana costiera. Una prima considerazione è che essendo la superficie regionale piccola, è piccola, di conseguenza, ognuna di tali parti; secondo, è che esse sono equivalenti per estensione, ma sommando insieme la montagna vera e propria e i rilievi alto-collinari, ne risulta, in base alle classificazioni in uso nella statistica ufficiale per cui ciò che sta sopra i 600 m è montano, il territorio molisano è prevalentemente montuoso. Quanto detto è valido se rapportato ad altre situazioni regionali nelle quali i caratteri morfologici sono più omogenei, si pensi a quelle che ricadono nella Pianura Padana o alle regioni alpine, tipo il Trentino. Quello della scala dimensionale ridotta degli elementi che concorrono alla conformazione del Molise è un connotato originale del suo paesaggio, che presenta una notevole varietà succedendosi in un breve spazio contesti paesaggistici diversissimi: il piatto, la costa, l’ondulato, l’interno e sommitale, quello di altitudine che è sull’Appennino. Potrebbe apparire quanto si è descritto una graduazione costante dell’elevazione del suolo, dai monti al piano e, invece, non è così perché, a prescindere dalla presenza delle conche intermontane, si verificano dei salti altimetrici bruschi tra i massicci montuosi, Matese e Mainarde, e la serie dei colli che si sviluppa al centro della regione. Più dolce è la transizione tra quest’ultima e il litorale. Percettivamente, a dominare la scena, immaginando il Molise che si rappresenta su una sorta di palcoscenico, sono due attori principali: i gruppi montuosi e la striscia litoranea. Sono i segni più decisi fisicamente, uno, le emergenze montane, per la loro elevazione, l’altro, la banda costiera, per la sua piattezza. Entrambe sono figure nette che si distinguono con sicurezza nelle visioni panoramiche. Il pendio lungo e ripido del perimetro lineare che delimita tali monti è una forma molto forte, così come lo è la pressoché (vi è il promontorio su cui sorge Termoli) assoluta rettilineità del margine dell’Adriatico, interamente bordato da un nastro sabbioso. Tanto il fronte montano quanto quello marino si presentano quali “oggetti” unitari, e ciò, insieme alla loro geometria estrema, la verticalità che connota i blocchi montuosi e l’orizzontalità della costa, attribuisce loro una qualche solennità. Per la teoria di colline che li tiene a debita distanza oppure, se si vuole, che li collega, non si può dire altrettanto poiché si presentano come un avvicendarsi confuso di groppe che hanno quote e pendenze differenti, con poche alture che spiccano. Si offre adesso un terzo modo di scandire il nostro territorio in pezzi distinti, alternativo ai precedenti, quello per bacini idrografici.

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È un criterio efficace per illustrare la geografia del Molise, almeno quanto quello che si è proposto sopra, poiché ambedue consentono di mettere, metaforicamente, le cose, cioè le componenti del paesaggio, in ordine. È una successione ordinata quella che porta dallo spartiacque appenninico alla fase collinare della regione fino al mare; in maniera, da un lato analoga e da un altro divergente, quindi non longitudinalmente, come si è fatto finora, ma trasversalmente, quindi, seguendo l’asse corto della superficie regionale, riscontriamo la medesima regolarità nella ripartizione del territorio in quanto i corsi d’acqua principali sono equidistanti fra loro. I bacini pluviali hanno estensione rapportabile, solo che unicamente quello del Biferno è completamente molisano, mentre gli altri due sono in condivisione, il Trigno con l’Abruzzo e il Fortore con la Puglia. Non smentisce il discorso il Volturno, anche se esso va in direzione opposta sfociando nel mar Tirreno (ci sarebbe, inoltre, il Sangro che, però, ci sfiora appena). In una regione appenninica qual è la nostra, a differenza di quelle alpine, dove le grandi montagne sono un qualcosa a sé stante, e la pianura, Padana, è indipendente dal resto, vi è un maggior legame tra le zone, seppure geograficamente differenti; per cogliere tale interconnessione è bene seguire l’andamento delle aste fluviali, che rappresentano il filo conduttore in un racconto del quadro territoriale locale, e giocando con tale suggestione, una narrazione fluida, trattandosi di corpi idrici, con un lieto fine, il Mediterraneo dalle cui onde nacque Venere. La fiaba (peccato!) si è bruscamente interrotta mezzo secolo fa, quando in ognuno dei bacini vennero costruiti gli invasi; Chiauci, Liscione e Occhito sono dei momenti singolari rispettivamente del Trigno, Biferno e Fortore e con essi ha termine una visione idilliaca del Molise che si trova a entrare improvvisamente nella modernità.

 

5 - Vedute panoramiche
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Le «strade panoramiche», sono quei percorsi carrabili dai quali è possibile ammirare vedute speciali e perciò sono un particolarissimo tipo di attrezzature turistiche. Quella che prevale in genere è un po’ la logica antica del Touring Club che considera fondamentale l’accessibilità automobilistica: il turismo si associa, innanzitutto, alle strade e, in primo luogo, a quelle maggiori. Invece, sarebbe opportuno invertire i termini della questione mettendo in primo piano i panorami che si vuole vadano apprezzati e in relazione a questi progettare gli itinerari; quest’ultimo modo di concepire le strade panoramiche risponde meglio allo spirito della legge fondamentale sulla tutela del paesaggio, quella del 1939, nella quale si stabilisce che i panorami debbano essere protetti insieme con i relativi «punti di godimento» (che un tempo si chiamavano belvederi).

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Percorrendo queste strade percorrendo le quali si osservano in sequenza, magari con discontinuità, case rurali tipiche, centri abitati medioevali, alberi secolari, cioè oggetti di rilevante interesse paesaggistico. In funzione della distanza dalla strada possiamo avere elementi dominanti, ma ciò dipende anche dalla profondità del campo visivo, da eventuali barriere fisiche che ostacolino la visibilità, ecc. La maniera di rappresentazione grafica più opportuna di un tale percorso sarebbe quella di riportarlo su foglio rettificandolo, eliminando quindi le sue tortuosità, e ponendoci accanto, secondo un qualche rapporto di scala, i «segni» che si incontrano seguendolo; ciò del resto è quanto veniva fatto nelle mappe delle Reintegre dei tratturi a cominciare da quella seicentesca del Capecelatro. Finora abbiamo parlato di qualcosa che si definisce visibilità relativa, ma esiste pure il concetto di visibilità assoluta. Esso porta a preservare cime, rilievi rocciosi che sono fatti naturali e crinali, invece, lineari visibili da ogni parte del territorio; non basta che essi si “percepiscano”, ma occorre pure che si “notino” per una loro determinata valenza sia naturalistica sia storica, come nel caso di un castello (quello di Monteroduni, quello di Cerro al Volturno, quello di Pescolanciano e così via). Per quanto riguarda quest’ultima considerazione, va sottolineato che la visibilità di un oggetto nel paesaggio è in dipendenza della sensibilità culturale dell’osservatore. Questa visibilità assoluta è, ovviamente, limitata ad un ambito territoriale, più o meno vasto, e per determinarne l’ampiezza occorre un elaborato grafico specifico basato sulla morfologia fisica dei luoghi da cui si ricavano i distretti visivi. La redazione di questo elaborato è meno complessa e, pertanto, meno costosa di una carta di intervisibilità redatta attraverso l’impiego di strumenti informatici. Reciprocamente le emergenze visive, si precisa, sono anche i posti da cui è possibile abbracciare gli scorci panoramici più estesi. Strade o punti che siano, luoghi di visione va garantita l’integrità paesaggistica del territorio da essi visibile. I fenomeni che interessano lo spazio rurale variano a seconda dei comprensori: nelle “zone interne”, le più arretrate, c’è un ridotto dinamismo nella trasformazione della campagna che riflette il limitato sviluppo che hanno i centri abitati. Qui, però, in genere è concentrata la ricchezza di valori paesaggistici.

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Passiamo adesso a descrivere le caratteristiche dei percorsi partendo dalle strade propriamente panoramiche. Normalmente le “strade panoramiche” sono quelle che corrono in altura, dalle quali è possibile ammirare panorami vasti, guardando verso il basso. Infatti l’interesse vedutistico maggiore è quello legato a visuali aperte, che abbracciano ambiti di territorio ampio, come sono appunto le aperture visive che si godono da punti di osservazione posti in alto. Sulla base di queste considerazioni è possibile comprendere che le strade panoramiche corrono preferibilmente sui rilievi, mentre sono rare nelle fasce pianeggianti. Le “strade turistiche” sono le strade, invece, che conducono ad un santuario religioso o ad un particolare monumento o ad un sito turistico. Le strade di tipo turistico si differenziano da quelle ordinarie in quanto sono utilizzate nei periodi di vacanza e nei giorni festivi, mentre le seconde servono per gli spostamenti casa-lavoro, per il trasporto delle merci e per i collegamenti interurbani. Le strade turistiche si prestano bene ad essere luoghi di osservazione privilegiata del paesaggio in quanto lungo di esse si procede lentamente; da parte di colui che le percorre c’è una disposizione d’animo favorevole a gustare i quadri visivi che gli vengono incontro. Le “strade verdi”, poi, sono quelle significative per l’ambiente che esse attraversano, il quale può essere un bosco, un caseggiato tradizionale, ecc.. Le strade verdi costituiscono l’opposto delle strade panoramiche perché esse si caratterizzano invece che per le vedute lontane che si aprono da esse per gli elementi di interesse ambientale e culturale che le circondano, addirittura a volte, come nel caso di una fitta foresta, ostruendone le vedute. Tutte le strade, a prescindere che siano di interesse panoramico, turistico, ecc., devono vedere tutelato il proprio intorno visivo perché costituiscono luoghi di frequentazione della collettività. Occorre salvaguardare gli elementi significativi del paesaggio che si scorgono dalle strade; essi assolvono alla funzione di punti di riferimento, secondo la lettura lynchana, e quindi sono in grado di conferire identità al territorio. È importante per ogni strada panoramica stabilire qual è il tratto significativo, fissando una lunghezza di percorso adeguata per ottenere una certa cadenza, un particolare ritmo dell’alternarsi delle vedute. Infatti il connotato peculiare delle strade panoramiche è di essere caratterizzate da una successione di eventi che rendono stimolante la sua percorrenza. Un altro aspetto fondamentale in una strada di interesse paesaggistico, oltre alla lunghezza, è il suo inizio e la sua meta finale all’approssimarsi della quale si determina una tensione nel percorso. Ciò che precede la meta viene sentito quale introduzione ad essa e ciò può comportare il suo mascheramento dal percorso quasi fino all’arrivo. La sequenza delle visuali lungo una strada panoramica è casuale poiché dipende dalla natura dei luoghi, invece che da una programmazione di questi effetti. Pertanto, nello studio del percorso occorre tener conto della morfologia del percorso ed in relazione a questa introdurre eventuali schermi alle visuali, anche con barriere vegetali, o elementi utili ad inquadrare particolari vedute. La definizione della modalità di trasporto è essenziale per comprendere che la strada panoramica può essere considerata un avvicendarsi di quadri percettivi oppure se essa è una semplice sommatoria di punti di visione. Ciò dipende dal mezzo usato per gli spostamenti: nel caso dell’automobile la visione lungo la strada è necessariamente di tipo «dinamico» in quanto il paesaggio lo si coglie in movimento, mentre nel caso della mobilità pedonale si parla di vedute di tipo «statico». In ambedue i casi le proprietà visive possono essere trasferite ad una serie di «belvedere», appositamente attrezzati (ad es. anche con il parcheggio delle auto), al suo contorno. Un particolare punto di visione è costituito dai ponti dai quali la vista intercetta il paesaggio della valle fluviale. È da dire che le strade panoramiche vanno percorse con velocità moderata al fine di poter godere delle vedute e ciò è favorito dal fatto che in genere si tratta di arterie secondarie poiché sono queste ultime a svilupparsi nelle zone collinari e montuose, prediligendo i grandi assi di comunicazione i fondovalle. È da questa viabilità minore che si percepiscono, proprio per l’altitudine, orizzonti tanto più vasti quanto più si raggiungono quote elevate riducendosi, progressivamente, le barriere visive. Più si va in alto più si hanno panorami profondi poiché lo sguardo va da sopra a sotto. Le aperture visuali aumentano con l’ascesa specie quando si supera l’isoipsa terminale del bosco cominciando da lì i pascoli che con il loro manto erboso non costituiscono ostruzioni alla vista. Questi percorsi viari sono interessanti anche in quanto corrono all’interno delle aree meno coinvolte nei processi di sviluppo e dunque meno soggetti a trasformazioni e perciò più attraenti, salvo il degrado dovuto all’abbandono.

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Qui si trovano i borghi tradizionali che costituiscono delle emergenze paesaggistiche di notevole interesse. Per quanto riguarda tali paesi essi si conservano immutati anche perché l’espansione edilizia è limitata a causa del loro decremento demografico dovuto pure all’isolamento geografico di cui soffrono: quelle stesse strade appetibili turisticamente svolgendosi sui terreni accidentati sono tortuose e ciò aumenta i tempi di percorrenza. Le vie negli ambiti montani sono, peraltro, soggette a rischio idrogeologico con frane che possono rallentare la circolazione. Un particolare momento di tali percorrenze sono i tratti sulle dorsali dai quali la vista una volta si indirizza verso una vallata, un’altra volta sull’altra (tra Castropignano e Torella, tra Pietracupa e Monte Lungo di Trivento, tra il bivio di Matrice e quello di Ripabottoni e così via). I giri apparentemente viziosi e irrazionali che le strade compiono rende le vedute imprevedibili. Finora si è parlato di tracciato viario come se fosse una cosa unitaria quando, invece, più spesso non è un unico percorso, bensì una sommatoria di tratti; le strade statali, anche qualora declassate a provinciali, ad esempio l’Istonia, sono delle vie omogenee, magari con le stesse opere d’arte e le medesime tipologie di ponti. Più di frequente, nonostante si abbia la percezione di continuità di un’arteria ci troviamo di fronte alla congiunzione di pezzi aventi caratteristiche differenti e tale segmentazione si spiega con il fatto che il periodo di formazione del sistema viario coincide con quello della nascita dei nostri comuni quando la divisione in feudi determinò una frammentazione territoriale. In simili casi è opportuno usare al posto di strada panoramica la definizione di itinerario panoramico quando unisce un insieme di tronconi viari, come, mettiamo la pedemontana matesina che parte da S. Massimo, tocca Roccamadolfi e si conclude a Longano. L’itinerario si progetta, non è, per intenderci, un dato di fatto e il criterio da seguire è analogo a quello del racconto nel senso che lungo di esso avviene una narrazione in cui, è un esempio, ai momenti di stasi emotiva segue il pathos (all’uscita da un bosco esplode una visione forte). Alla stessa maniera degli itinerari si potrebbe tener conto di identici criteri nel disegno delle nuove arterie. Elementi particolari delle strade sono i belvedere, al limite si potrebbero attrezzare a questo scopo le piazzole di sosta ai loro lati. Per rendere, poi, interessante in riguardo agli scorci si potrebbero al margine della carreggiata prevedere delle barriere vegetali che antecedono la vista del paesaggio o delle piantumazioni che incorniciano dei “quadri” paesaggistici di valore. Oppure tagliando la vegetazione che costeggia la sede viaria qualora necessiti consentire l’osservazione di un momento significativo dell’intorno, sempre che non si danneggi l’aspetto tradizionale dei luoghi e non si abbia perdita di biodiversità. Le strade panoramiche, in effetti, in una regione ricca di rilievi qual è il Molise rischiano di essere ripetitive nel senso che i caratteri paesaggistici, dall’ondulazione collinare alla posizione dei centri abitati su rupi, all’organizzazione agricola sono abbastanza comuni per cui si avrebbe monotonia; allora si impone una precisa selezione per valorizzare i tracciati che offrono le vedute più appariscenti o, perlomeno, essi vanno selezionati per zone con connotati geografici differenti in modo da restituire a chi percorra in auto il territorio regionale la conoscenza dei suoi vari comprensori, della sua complessità.

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6 - Le piane nella regione
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Solo poco più di un decimo del territorio regionale è pianeggiante precisando che non si è detto piatto perché le zone in piano non sono mai del tutto livellate e anche quella del Basso Molise, la più vasta, presenta un dislivello, seppure ridotto, tanto da far distinguere una alta pianura, Pantano Alto, e una bassa, Pantano Basso. Le piane maggiori sono disposte ai due lati esterni del Molise, a est vi è, appunto, quella costiera, a ovest quella di Venafro che, comunque, è meno estesa della prima. Le restanti pianure di dimensione significativa sono sì interne, ma non sono distribuite equanimemente nel resto della regione, bensì concentrate nella fascia preappenninica, dunque in un settore non centrale geograficamente della superficie regionale. Si possono definire piuttosto che piane, conche, circondate come sono, almeno da alcuni lati, da rilievi montani e collinari che siano. L’essere concave è denunciato dai loro bordi che sono sempre in lieve pendenza. Ne abbiamo una sequenza ininterrotta che costeggia il Matese, la quale inizia da quella di Sepino, prosegue con quella di Boiano e quindi con quella di Pettoranello seguita da quella di Isernia in località Le Piane e si conclude a Macchia d’Isernia dove, di lì a poco, prende avvio la piana di Venafro di cui si è detto; collaterale, ma altrettanto importante, è la piana di Sessano, importante pure dal punto di vista storico perché qui si svolse la celebre battaglia tra Alfonso d’Aragona e il Caldora, una “battaglia campale” per la quale ci vuole, appunto, un campo, una pianura. Quest’ultima è dello stesso tipo di quelle appartenenti alla serie di cui si è detto, cioè è una piana intermontana (in genere su alcuni dei lati vi sono rilievi collinari, piuttosto che montani), morfologicamente una concavità; accanto a queste concorrono a formare quel 10% circa del suolo in piano, nel Molise, le fondovalli fluviali.

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In genere sono strisce abbastanza sottili e non sono mai riconoscibili dei terrazzi, cioè terreni di una qualche larghezza e rialzati rispetto all’alveo, elemento morfologico che dimostra qual era un tempo la quota del letto fluviale che in seguito si è approfondito. Seppure in sezione trasversale, le vallate percorse dai maggiori corsi d’acqua, tutti provenienti dall’Appennino che da noi non è sull’asse mediano della Penisola, bensì è spostato verso il Tirreno, sono lunghe. Pertanto, le zone in piano che si incontrano lungo tali aste, sommate insieme rappresentano una percentuale considerevole della superficie pianeggiante della regione. Inoltre, va considerato che, data la lunghezza, questi corsi idrici toccano pressoché ogni ambito comunale, mettendo a disposizione di tanti centri parcelle pianeggianti delle quali c’è tanta fame per la localizzazione dei PIP (Piano per gli Insediamenti Produttivi). Di ragionamento in ragionamento, è ovvio che le industrie vanno servite da strade, che sono quelle moderne, costruite, per il medesimo motivo di doversi ubicare su un sedime piano, nel fondovalle e fondovalli si chiamano la Trignina e la Bifernina. Queste superstrade, per essere rettilinee, viaggiano su viadotti che scavalcano spesso il fiume, il quale è per sua natura curvilineo, per far “planare”, poggiare la carreggiata sulle parti in piano disseminate ai lati, qua e là. Le arterie viarie cercano sempre le pianure, e così la viabilità romana che si dipana nell’antico Sannio secondo la direttrice che va da Venafro, a Isernia e a seguire Boiano e  Sepino, in quella terra di conche intervallate da modesti valichi, quello della Trinità tra Venafro e Macchia d’Isernia, dopo, risalendo verso la concavità che sta nel capoluogo pentro contigua all’altra di Pettoranello, raggiunge il passo di Castelpetroso dirigendosi in direzione di quella di Boiano per continuare fino alla Sella di Vinchiaturo, che separa quest’ultima dalla prossima che è la piana di Sepino.

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Ci si è interrotti nel descrivere gli spazi pianeggianti solcati dai fiumi per parlare di percorsi stradali e adesso riprendiamo tale tema per aggiungere che tra questi ve ne sono due davvero ampi, la valle Porcina interessata dal passaggio del Vandra, e la piana di Roccaravindola formata dal Volturno. Con un continuo andirivieni, lo si ammette, si ritorna alle conche per dire che, come per le fondovalli, la strada è legata agli insediamenti, adesso abitativi, Venafrum, Aesernia, Bovianum, Saepinum. La forte concentrazione di Municipi in tale fascia è conseguenza, da un lato, della predilezione che i Romani avevano per le piane e, dall’altro, della predilezione che i Sanniti pentri, che i primi intendevano controllare, avevano, per esigenze difensive, per la montagna che, come visto, sovrasta la conca. Vi è, a ogni modo, anche una viabilità che corre sulle dorsali, come quella che penetra nel comprensorio altocollinare del Sannio frentano in cui Roma costruisce una città, Larinum, sfruttando l’unico sito pianeggiante disponibile, le Piane di Larino. Per completezza si fa rilevare che pure Terventum è piana, e Piano si chiama il punto culminante del colle su cui è adagiato, che è un autentico acrocoro. Rimane da trattare, per completare il panorama di questo particolare, e lo si ripete minoritario, lineamento dell’orografia molisana la pianura costiera in cui essa è, invece, maggioritaria: lo si affronta in ultimo non perché è poco estesa, in quanto, anzi, lo si è sottolineato in apertura, è la prima per grandezza tra le piane. L’assenza di barriere fisiche e la regimazione delle acque con l’intervento di bonifica che ha investito l’intero ambito subregionale hanno consentito il suo attraversamento da nord a sud da parte di linee di comunicazione di rilievo nazionale carrabili e ferroviarie avviate nel finire dell’Ottocento. Questo andamento richiama la catena delle conche del Molise interno, la quale si sviluppa da settentrione a meridione consentendo il transito di uomini, merci e, soprattutto, pecore secondo l’identico orientamento nell’epoca imperiale in cui è vitale la transumanza che abbraccia più contesti regionali. Da considerare, poi, che la viabilità locale è parte di una maglia generale con “tutte le strade che portano all’Urbe”. Dobbiamo immaginarci, comunque, una piana costiera più ristretta nel passato, quando le propaggini collinari giungevano fin quasi sul litorale con gli abitati prossimi alla battigia, tanto da permettere a un Comune, che è Campomarino, di fregiarsi nella sua denominazione dell’appellativo Marino, cosa che oggi sembra strana poiché la cittadina sta ad alcuni chilometri dal mare. La pianura litoranea era repulsiva alla presenza umana a causa degli enormi stagni, la memoria dei quali è nei toponimi cui in precedenza si è accennato; attualmente, al contrario, è l’areale maggiormente attrattivo di attività economiche e, conseguentemente, di persone. C’è di tutto: industrie, agglomerati residenziali e turistici, tracciati stradali notevoli, ecc., la cui ubicazione qui è legata alla piattezza del terreno.

7 - Panorami molisani
7 - Panorami molisani

Sintetizzare con una immagine il paesaggio molisano è una cosa impossibile perché questa regione, pure se minuscola, è la penultima per estensione, ha una grande varietà di contesti paesaggistici diversi fra loro. Una specificità del nostro territorio è quella di essere formato da un insieme di situazioni ambientali distinte, dai massicci appenninici del Matese e delle Mainarde alla zona costiera passando per la distesa delle colline del medio Molise mediante le principali vallate fluviali che sono quelle del Biferno e del Trigno. Si possono distinguere, poi, dentro il perimetro regionale micro paesaggi costituiti dai bacini idrici artificiali del Liscione e di Occhito, dalle piane interne, quelle di Boiano, di Venafro e di Sepino, dai rilievi montuosi a sé stanti e tra questi si cita il monte Totila a Pescolanciano, il monte Saraceno a Cercemaggiore, il monte Mauro a Castelmauro e il monte Lungo a Trivento, da un intero comprensorio posto in altitudine, l’alto Molise, e così via.

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Così come non basta una unica immagine per descrivere il Molise, alla stessa maniera è difficile in poche righe, quelle che qui si offrono, fare un resoconto della conformazione territoriale e, quindi, paesaggistica di questa parte d’Italia a meno che non si voglia utilizzare una qualche chiave di lettura schematica. Una impiegata di frequente è la suddivisione dell’ambito regionale per fasce sia in senso longitudinale che, volta per volta, sono quella litoranea, quella collinare e quella montana sia in senso trasversale, i circondari, come si diceva un tempo, delimitati dalle maggiori direttrici vallive; c’è un’avvertenza da fare è che la dimensione longitudinale, anche per la notevole distanza che intercorre tra l’Adriatico e l’Appennino il quale qui da noi è spostato verso il Tirreno, è nettamente superiore a quella trasversale il Molise avendo solo 36 chilometri di costa. Occorrono sequenze fotografiche non un’unica o poche foto per restituire la complessità del paesaggio. Tale forte articolazione dei quadri paesaggistici fa sembrare nelle rappresentazioni fotografiche la regione ancora più piccola perché non c’è mai una ripresa, salvo quelle dall’alto, capace di abbracciare una vasta estensione territoriale, restituendoci sempre delle sue singole porzioni. Il parlare di queste ultime, seppure spesso dotate di una notevole identità (si prenda l’area del Fortore oppure quella dell’alto Tammaro) non significa affermare che vi sia disunione tra le tante parti che compongono il Molise; i numerosi tipi di paesaggio, piuttosto che trapassare l’uno nell’altro come sarebbe se dalla fascia litoranea vi fosse un graduale avvicendamento che porta alla collina e di seguito, alla montagna, (affermazione che sarebbe smentita dal brusco emergere di episodi montagnosi, vedi Cerro del Ruoccolo a Casacalenda e il Monterone a Larino nel basso Molise, e dall’apparire dopo la sequenza delle colline della pianura del corso iniziale del Biferno appena prima dell’imbattersi con il massiccio del Matese) sono, in qualche modo, bilanciati fra loro e ciò conferisce unitarietà, pur nella mutevolezza, al nostro territorio. Finora abbiamo fatto riferimento ai caratteri fisici, ma vi sono pure quelli antropici a caratterizzare il paesaggio, i quali, pure, anche se non così a lungo come l’assetto del suolo, sono rimasti immutati per millenni, almeno 1, essendosi costituita la trama insediativa molisana nel medioevo. In origine era pressoché omogenea la distribuzione dei centri abitati e anche la loro dimensione con esclusione delle sedi vescovili tanto da non poter distinguere in tale riguardo pezzi distinti nell’ambito regionale, salvo la costa che è rimasta disabitata poiché acquitrinosa fino alla seconda metà del 1800 quando iniziò il suo prosciugamento.

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Negli anni ’70 del secolo scorso si è avuta con la costruzione delle grandi fondovalli, delle dighe e dei nuclei industriali e con la crescita demografica dei comuni capoluogo di provincia e di Termoli, oltre che con la nascita di villaggi turistici, in quota Campitello, e presso la battigia, una profonda trasformazione di alcuni scorci visivi; la realizzazione di tali infrastrutture e l’espansione urbanistica hanno investito quelle aree del Molise definite «aree forti» e ciò porta ad un’ulteriore differenziazione dei paesaggi regionali di cui deve tener conto chi cerca di catturare immagini significative della nostra terra. Se è improbo racchiudere in una foto l’”essenza” del paesaggio molisano, uno sforzo inutile, sono efficaci rappresentazioni di elementi paesaggistici che facilmente si è portati a memorizzare nell’osservare il nostro territorio, quasi dei fatti simbolici. Tra questi vi sono gli oliveti, peraltro il primo paesaggio che si incontra entrando nel Molise, tanto che siano composti di individui secolari, quelli del Parco dell’Ulivo del venafrano, quanto se piantagioni regolari più recenti con ulivi disposti in fitti squadroni. Colpiscono sicuramente i rimboschimenti di conifere visibili un po’ ovunque i quali sono percepibili con evidenza nel periodo invernale quando costituiscono macchie scure che si contrappongono ai colori spenti della vegetazione all’intorno; in questa categoria rientrano le pinete create per proteggere i terreni agricoli dalla salsedine marina. Nella parte mediana della regione spuntano, o meglio affiorano, con andamento abbastanza casuale le “morge” dell’istituendo parco omonimo, rocce calcaree che, con una similitudine efficace, possono essere intese quali isole nell’ampio mare di argille. Negli ambiti argillosi, ora pure nell’area basso molisana, vi sono i calanchi che sono una manifestazione del dissesto idrogeologico, i quali seppure non esclusivi di questa regione, perché comuni ad altre aree geografiche italiane, sono, comunque, tipici. Frutto dell’opera umana, ma ormai componenti dell’ambiente naturale, sono i laghi tra i quali vi è quello di Castel San Vincenzo, uno specchio d’acqua incastonato tra aspre pareti montane con lo sguardo che abbraccia inevitabilmente il pittoresco paese posto sulla rupe di travertino. Senza allontanarci vediamo l’abbazia di S. Vincenzo al Volturno, resti immersi in un contesto naturale ben conservato, che è un’autentica icona del paesaggio molisano, oltre che testimonianza di come i monasteri siano stati l’unica organizzazione capace di mettere in moto l’economia nelle zone marginali. Sono difficili da fotografare i tratturi non essendo dei manufatti, bensì antiche piste determinate dal calpestio di milioni di pecore per un lungo arco temporale; sono diventati meno percepibili da quando, a partire dall’abolizione della transumanza, se ne è ridotta la larghezza (nel Molise non la lunghezza). Emblematiche sono le visioni dei siti archeologici più rinomati i quali hanno un valore paesaggistico per la loro notevole estensione, sia Pietrabbondante sia Altilia. Quelli che abbiamo elencato stanno nelle foto in primo piano, mentre lo sfondo, quando non siamo di fronte a paesaggi marini, è usualmente occupato dal crinale montano matesino che fa da fondale a tante vedute.

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8 - Paesaggio boscoso

È plausibile che all’origine la superficie del nostro territorio, a eccezione delle emergenze rocciose e degli stagni, che dovevano essere numerosi e ampi nella fascia costiera, e dei corsi d’acqua, fosse, come d’altro canto il resto d’Italia salvo le cime alpine, coperta interamente da bosco. Una copertura boschiva, vale la pena precisarlo, continua, ma nello stesso tempo differenziata con le specie arboree che si distinguono in relazione alla posizione geografica, cioè a seconda se si è nella zona litoranea che subisce gli influssi marini o se si è all’interno della regione, dunque in senso orizzontale, all’altitudine, se collinare o montana, perciò in senso verticale, e al substrato, in qualche modo nel senso della profondità, in quanto le formazioni geologiche, argillose (Medio Molise), calcaree (Appennino), arenacee (Alto Molise) o sabbiose (Basso Molise), che sono il sottosuolo, condizionano il tipo di soprassuolo.

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 Non si poteva fare a meno di questo inciso dovendo parlare di paesaggio. Non vale solo la geografia a spiegare le caratteristiche del paesaggio boscato molisano, perché ha un peso pure la storia. Si è iniziato accennando alla situazione all’anno zero quando l’uomo era ancora cacciatore e raccoglitore e non ancora agricoltore. Le forme di agricoltura praticate in età remota erano primitive; non essendo capaci i nostri progenitori a favorire il rinnovamento della fertilità dei campi essi nel constatare la sopravvenuta improduttività dei terreni procedevano disboscando altre superfici in cui impiantare colture. Per quel che qui ci interessa si ha più che una riduzione, progressiva, della superficie forestale, una sua trasformazione in quanto sugli appezzamenti di terra in precedenza coltivati e in seguito abbandonati si ha nel tempo una ripresa spontanea della vegetazione che evolve man mano da arbustiva in arborea. Il risultato è che la foresta primigenia scompare sostituita da un bosco, per così dire, di seconda mano che ha evidentemente connotati differenti dalla prima. L’assetto paesaggistico che, come ben si sa, è un insieme di natura e cultura, comincia a cambiare, da una distesa pressoché uniforme di foreste quando la popolazione era dedita esclusivamente alla caccia e alla raccolta dei frutti spontanei, si passa alla comparsa al loro interno di oasi coltivate e, di conseguenza, di villaggi “contadini”. Sia le une che i secondi, a seguito di quelle, sono destinate, nel giro di qualche decennio, a scomparire, lo si è detto sopra, per il trasferimento delle famiglie altrove e ciò spiega perché a noi non sono sopravvenuti resti di nessun abitato, il pagus, le cui abitazioni dovevano essere intese quali temporanee e perciò costruite con materiali deperibili. Il passaggio alla stanzialità, mai effettivamente concluso dai Sanniti, è lungo, siamo ancora nell’era del seminomadismo connesso, da un lato, a tale modo di coltivare, dall’altro lato, alla adozione della pratica della pastorizia transumante. Pure quest’ultima ha contribuito a erodere il patrimonio forestale, tanto per aprire e mantenere la striscia tratturale quanto nelle zone di montagna dove si conducono le greggi in alpeggio nel periodo estivo per ricavare pascoli. Qui, ci riferiamo al Matese per proseguire con i Sanniti, alle praterie “primarie” (risalenti alla notte dei tempi) pur assai vaste, i vari Campi, Campitello, Campo dell’Arco, Campo delle Ortiche e così via, date le cospicue dimensioni del fenomeno della transumanza, si vanno aggiungendo  praterie “secondarie” frutto del pascolamento delle bestie del cotico erboso, lo strato basale dell’ecosistema forestale danneggiato il quale si ha, a catena, il danneggiamento e poi il deperimento e poi la scomparsa del bosco. Il “pabulamento” eccessivo delle pecore ha scoperto, lasciato scoperta tutta la parte sommitale dei monti matesini anche di quelli che non raggiungono i 2.000 m di quota. È questo il limite altitudinale del faggio che è nella dorsale appenninica, come del resto, nel complesso in ogni areale del nostro continente, l’essenza botanica a foglia caduca maggiormente diffusa. Non c’è solo l’equivalenza tra latifoglie e latitudine poiché essa si estende a qualsiasi tipo di alberatura, pure a quella aghiforme: procedendo dall’equatore verso i poli, si abbassa progressivamente, riducendosi la temperatura media, l’altezza che può raggiungere il bosco, e che nel Matese, cioè all’incirca a metà strada, è, appunto, un paio di migliaia di metri. La riduzione del manto boschivo per via della diminuzione dei capi di bestiame al pascolo libero, in zootecnia prevale ora la stabulazione fissa, vale a dire in stalla, si è arrestata ed è in corso una tendenza inversa, quella dell’aumento della percentuale di territorio boscato, secondo i dati del Censimento dell’Agricoltura. I prati si restringono, anche se in proporzione si assottigliano, verbo appropriato, essendo delle superfici lineari, di più dei tratturi e la spiegazione è questa: lo sviluppo dei margini di una figura tendente al rettangolare quelle in cui, in geometria, un asse è prevalente sull’asse ortogonalmente opposto, molto prevalente, peraltro, nelle piste tratturali (111 metri di larghezza contro oltre 100 Km di lunghezza, 1 a 10.000) a parità di metri quadri racchiusi nel perimetro è superiore a quello di un poligono iscritto in un quadrato se non in un cerchio, che tenda, detto diversamente, a questo qual è una prateria. 

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I canali con pavimentazione erbacea della transumanza vengono rosicchiati, nel momento in cui attraversano ambiti boschivi e ciò succede di frequente nel comprensorio altomolisano, da ambedue i lati rischiando di scomparire perdendosi così un importante segno culturale e un vitale corridoio ecologico. Il disboscamento finora descritto è avvenuto lentissimamente, per cui c’è stato il tempo per un assestamento graduale del sistema ambientale alla nuova configurazione assunta dagli spazi aperti rispetto a quelli chiusi, lo si ripete, la matrice originaria delle terre emerse, almeno nel nostro parallelo. Molto più veloce, invece, è stata la distruzione dei boschi, lamentata da Vincenzo Cuoco, nel finire del XVIII secolo per far fronte alla fame di terreno da coltivare per, a sua volta, soddisfare la fame, non metaforica bensì vera e propria, e acuta soprattutto, della popolazione che in quell’epoca era in consistente crescita. Non c’è stato il tempo per l’assestamento di cui sopra, e da qui le frane. Ciò succedeva nelle colline del Medio Molise e bisognerà attendere un secolo perché la scomparsa delle formazioni boschive si verifichi pure in pianura con le grandi opere tese a bonificare innanzitutto dagli acquitrini, il basso Molise che ha mutato, letteralmente, il suo volto. Il bosco lì è rimasto solo in qualche toponimo come Bosco Tanasso nel territorio di Larino. Al fascismo si deve l’intensificazione, sotto lo slogan “la redenzione delle terre”, dell’azione di bonifica e, per fortuna, è durato solo un ventennio, la faccenda dell’arco temporale breve. Si sono perse le foreste planiziali, diventate assai rare da noi, anche perché rare le zone pianeggianti nel Molise. L’erosione successiva, in età contemporanea, del patrimonio forestale è un tema che viaggia insieme con quello del “consumo di suolo” a causa della crescita dell’urbanizzazione e dell’incremento delle infrastrutture.

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9 - Le ambiguità del paesaggio
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Nel Molise è proprio difficile descrivere il paesaggio, almeno in modo sintetico. Ciò perché nello spazio di circa 100 Km si incontrano forme molto diverse fra loro, che si susseguono senza un ordine preciso quale potrebbe essere l’andamento montagna, collina e pianura, come sarebbe da attendersi in una regione appenninica. Infatti, troviamo piane all’interno, la conca di Boiano, e monti in prossimità della costa, monte Mauro, colli qua e là. Superfici pianeggianti si alternano a rilievi montagnosi, la piana di Sepino stretta tra il Matese e il monte Saraceno, rilievi alto-collinari si mescolano insieme nell’Alto Molise alle emergenze montane perché il territorio ha sempre quote elevate.

Proviamo, comunque, a delineare alcuni caratteri essenziali e partiamo in questa impresa dal Molise centrale che è il comprensorio più esteso, seguendo un criterio idrografico e non quello usuale, di cui si è detto, di distinguere la regione in montagna, collina e pianura. Dunque, si ripartisce l’insieme in bacini che sono quelli del Trigno, del Biferno e, parzialmente del Sangro e del Fortore, tutti di forma allungata in quanto si tratta di valli strette. Qualsiasi elemento posto a cavallo delle vallate non si legge come individualità, vedi Montevairano o Monteverde per rimanere vicino al capoluogo regionale, bensì quali porzioni di insieme formato dal crinale che separa il Biferno dal Tappino, affluente del Fortore. Si è detto che noi non abbiamo bacini larghi, ma adesso dobbiamo in qualche modo correggerci: il Volturno, allargandosi di molto una volta raggiunto Roccaravindola, quando s’incontra con il Vandra; analogamente fa il Fortore dopo la diga di Occhito, anche qui al seguito della confluenza di un torrente, il Tona, ma già in Puglia. La fascia costiera è esclusa da questa suddivisione in bacini, in quanto si è ormai in pianura; pianura che gli stessi fiumi provenienti dall’Appennino hanno contribuito a formare. La piana litoranea è una fascia continua non interrotta dai solchi vallivi e questa condizione di continuità fisica è un fatto unico nel Molise dove in qualsiasi altra parte i corsi d’acqua con le loro valli, vallette, “vallicole” hanno frammentato il territorio, oltre a porsi come ostacolo agli spostamenti.

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I principali fiumi qui diventano delle aste, in passato meandriformi, poco incise rispetto al terreno; vi sono poi corpi idrici minimi, ad esempio il Tecchio, il Mergolo e il Sinarca, che nascono nella prima schiera collinare che si affaccia sul mare e perciò paralleli ai maggiori, in senso est-ovest, i quali poco si avvertono da chi attraversa in direzione nord-sud il litorale. Il Basso Molise è distinguibile morfologicamente per l’assenza di vallate fluviali e nello stesso tempo per essere ambito pianeggiante; pure quest’ultima è una singolarità, essendo la nostra regione davvero povera di pianure (nell’entroterra ci sono solamente quelle di Boiano e di Venafro). Figurativamente, sembra che le alture abbiano scacciato le piane sospingendole verso il mare, magari proprio mediante la corrente fluviale. Il metodo di analisi territoriale per bacini idrografici non può essere applicato alla parte della regione coincidente con l’Appennino. Esso è composto dal Matese e dalle Mainarde che comunque non vengono a formare, come ci sarebbe da attendersi, un complesso montuoso collegato, separati come sono dal Volturno (ancora una volta un fiume). Il Matese, seppure inserito nella catena appenninica, deve essere visto come un massiccio a sé stante; contribuisce a configurarlo come un rilievo autonomo il fatto che è delimitato da due corsi d’acqua, il Tammaro e sempre il Volturno, che ne costituiscono confini certi. Il Matese, più delle Mainarde, è una lunga groppa montuosa disposta parallelamente alla linea di costa, mantenendo per tutta la dorsale una distanza pressoché costante da essa e invece le seconde lievemente divergenti da essa. Per quanto riguarda quest’ultima annotazione si aggiunge che le Mainarde, se viste insieme ai monti dell’Alto Molise, dai quali è il valico di Rionero posto a oltre 900 m di quota a dividerle, vengono a definire una sorta di semiarco che ha la convessità verso l’interno del territorio molisano. Sia il Matese che le Mainarde non stanno sull’asse mediano della Penisola, bensì sono spostate in direzione del Tirreno; trattandosi di rilievi consistenti che raggiungono l’altitudine di 2000 m, fungono da barriere alle perturbazioni provenienti da occidente e, quindi, da regolatori del clima. Tali montagne neanche rappresentano degli spartiacque, come dimostra il fatto che il Tammaro e il Volturno, pur nascendo nel versante adriatico, confluiscono in quello tirrenico. Hanno un’altra cosa in comune il Matese e le Mainarde: la loro formazione geologica, cioè calcare, appartenendo tutte e due alla «piattaforma carbonatica abruzzese-laziale» e, pertanto, sono caratterizzate dal carsismo, che comporta l’assenza di idrografia superficiale. 

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Non c’è, dunque, nessuna possibilità di farli rientrare nella logica dei bacini fluviali sui quali è impostato il nostro discorso. Adesso ci soffermiamo su una diversa questione, cioè sul fatto che non c’è corrispondenza tra le aste fluviali e quanto avviene nel sottosuolo, nel senso che, limitandoci al Biferno, il suo alveo non delimita formazioni differenti e ciò lo si può verificare guardando la carta geologica del Molise, dove l’avvicendarsi caotico di formazioni, dalle «arenacee di Cercemaggiore» al «flysh numidico» nella grande fossa riempita nel Miocene dalle «argille varicolori» che è il comprensorio del Matese Centrale, non tiene in alcun conto la presenza del fiume. Vale la pena raccontare quanto avvenuto qui nelle lontane ere geologiche: successivamente all’emersione del basamento calcareo del Matese frutto del’orogenesi collisionale, quella della teoria delle «placche», sempre per lo stesso tipo di meccanismo si è avuto il riversamento nella fossa già citata di materiali argillosi che inglobano zolle di altra natura, arenacee e calcaree, con dimensioni variabili, anche molto grandi. Gli eventi deformativi sono stati gli agenti fondamentali dell’assetto del paesaggio italiano e così è da ritenere che non sia il sistema idrografico ad aver determinato i lineamenti paesaggistici della regione, bensì la tettonica. I corsi dei fiumi sono, in altri termini, fattori secondari della configurazione attuale del territorio e quindi non capaci di rendere pienamente ragione dell’aspetto fisico del Molise, che rimane perciò indecifrabile, misterioso, confuso e, infine, affascinante.

10 - Alcuni comprensori paesaggistici
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È quasi commovente, nel senso che fa tenerezza, lo sforzo del professor Galasso autore dell’omonima legge, oggi Decreto Urbani, di salvaguardare i capisaldi del paesaggio italiano, tanto essi sono soggetti a mutamenti inevitabili per cause naturali. Infatti, se su quelle antropiche si può intervenire, appunto apponendo il vincolo paesaggistico, su quelle dovute al dinamismo, che è intrinseco al mondo della natura, no. Si prenda la linea di costa per la quale scatta l’obbligo di richiedere l’autorizzazione agli uffici preposti alla tutela per effettuare qualsiasi intervento entro 300 m dalla stessa linea che si tenta di cristallizzare realizzando le barriere frangiflutti presenti lungo tutto il litorale molisano. Quest’ultimo rientra nella tipologia della costa bassa, quella sabbiosa, che è soggetta nel tempo ad avanzamenti e arretramenti, ben diversa, dunque, dalla costa alta che, invece, è fissa; va fatto osservare a proposito di quest’ultima che neanche la falesia su cui sorge una parte del centro abitato della Termoli moderna ha la propria terminazione, verso il mare, immutabile e lo dimostrano i crolli subiti anche in anni recenti in località Rio Vivo e la necessità di dover realizzare a protezione delle case di via Cairoli importanti murazioni. La superficie marina in epoca postrinascimentale ha occupato una striscia di terraferma e la testimonianza è rappresentata da tracce di una struttura portuale di fattura aragonese che si trovano subissate, appena a largo, a nord della cittadina adriatica.

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I porti sono le prime opere a rimanere coperte per l’innalzamento del mare; medesima sorte dovette subire nel periodo tardo antico la città di Buca. Gli antenati dei termolesi attuali dovettero scegliere di installarsi lì dove c’è il borgo medioevale perché un’emergenza rocciosa, non scalfibile dalle onde, che oggi appare come un promontorio, ma che in passato poteva assomigliare a un isolotto a causa degli acquitrini presenti nell’entroterra. Essere circondata dall’acqua era, peraltro, una garanzia di difesa per questa città. In definitiva, il blocco calcareo sul quale poggia la Termoli vecchia è l’unico punto stabile della fascia costiera e fa sì che il nostro centro sia l’unico insediamento in prossimità della distesa marina, mentre altri tentativi, vedi Buca, se è mai esistita, sono falliti in breve. C’è linea di costa e linea di costa, perché c’è anche quella costiera dei laghi per cui vige la medesima misura di protezione dei 300 m dal suo limite. I bacini lacustri presenti nel Molise sono di origine artificiale e ciò nonostante vengono considerati componenti primarie del paesaggio, di un paesaggio che è quello odierno, non quello di appena cinquant’anni anni fa e per tale aspetto contraddicono l’idea di fondo del professor Galasso di conservazione dei caratteri originari del sistema paesaggistico della Nazione. Il perimetro degli invasi varia, sale o scende, in relazione alle esigenze di utilizzo della risorsa idrica in essi contenuta e, dunque, per effetto dell’azione dell’uomo attraverso l’irrigazione. Questa appena citata è una cosa governabile, imponendo, non è il caso in questione, limitazioni, riprendendo il ragionamento fatto all’inizio sull’ineluttabilità della trasformazione del paesaggio per cui non c’è provvedimento vincolistico che sia capace di bloccarla; l’evoluzione del contesto naturale con lo scivolamento a valle delle particelle terrose dai versanti sovrastanti il lago rischia di provocarne l’interramento. È un processo ecosistemico al quale si è fatto fronte al momento della costruzione della diga del Liscione con il rimboschimento dei pendii mediante alberi di conifere che, però, ora stanno invecchiando. Salendo la quota di fondo si avrà, conseguentemente, a parità di volume d’acqua invasata, un innalzamento delle sponde e, quindi, la variazione dei contorni dello specchio d’acqua. All’interno delle categorie dei beni paesaggistici elencate nella Legge Galasso ve ne è una che non rientra nei beni ambientali propriamente detti, bensì tra i beni culturali, ed è rappresentata dalle aree archeologiche. Sarà per via dell’età remota della loro formazione, queste sono state incluse dal provvedimento legislativo predetto tra gli elementi costitutivi del paesaggio. Pure i tratturi, che sono presenti nel territorio regionale fin dalla Preistoria, fanno parte dell’archeologia. La rete tratturale pone una questione particolare essendo i tratturi “segni” permanenti del paesaggio, pure se, in quanto suolo erbaceo, hanno notevoli affinità con i fatti ecologici che, invece, sono contrassegnati da dinamismo, il che, prima o poi, ne modifica l’immagine (lo abbiamo constatato per il mare e per i laghi).

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Solitamente, un prato su cui non si pratica il pascolo in un arco temporale significativo si riempie di cespugli e di arbusti, preludio al suo divenire bosco, un po’ come succede per i seminativi abbandonati, visibili in gran numero, ormai, nelle campagne molisane. Sia una superficie prativa sia un campo coltivato sono espressioni della civiltà umana e lo spopolamento dell’agro con la diminuzione che ne segue dei contadini permette loro di ritornare alla condizione naturale, o meglio seminaturale, perché ci vorrà tempo affinché le piante pioniere diano vita a un’unità boschiva vera e propria. Con i tratturi la progressione degli strati vegetazionali, da quello erboso a quello arbustivo fino a quello arboreo, non avviene, perlomeno in molteplici tratti; sarà per la compattazione del terreno dovuta al passaggio di migliaia di capi di bestiame per migliaia di anni (moltiplicati per 2, l’andata e il ritorno della transumanza), ma la struttura floristica è rimasta invariata, altro che dinamicità della natura. I tratturi per tale caratteristica rientrano tra i tasselli più fermi del paesaggio. L’usura del cotico erboso dovuta al calpestio delle greggi nei segmenti in pendenza avrebbe dovuto provocare erosione superficiale che non c’è stata forse perché le piste tratturali ufficializzate da Alfonso il Magnanimo per evitare il pascolamento brado che è erosivo sono state selezionate quali le maggiormente solide dal punto di vista idrogeologico, in grado di consentire il transito senza problemi delle pecore.

11 - Le vedute paesaggistiche da e verso i paesi

Generalmente dai centri storici non è possibile scorgere il paesaggio circostante all’abitato. Infatti, pur se posti in alto lo sguardo è, di norma, a corto raggio e ciò per due motivi. Il primo è che si tratta di insediamenti compatti, quindi con elevata densità edilizia (non demografica, al contrario!), case con le relative finestre che si fronteggiano a breve distanza, o come si dice nel gioco degli scacchi arroccati. Il secondo è la presenza ai bordi di murazioni difensive, integre o inglobate in fabbricati successivi, vedi Campobasso, le quali costituiscono barriera alla visione dall’interno del borgo dell’esterno del borgo, cioè dell’intorno paesaggistico. Gli unici scorci sulla campagna si aprono in coincidenza con le porte urbiche ed è quanto avviene ad Agnone con la Porta Semiurna. Non smentisce questa regola l’eccezione rappresentata da Fornelli e Sepino con la cinta muraria sormontata da un camminamento di ronda con le sentinelle di scolta per avvistare il sopraggiungere di nemici, il quale, in tempo di pace, oggi, si trasforma in una passeggiata sopraelevata da cui rimirare l’orizzonte. 

Per gustare in pieno i quadri, letteralmente, visivi occorre muoversi a piedi oppure stare fermi, riposati, piuttosto che spostarsi in auto, salvo che lungo una “strada panoramica”, una visione pressoché statica piuttosto che dinamica. Per godere in maniera tranquilla le visuali panoramiche è bene che ci sia una panchina e che questa sia collocata in un giardino ed è quanto succede a Morrone del S. dove lo spazio per la ricreazione all’aperto che si apre su un vasto panorama è situato in coda all’abitato, appena al di fuori dell’aggregato insediativo; a S. Agapito è addirittura un balcone con affaccio sul corso del Lorda. A Trivento e a Campobasso simili “osservatori” ricadono dentro, invece, alla Zona A del piano regolatore; in ciò le due realtà sono assimilabili fra loro, mentre si differenziano per la distanza dai luoghi propriamente di vita; a Trivento non vi è soluzione di continuità tra il largo denominato Piano e il borgo medievale, nel capoluogo regionale è separato dalla zona abitativa, e, in più, il percorso da compiere per raggiungerlo è in salita, la salita dei “monti”, il cammino per i frequentatori è impegnativo se non fosse che si tratta di un tragitto piacevole trattandosi di un viale alberato, il Viale delle Rimembranze. A proposito di camminata e ancora a proposito della “capitale” del Molise piace ricordare che nell’ottocento il passeggio cittadino serontino di gran moda ovunque in Europa in quell’epoca si concludeva con il “belvedere” della Villa De Capoa. Il panorama è tanto più apprezzato quanto più è ampio, nelle piane non si possono avere punti panoramici. Boiano e Venafro sono le uniche due entità urbane di pianura e, perciò, ne sono sprovvisti; in verità, per quanto riguarda la prima nel suo territorio, nella fascia montana del suo territorio, vi è il borgo di Civita, perlappunto, Superiore dalla cui piazza si scorge, nella sua interezza, la vallata del corso iniziale del Biferno, un bel vedere e perciò funge da belvedere. Non è, comunque, detto che è l’altitudine del centro abitato ad assicurare la presenza di un belvedere nel senso che non è vero l’assioma per cui quanto più sono alti i paesi tanto più sono alti i valori percettivi. Si pensi a tale proposito a Vastogirardi, siamo nell’Altissimo Molise, che ha vedute limitate perché il dislivello tra il rilievo su cui si erge l’agglomerato abitativo e il fondo della struttura territoriale su cui, a sua volta, si erge tale rilievo è ridotto, tutto il comprensorio prossimo a questo comune è già in quota. 

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Esiste un’ulteriore verità la quale è che a determinare la significatività di una veduta può essere in certi casi l’ampiezza dell’angolo visuale il che ispira un sentimento di “magnificenza” nell’osservare il territorio e in altri casi il fatto che si è di fronte a squarci di natura selvaggia come con la gola del Quirino visibile dallo slargo sommitale di Guardiaregia il che ispira il sentimento romantico del “sublime”. Lasciamo ora la ricognizione sulle viste panoramiche che si aprono dagli aggregati urbanistici e passiamo a quelle che si colgono stando nel comprensorio rurale. Lasciamo da parte pure l’attenzione alle vedute singole e passiamo a quelle in serie cioè alle sequenze di visioni che si sviluppano lungo assi stradali. Essi vengono denominati “strade panoramiche” nel piano paesistico che le sottopone a stringenti norme di tutela. Per questa categoria si rimanda, quale esempio, al segmento viario che collega Castelpetroso, S. Angelo in Grotte e Macchiagodena; qui l’automobilista volgendo gli occhi verso valle vede, manco a dirlo, la valle che è quella dove sta Boiano, e volgendoli verso monte vede, manco a dirlo, il monte ovvero i monti del Matese, una varietà di stimoli visuali. Andando per sentieri si possono sperimentare effetti analoghi, si prenda l’itinerario che da S. Anna di Trivento raggiunge la Morgia dei Briganti la quale appare alla vista dopo essere passati per una folta cerreta, un ambiente buio, e, in seguito, attraverso la piana del laghetto di Salcito, con lo specchio d’acqua che esalta la luminosità dell’area avendo quale traguardo visivo la predetta Morgia, da lontano un punto dell’orizzonte che diventa man mano che si avvicina sempre più distinguibile; in prossimità tale masso roccioso appare davvero imponente suscitando meraviglia nell’escursionista, uno stupore che non sarebbe stato così forte se non ci fosse stata la sequenza descritta.

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Il paesaggio agricolo

Il primo indizio da utilizzare per un’analisi dei caratteri originari del paesaggio agrario è la suddivisione dei campi. È utile preliminarmente precisare che non tutto il territorio rurale è destinato all’uso agricolo: oltre alle aree coltivate, infatti, vi sono i boschi e i pascoli. Vi sono pure ambiti non produttivi quali le zone a frana e le emergenze rocciose. In molti comprensori si può dire che i suoli coltivati costituiscono delle oasi isolate circondate da porzioni di terra non riducibili alle colture. Va poi detto che le coltivazioni non sono continue poiché vi sono elementi naturali che le separano come i corsi d’acqua e i crinali stretti dei rilievi, ma anche fatti artificiali quali cave, attrezzature turistiche all’aperto, ecc.: sono tutti episodi che provocano interruzioni nel paesaggio agrario e, quindi, la sua frammentazione. Inoltre le colture evitano i versanti troppo ripidi, un tempo, quando la fame di terra era forte, sfruttati anch’essi e oggi lasciati, tutt’al più, al pascolo se non reinselvatichiti. Rimanendo sempre sulle considerazioni geomorfologiche si può dire che mentre in pianura sono scarsi i condizionamenti fisici, in collina e in montagna essi influiscono sulla distribuzione dei campi che scarta i suoli troppo erti. La geomorfologia determina spesso pure la forma delle particelle agrarie che non riescono a volte a seguire un disegno geometrico che, poi, significa una ripartizione razionale. In altri termini, la conformazione del territorio nelle fasce collinari per via della presenza di scarpate, boschi, linee di displuvio, ecc. suggerisce molte volte l’andamento degli appezzamenti. Passando ad approfondire la geometria delle particelle in cui si suddivide il suolo agricolo va detto, in primo luogo, che non si tratta mai (o, almeno, quasi mai) di campi isolati perché il dissodamento dei terreni un tempo boscato è stato un fatto collettivo.

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Che l’entrata in possesso e la trasformazione del territorio ai fini agricoli sia il frutto di un piano comunitario lo dimostra il raggruppamento dei campi in fasci. Essi sono allungati poiché i solchi devono avere la medesima direzione allo scopo di favorire il displuvio dell’acqua in un unico senso. La caratteristica, poi, che i campi siano generalmente, oltre che lunghi, stretti e, quindi di estensione limitata, è spiegabile con, da un lato, la pratica della rotazione e, dall’altro lato con il fenomeno della dispersione in un ampio spazio della proprietà contadina. Quest’ultima si lega con il problema annoso della frammentazione, dovuta alla divisione famigliare. Ciò che colpisce rimane, comunque, la regolarità dei campi la quale deriva dalla quotizzazione della terra, una volta che un ambito boschivo o pascolivo è ricondotto a suolo coltivabile. Un tema che si pone è quello della demarcazione delle particelle le quali si presentano come campi chiusi anche quando particelle contigue appartengono allo stesso proprietario. La delimitazione è costituita di regola da fossati che servono al convogliamento delle acque di scorrimento evitando l’erosione del suolo; i fossati sono stati scavati dall’uomo il quale pur di governare il deflusso idrico sacrifica del terreno (seppure delle sottili strisce). Nei fossati proprio perché c’è umidità ci cresce vegetazione spontanea, le tipiche siepi di rovo che hanno anch’esse una utilità perché fermano le sponde dei fossati. A frenare il ruscellamento delle acque contribuiscono pure i canali di guardia. Le siepi, inoltre, servono per riparare dal vento le colture e per dare alloggio a rospi e farfalle i quali si nutrono degli insetti che attaccano le piante. Non sempre sono le siepi a separare i campi: nelle aree dove si è affermata la pratica dello spietramento i confini sono costituiti dai muri a secco, altrove vi sono i ciglioni dei terrazzamenti oppure filari di alberi. I fossati, i gradoni delle terrazze, i canali di raccolta delle acque conferiscono una certa geometria ai campi la quale emerge visivamente per la linearità delle siepi, delle cortine di alberi o delle “macere”. I campi sono punteggiati di alberi; tra questi vi sono l’olmo, l’acero, l’ornello, la quercia le cui foglie integravano il foraggio degli animali. In genere l’albero si afferma nelle terre asciutte che sono inadatte ai seminativi, ma anche al pascolo se vi è una lunga siccità: l’albero, cioè il suo fogliame, meglio dell’erba assicura l’alimentazione delle bestie in quanto quest’ultima nei periodi con scarse precipitazioni non riesce a soddisfare i bisogni dell’allevamento mentre quando cresce copiosa può rivelarsi sovrabbondante rispetto alle esigenze zootecniche. Va tenuto conto che da noi non vi erano prati artificiali. Tra gli alberi sono frequenti i ciliegi e i meli selvatici che sono le specie dalle quali derivano quelli coltivati; in passato si potevano incontrare diversi tipi di specie arboree, in seguito abbandonate (ad esempio i gelsi). Le coltivazioni nei nostri campi sono mutate con l’apparire delle piante americane che giunte in Europa hanno soppiantato le colture originarie, si pensi al farro la cui ripresa è recente. L’arrivo dal nuovo continente del granoturco e della patata la cui diffusione è merito delle Società Economiche nate agli inizi del XIX secolo nel Meridione d’Italia (anche a Campobasso) rafforzò la povera economia agricola di queste parti, la quale puntava essenzialmente sulla sussistenza. Nella fascia montana dove i cereali non possono arrivare la patata diventa la coltura dominante. Per quanto riguarda il mais esso è stato impiegato per rigenerare, per quanto possibile, il terreno all’interno dei cicli di rotazione molto spossanti per il suolo; si pensi, a questo proposito, che le leguminose, come le fave, venivano intervallate ai cereali soltanto ogni 2 o 3 anni.

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Una ragione più forte della fortuna del granoturco è quella che esso è una pianta che si sfrutta completamente, dalle foglie che servivano per riempire i materassi alla nutrizione sussidiaria del bestiame (il frumentone). Un’altra pianta che ha avuto un grande successo è il grano duro che ha sostituito il grano tenero perché più resistente alle malattie e alla siccità, diventando una pianta simbolo (insieme alla sulla che, così adatta alla nostra latitudine, cresce quasi spontanea) dell’agricoltura promiscua asciutta. L’agricoltura non la si pratica solo nel territorio rurale, ma anche nelle vicinanze dei centri abitati dove abbiamo la presenza degli orti. Tale predilezione degli orti per i dintorni degli agglomerati insediativi è dovuta alla disponibilità di acqua, al rapporto continuo con il proprietario che può anche sorvegliare meglio, alla concimazione derivante dai rifiuti urbani. Gli orti si distinguono dai campi oltre che per la peculiare localizzazione per la loro delimitazione che non è più costituita da una siepe o da un fossato, bensì da specifiche recinzioni; un aspetto che unifica le produzioni orticole con le altre coltivazioni e che entrambe sono orientate all’autosufficienza alimentare, più che al mercato. Si è detto prima di colture provenienti da oltreoceano: tra queste vi sono diversi ortaggi, innanzitutto il pomodoro che ha avuto un successo incredibile, e poi vari tipi di zucche e di peperoni. C’è una specializzazione a livello locale delle colture ortive per cui vi sono paesi in cui si piantano prevalentemente agli, in altri cipolle, tortanelli, peperoni e così via. Gli ortaggi vivono da soli oppure insieme agli alberi: da quelli più antichi come l’ulivo a quelli di introduzione più recente, quali i peri e i meli. Le colture ortive vengono piantate anche nelle vigne per sfruttare interamente il suolo, vigne che dalla seconda metà dell’ ‘800 sono in grande espansione grazie all’introduzione della solforazione.

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Dentro gli insediamenti edilizi comincia a comparire qualche vite a pergola, presente pure in alcune case sparse. Pure la vigna, per le continue cure che richiede, deve stare vicino ai nuclei abitativi. Si è parlato finora di campi e di orti come due cose fra loro separate, quando invece essi sono parte di un’unica azienda contadina la quale è caratterizzata dallo spezzettamento dei terreni; il coltivatore possiede appezzamenti che possono essere situati a notevole distanza reciproca ed, in più, a quote differenti poiché l’ulivo sta in basso, mentre la vite vegeta pure in zone più elevate, anche se non può spingersi alle altitudini che raggiungono i cereali e, specialmente, le patate. Le aziende di montagna sono composte da orti, campi e dal bosco che è complementare ai primi poiché da esso si trae la legna da ardere, il legname d’opera per le costruzioni agricole, i pali di sostegno delle viti, le foglie che servono nella stalla da strame per le bestie, le ghiande per l’alimentazione degli animali. I boschi privati avevano la funzione, in aggiunta, di integrare il reddito della proprietà contadina la quale può concederne parti a compagnie di taglialegna o di carbonai. Lo sfruttamento del bosco è, comunque, da tempo limitato per via di norme vincolistiche che tendono a preservarlo per garantire la stabilità del suolo; ciò vale tanto per i boschi pubblici che per quelli privati, la cui qualità non è, comunque, elevata poiché governati a ceduo e non a fustaia. La maggioranza dei boschi è, ad ogni modo, di proprietà pubblica, alla stessa maniera dei pascoli, un’altra componente essenziale dell’economia contadina. I pascoli piuttosto che formazioni naturali sono spesso delle fitocenosi di sostituzione di una preesistente vegetazione forestale. Un tipo di pascolo che è da ritenere originale è quello di alta quota quando la montagna ha le cime arrotondate dove si ha una superficie erbosa magra. L’ambiente nella fascia sub-montana è stato in passato trasformato in maniera significativa dall’azione antropica che ha ridotto l’estensione forestale, ma pure i pascoli a favore delle coltivazioni. Queste ultime, però, non comportano, se non nelle aree a sodo, la scomparsa in assoluto del pascolo perché esso si avvicenda alle colture dopo il raccolto convivendo con la cerealicoltura. La destinazione a pascolo del suolo rimane una cosa importante perché tarda ad affermarsi l’allevamento stabulare. La zootecnia è relativa a bovini, ovini ed equini, ma vi sono anche altre specie animali allevate dai contadini che sono maiali, polli e conigli, cioè razze da cortile accudite da donne, vecchi e bambini. Tutto quanto è ormai il passato perché il presente e, ancor di più, il futuro ci riservano un’agricoltura caratterizzata dall’intensificazione colturale e dalla specializzazione, tendenze produttive che porteranno ad una riduzione della superficie agraria realmente utilizzata lasciando i terreni più difficili. Aumenterà la percentuale di terreni abbandonati, un fenomeno dovuto non sempre alla ritrazione delle colture, ma a volte alla speranza di edificazione la quale determina un’agricoltura “di attesa”. In omaggio ai tempi moderni abbiamo la progressiva scomparsa del paesaggio agrario tradizionale che, invece, va ripristinato perché costituisce un mirabile esempio di adattamento delle esigenze umane all’ambiente.

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