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A PROPOSITO DI CAMPOBASSO

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1 - Città giardino

Già i Romani avevano avuto in mente l’unitarietà nella progettazione della rete viaria tra strade extraurbane ed urbane; si prenda il caso di Aesernia dove la via Latina diviene il decumano della città attraversandola. Questo, però, c’entra poco con il topos che vogliamo affrontare il quale è quello dei viali piuttosto che della viabilità tout court. Un tema settoriale, sì, ma non secondario qui a Campobasso la quale è stata chiamata “città-giardino” proprio per le sue vie e piazze alberate, almeno un tempo.

Ad ogni modo, qualcosa c’entra con la questione che intendiamo trattare la considerazione iniziale perché a causa dell’espansione insediativa, la quale ha riguardato i centri maggiori, sono state inglobate nell’area urbanizzata porzioni delle arterie di accesso ed essendo quest’ultime, poiché a servizio dei centri maggiori di cui sopra, delle Statali esse sono contornate da filari di alberi sempreverdi come i viali. È molto bello l’ingresso a Casacalenda della Sannitica con il suo lungo rettilineo con ai fianchi una lunga teoria di pini ad ombrello e appunto perciò ombreggianti tanto da farlo assomigliare ad un viale. Lo stesso percorso stradale da Napoli a Termoli passa per il capoluogo di regione in cui nel tratto coincidente con l’attuale via Trivisonno le piante storiche sono state tagliate per sostituirle con delle nuove, appena messe a dimora, mentre rimangono lungo via Mons. Bologna che è il suo seguito. Tale via è denominata viale e propriamente in quanto ci sono sia le essenze arboree, peraltro con una larga chioma capace di fornire ombra ai passanti, sia il marciapiedi e quindi la sicurezza a chi la frequenta, sia è pianeggiante, morfologia del suolo favorevole alle passeggiate. Si è nominato il marciapiede includendolo tra i requisiti per essere un viale, una componente della sezione stradale ad un tempo, qui da noi, antica, vedi i crepidoma dei decumani di Bovianum e di Altilia, e moderna poiché fino al XIX secolo le nostre strade erano a malapena pavimentate, figurarsi se avevano un marciapiede. Non siamo ancora al dunque, lo si è solo sfiorato, che è quello preannunciato nell’incipit, cioè la continuità tra la viabilità esterna e quella interna all’abitato, con particolare, lo si è aggiunto un attimo dopo, attenzione ai viali. La visione di un rapporto organico tra gli assi di circolazione in seno e al di fuori del nucleo abitativo la ebbe il Wan Rescant il cui piano per l’ampliamento della città, antagonista a quello proposto da Musenga sulla base del quale si realizzò il Borgo Murattiano, prevedeva tre, diciamo così, vialoni che si dipartivano dal palazzo del Decurionato, forse nel sito dell’odierna Prefettura, la cui lunghezza era indefinita. Essi sarebbero stati gli elementi ordinatori dell’assetto urbanistico e, nel contempo, direttrici territoriali, coinvolgendo la campagna circostante.

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Niente di originale in quanto questo, il tridente, è uno schema classico dell’urbanistica barocca, applicato per la prima volta alla reggia di Versailles e posteriormente a quella di Caserta dove l’asta centrale è la linea di congiunzione diretta tra la capitale del regno Borbonico e la residenza “fuori porta” dei regnanti. Siamo nell’epoca dell’Assolutismo e la raggiera viaria che ha quale fulcro la sede del potere, monarchico nel caso delle dimore reali o municipale a proposito della casa dei Decurioni nel polo di comando della Provincia di Molise, sembra voler simboleggiare il controllo del territorio esercitato da queste istituzioni. Siamo di fronte, le arterie disegnate dal Wan Rescant, a poco più che linee ideali, una programmazione sulla carta invece che una pianificazione sul terreno, e noi adesso ci intratteniamo su due loro caratteristiche, la rettilineità e la larghezza, le quali hanno attinenza con la tematica dei viali che sono dotati di ambedue i connotati e sempre senza dimenticare che ci siamo prefissi di vedere il legame tra i canali viari presenti nel contesto cittadino e quelli che corrono nell’agro. Il primo carattere, quello di essere dritti, lo si ritrova nei viali dei parchi pubblici, pure nella Villa De Capoa, progettati sul modello del “giardino all’italiana” e Campobasso, correggendo in qualche modo la definizione riportata in precedenza, è per intero, quantomeno il Nuovo Borgo, una “città-giardino all’italiana”. In campagna nelle zone collinari è impossibile utilizzare la riga per progettare i percorsi i quali qui sono necessariamente curvilinei. Tra questi vi è la strada che congiunge Ferrazzano alla “capitale” della regione, la quale ha buone argomentazioni per farsi riconoscere quale viale, ma che di buon grado accettiamo di chiamare pista ciclabile, un nome che fa tendenza. Nessuno di tali argomenti, va detto, da solo basterebbe, è il loro insieme che ci permette di attribuire ad essa la qualifica di viale: c’è la piantumazione di platani al bordo i cui rami formano una cupola vegetale che scherma dal sole, c’è il marciapiede, il vialetto pensato per le bici e utilizzato soprattutto dai pedoni rialzato dalla sede carrabile con il suo traffico costante di pendolari causa di qualche disturbo acustico, c’è l’amenità del passaggio, c’è la superficie piana su cui si sviluppa. Ciò che la differenzia dal resto dei viali è il suo essere planimetricamente movimentata per le diverse curve nel suo svolgimento. Se è un viale allora è un viale di un giardino non più all’italiana, bensì all’inglese, lo stile del “pittoresco” con il quale si cerca di ricreare, negli spazi a verde, angoli non geometrici evidentemente di natura non addomesticata, se così si può dire o addirittura selvaggia. I tragitti naturalistici hanno traiettorie mosse con aperture visuali sempre differenti e ciò rende stimolante la loro frequentazione. Il secondo dei caratteri di cui sopra richiesto ai viali, che posseggono sia quelli di Wan Rescant sia quelli, attuati, di Musenga è l’estensione in senso trasversale e ciò non per favorire le passeggiate essendo un dettato dei propugnatori della nuova scienza nata a fine Settecento, l’Igiene, bensì per prevenire i contagi prodotti dall’affollamento nei luoghi collettivi e per la migliore insolazione e aereazione degli alloggi che su essi prospettano, accorgimenti legati a preoccupazioni di ordine sanitario che si giustificano negli agglomerati interessati dalla Rivoluzione Industriale e che non guastano anche da noi. Infine, visto che oggi appare retrò proporre la costruzione di viali e, se per fare breccia occorre chiamarli piste ciclabili va bene denominarli così.

2 - Ecologia urbana

«La città a 15 minuti» è un obiettino ormai comune a molte città europee; tra i posti raggiungibili nel raggio di un paio di kilometri dalla propria residenza vi devono essere anche gli spazi verdi, non solo le attrezzature di uso collettivo quali le scuole, i presidi sanitari di base, le fermate dei mezzi di trasporto pubblico e così via. Nel capoluogo del Molise tale traguardo è davvero alla portata di mano, o meglio, dato che trattasi di percorrenze pedonali, di piede per quanto riguarda il verde, meno, probabilmente, per altre utilities (con la chiusura della Casa della Scuola a via Roma gli abitanti del centro storico non hanno più un istituto di istruzione elementare nelle vicinanze). In pressoché ogni quartiere è prevista una superficie a verde per la ricreazione all’aperto: il Quartiere CEP ha il Parco dei Pini, il cosiddetto Borgo Murattiano, l’areale focale dell’insediamento abitativo, ha in appendice la Villa De Capoa, il primo parco in assoluto di Campobasso, il borgo medioevale è contiguo alla Collina Monforte del cui piano di fruizione è stata realizzata finora solo la Via Matris, il quartiere S. Giovanni ha il Parco di Via Lombardia e, in ultimo, per il quartiere Vazzieri il PRG ha previsto nella Zonizzazione la Zona Verde nel vallone del torrente Scarafone.

Non abbiamo nominato a caso quest’ultimo come ultimo caso, lo abbiamo fatto perché è un caso a parte. La sua condizione attuale di luogo selvatico, non un luogo bello e pronto per lo svago, ci spinge a riflettere su cosa si debba intendere per verde urbano. Se è pacifico che la presenza della vegetazione in ambito cittadino è indispensabile in quanto utile per la purificazione dell’aria, per la riduzione del rumore e per il miglioramento estetico dell’abitato non vi è una condivisione unanime su quale tipo di verde urbano prediligere, se non sullo stesso concetto di verde urbano. Vi è una distanza notevole tra le due concezioni di verde urbano, da una parte quella di superficie funzionale allo svolgimento di passeggiate anche in bici, la pista ciclabile verso Ferrazzano, al picnic, le aree attrezzate in località Foce e a Montevairano, al gioco dei bimbi, il giardino intitolato a B. Musenga, ecc. e, dall’altra parte quella di ambiente naturale, cioè di uno spazio di verde non “addomesticato” e, pertanto, con un alto livello di naturalità che è poi lo stato di fatto del corso iniziale dello Scarafone. Da un lato, lo si ripete, le qualità ecologiche e dal lato opposto le qualità funzionali all’intrattenimento en plein air. La natura spontanea ha suscitato sempre sentimenti di paura, o quantomeno inquietudine che la cittadinanza, messa alla prova, di fronte a lembi di territorio inselvatichito a ridosso del territorio urbanizzato, di nuovo la forra dello Scarafone (lo stesso nome, del resto, suscita repulsione); qui si annidano, la prova di cui sopra, animali indesiderati, all’ordine del giorno sono i cinghiali trovati a scorazzare in ore notturne tra le strade periferiche (recenti avvistamenti vi sono stati a via Ungaretti e via Leopardi, ambedue vie del quartiere Vazzieri).

Alla natura “disordinata” incontrollata, nonostante sia in possesso di elevata biodiversità, preferiamo la natura ordinata. Un bosco in città è apprezzato se è un bosco “artificiale”, la pineta dei “monti”, con i pini che seppure si sono naturalizzati tanto da far rientrare questo sito nella Rete Natura 2000 allineati su gradonate rimangono una specie alloctona. Una piantagione di conifere ha poca capacità di rinnovarsi, mentre una formazione boschiva originaria (si badi bene non si è detto primigenia perché da noi non ve ne sono), prendi il Bosco Faete il quale per la sua prossimità con l’agglomerato insediativo può considerarsi un parco urbano in fieri, è maggiormente stabile essendo in grado di riprodursi; la stabilità è un valore ecosistemico il quale si aggiunge a quello della biodiversità per la varietà di essenze arboree che lo compongono. Non è solo questa pinetina ad essere opera della mano dell’uomo-giardiniere in quanto lo sono evidentemente i, tutti, tanti giardini che stanno all’interno della città-giardino nostrana, oppure gli ormai ex-giardini in quanto parzialmente pavimentati, da Villetta Flora a piazza Cesare Battisti a piazza Cuoco fino a piazza Vittorio Emanuele III. L’arte del giardinaggio reprime, piuttosto che governarlo, il dinamismo, il, per così dire, istinto primordiale del mondo vegetale ad evolversi fino a raggiungere un assetto stabile, del quale si è parlato poco fa; tale tendenza evolutiva si manifesta nelle aree vegetate di neo-formazione con stadi successivi di crescita come si coglie in quella a particella di terreno alberato che sta alle spalle del complesso parrocchiale Mater Ecclesia, una specie di selva, magari, contraddicendo il Poeta, non aspra e forte. Si è discusso finora di natura in città, sia essa natura naturans sia essa natura naturata come direbbero gli antichi, riferendosi costantemente a fatti areali, pure l’aiuola nel suo piccolo lo è, si indica lo spartitraffico all’incrocio tra le vie Mazzini, XXIV Maggio, IV Novembre, e, però, esistono anche episodi naturali puntuali, gli alberi, tra l’altro numerosissimi. Essi sono particolarmente graditi nei contesti urbanistici per i benefici che offrono compreso quello, non solo per l’ombreggiatura, dell’attenuazione delle “ondate di calore”, un’emergenza di Protezione Civile, cui Campobasso è soggetta caratterizzata com’è da un clima di tipo continentale con estati con punte di caldo eccessivo e inverni con giornate assai rigide. La parola d’ordine attuale nei provvedimenti governativi non è tanto la forestazione urbana quanto la messa a dimora di essenze arboree singole (o, perlomeno, non tagliarle come si è fatto lungo via Trivisonno, decisione forse legata al loro rischio di caduta causa vetustà). È una preziosa eredità quella che ci è stata trasmessa, e che dobbiamo tenerci ben cara, dei lecci che bordeggiano il corso principale, dei pini d’Aleppo, dei tassi, delle sequoie, in verità ora solamente una, punteggianti l’espansione ottocentesca, un verde puntiforme con tanti puntini che sommati insieme formano una discreta chiazza verdeggiante.

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3 - I Murales

Campobasso si è colorata, ma non si è messa un abito in tinta unita, bensì policromatico. Non è stata, comunque, solo la nostra città a volersi dare una veste a colori, perché è invalso l’uso di colorare gli ambienti urbani un po’ dappertutto. Vi è stato nel mondo contemporaneo una forte affermazione del colore. Si è detto volutamente contemporaneo e non moderno, perché l’architettura moderna, quella “razionalista”, non correnti architettoniche, rimaste minoritarie, che si ispirano a Gaudi, alle sue fantasmagoriche opere estremamente vivaci anche dal punto di vista coloristico, rifuggiva dalla colorazione dei prospetti. A cominciare dai grattacieli in ferro e vetro nei quali non si può, addirittura, parlare di facciate fino agli edifici in cemento a faccia vista che proprio perché tale, è evidente, non ammette la tinteggiatura. Per Adof Loos, uno dei maestri delle Avanguardie Artistiche del Novecento, l’”ornamento è delitto” e nell’ornato va sicuramente ricompresa la pitturazione decorativa dei fronti di un fabbricato.

Per le coloriture non va meglio nei manufatti in stile “mediterraneo” (perché ispirato alle casette dei villaggi dei pescatori dell’Egeo), quelle di cui si è parlato prima sono in International Style, che spuntano lungo le coste, tutti rigorosamente bianchi; esempi se ne vedono nelle villette turistiche di Campomarino Lido e questa è una tendenza che è durata fino ai nostri giorni, per cui il complesso per vacanze sorto di recente tra Petacciato e Montenero di Bisaccia con i blocchi edilizi tinteggiati l’uno differentemente dall’altro appare, per certi versi, eversivo. Macchie di colore punteggiano più l’agro, anche se essendo l’intento quello di mimetizzare le costruzioni nel contesto paesaggistico, non si sarebbero dovuto notare, ma tant’è, cioè una contraddizione in termini, piuttosto che l’agglomerato urbano: tetti verdi nei capannoni per polli, pali metallici dell’elettricità bruni per richiamare il legno, piloni di viadotti dipinti con tonalità che richiamano, in modo da confondersi con esso, quelle del suolo in cui sono impiantati. Si dimenticava di dirlo, ciò in ossequio alle prescrizioni della Soprintendenza ai Beni Culturali. Il quadro delineato comincia a cambiare negli ultimi decenni del secolo scorso e più velocemente nei primi (2!) del nuovo millennio (salvo le regole soprintendili, è ovvio). Forse è un punto di vista, per così dire, materialista e, però, qualche fondamento lo ha, il motore della trasformazione è stata la comparsa nel comparto dei prodotti edili di una quantità vastissima di vernici sintetiche le quali hanno ampliato notevolmente le possibilità coloristiche. Le pitture viniliche in così grande varietà, peraltro combinabili fra loro e di intensità graduabile (rispetto al passato si possono ottenere colori assai più accesi, se non sgargianti come quelli impiegati di norma nei murales), hanno spinto ad un’apertura al colore, ad abbandonare la sobrietà tanto nell’oggettistica per la casa quanto nel trattamento esterno delle costruzioni. È vero che pure i palazzi di prima erano tinteggiati, ma quando l’allora sindaco Massa negli scorsi anni novanta emise le prime ordinanze per la riqualificazione dell’immagine esteriore degli immobili che affacciano sul corso Vittorio Emanuele, il principale del capoluogo della regione e, di conseguenza, della regione stessa, nessuno si aspettava quel rinnovamento cromatico si è determinato in questa strada che è un po’ la vetrina del Molise.

Il merito è delle nuove tinte a disposizione. I colori applicati ai fronti edificati non è che siano l’avvio di un percorso che oltre un decennio in avanti porterà ai murales, i quali adoperano tinte altrettanto nette, ma è, comunque, un passo nell’evoluzione del gusto coloristico; a supporto di tale affermazione, si fa notare la distanza, non fisica poiché via Roma è alle spalle del corso, bensì di sensibilità coloristica che vi è tra le colorazioni del secondo e quella della sede della Provincia di meno di un decennio, adesso, indietro con il suo celestino che è il “color dell’aria” della tradizione architettonica romana, qualcosa che ricorda la tecnica storica della scialbatura qui appropriata essendo un monumento. Il percorso di cui si è detto prevede tappe intermedie tra cui vi sono le riproduzioni sui muri di opere d’arte classica ad opera del prof. Iannelli. Per due aspetti, oltre al soggetto, differiscono dai murales veri e propri, l’uno è che sono di piccole dimensioni, l’altro è che sono protette mediante un vetro, sia dai vandalismi sia dal deperimento dovuto allo smog (sono posizionate ad altezza d’uomo lungo vie carrabili) e agli agenti atmosferici. Il progressivo degrado sembra inevitabile nei dipinti murali e, anzi, viene programmato come, ad esempio, nel caso del celebre ciclo sulla storia di Roma raffigurato su un muraglione del lungotevere nei pressi di Castel S. Angelo. Se non un’obsolescenza materica ve n’è sicuramente una contenutistica: il Trump che discute con gli altri leader mondiali in un murales del quartiere S. Giovanni de’ Gelsi non è più il presidente degli Stati Uniti. Un ulteriore passaggio verso i murales è rappresentato dall’abbellimento delle saracinesche, quasi moderne tele d’artista, tante ne sono state a essere oggetto di maquillage, con disegni estremamente colorati. Nel nostro discorso esse sono lo spunto per parlare delle bombolette spray, lo strumento principe degli street artist il quale ha il limite delle campiture continue, non permettendo lo sfumato che, invece, l’affresco, quello di Iannelli, consente. Le serrande, per fortuna, nel centro cittadino sono poche (non solo in via Ferrari dove sono concentrati i negozi con vetrinette sporgenti sul percorso viario, in parte risvoltanti ai lati dell’ingresso, fuoriuscenti dalla parete dello stabile, che fa tanto retrò), perché vengono frequentemente sostituite con grigliati metallici i cui occhielli impediscono la visione della merce in vendita. Beninteso è tutto legale, mentre non lo sono i graffiti i quali sono delle scritte, non dei disegni, che imbrattano i muri qua e là nelle città e financo il patrimonio monumentale, successe alla chiesa di S. Giorgio. Per realizzare dei murales occorre che ci siano edificazioni “in linea”, tipologia presente esclusivamente nelle Zone di edilizia economica e popolare poiché si concludono con una parete cieca e perciò lì si trovano a S. Giovanni dè Gelsi e a Fontanavecchia; servono pure a migliorare l’immagine di alcuni luoghi in cui sono presenti importanti muri di sostegno, il tragitto che conduce al Terminal, attraverso il sottopasso ferroviario o sottopassando il ponte della ferrovia, e la stessa stazione degli autobus, una specie di continuum. Nella parte centrale si è intervenuti, non senza polemiche, sul Mercato Coperto con un intervento di optical art perché il drago rappresentato ha gli occhi coincidenti con le finestre. Una eventualità concreta è che sfruttando l’ecobonus si effettui il “cappotto” sui fabbricati del Quartiere CEP i quali non vennero intonacati o per minimizzare i costi o per le esigenze estetiche dell’architettura neorealista che vogliono che il mattone e la struttura portante in c. a. siano visibili, o per entrambe le cose facendo di necessità virtù; una volta rivestiti di intonaco, essendo il tipo edilizio in linea, essi, i loro lati corti, in particolare le testate prospicienti la viabilità principale, sono pronti per fare da supporto ad operazioni di street art.

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4 - Il Borgo Murattiano

L’atto fondativo di una città, di certo, era prerogativa di un Re, mentre sembra eccessivo che anche per l’ampliamento di un abitato si dovesse scomodare il capo di un regno. Eppure è così, tanto che per realizzare il Nuovo Borgo di Campobasso fu necessaria l’autorizzazione regia che venne concessa da Gioacchino Murat nel 1812. Il sovrano non decise solo sull’opportunità di estendere l’insediamento urbano, cosa del resto scontata perché nel 1806 Campobasso era diventata il capoluogo della provincia, ma pure sul piano urbanistico da adottarsi. Essendo un ufficiale di Napoleone il quale lo aveva posto sul trono del regno di Napoli, egli optò per il progetto di Berardino Musenga invece che per quello del suo concorrente, l’olandese Wan Rescant, perché più aderente alla temperie illuministica che informava la cultura dell’epoca.

Promosso dai pensatori e dai riformatori francesi si era andato affermando un modo di sentire dominato dalla “ragione” e la razionalità, di conseguenza, è la guida delle attività umane tra le quali vi è pure quella della progettazione degli insediamenti; il disegno antagonista, quello di Wan Rescant, segue, invece, ancora i dettami dell’architettura barocca e, perciò, viene scartato. Ciò che non era oggetto di competizione era la scelta del sito, la quale era obbligata essendo disponibile, a seguito dell’abolizione, nei medesimi anni, della transumanza, il suolo del tratturo che passava ai margini del sobborgo sorto fuori le mura medioevali. Oltre alla disponibilità della superficie, la quale era ampia in quanto qui la pista tratturale si allargava per ospitare le fiere che si svolgevano in occasione del passaggio delle greggi, per edificare un quartiere (tale è, infatti, il Borgo Murattiano e non un’entità urbana a sé stante) era opportuno che il luogo fosse piano per minimizzare i costi di urbanizzazione i quali, inevitabilmente, si incrementano se per costruire occorre prima modellare il terreno. Un semplice inciso: anche uno slargo per lo svolgimento del mercato deve essere pianeggiante. Non sarebbe stato possibile trovare un altro spazio nelle vicinanze del nostro centro con simili caratteristiche morfologiche (salvo smentirci in seguito!) essendo il territorio di questa parte della regione di tipo collinare; le uniche pianure sono quelle delle fondovalli dei maggiori fiumi. Non guasta il fatto che l’appezzamento di terra prescelto fosse privo di vegetazione arborea come si conviene ad un tracciato tratturale il quale è destinato, insieme alla percorrenza, al pascolamento. Favorisce, poi, un’organizzazione regolare dell’aggregato edilizio la circostanza che l’area individuata abbia forma pressoché rettangolare. Conta, inoltre, il fatto che tale piano non sia attraversato da un corso d’acqua e neanche lambito, sia perché il corpo idrico qualora fosse al suo interno costituirebbe un elemento che ne interrompe la continuità sia per il pericolo di allagamento, e ciò avviene non di rado in una pianura che solitamente è di origine fluviale; il nostro caso è a parte in quanto qui la piana è più propriamente un altopiano con i suoi 700 metri di quota. L’essere pianeggiante di tale zona è un vantaggio anche per un altro aspetto che è quello che la rete viaria che si andrà ad immaginare potrà essere costituita da aste lineari le quali vanno a favore di una ordinata disposizione delle case da realizzarsi. Per quanto riguarda la viabilità si ritiene utile una sottolineatura che è la seguente: si ammette, pur a costo di smentire quanto precedentemente affermato, che vi sarebbe stata una diversa zona dotata di suolo piano ed è Fontanavecchia che, però, pur non essendo troppo distante dal nucleo storico è separata da esso dal Monte S. Antonio, ma soprattutto è lontana dalla principale direttrice stradale, verso la capitale dello Stato, lungo la quale si posiziona, al contrario, il Nuovo Borgo. Non dovrebbe essere così per un intervento pianificato qual è quest’ultimo, bensì un fenomeno limitato agli episodi edilizi (si rimarca la parola episodi) di iniziativa individuale i quali tendono ad attestarsi su una strada esistente, l’infrastrutturazione di cui si ha bisogno per costruire. Non per motivi pratici del tipo di quello che abbiamo visto si è spinti ad insediarsi lungo le più significative arterie di comunicazione innanzitutto per i flussi di persone, merci, informazioni che vi transitano e ciò non è stato, probabilmente, secondario nella individuazione del posto dove sviluppare Campobasso.

Fontanavecchia, peraltro, non va bene per il suo orientamento topografico, a nord-ovest, con la Colina Monforte che riduce il numero di ore di soleggiamento; il Piano delle Campere, si svela la denominazione della località che si è preferita, si presenta del tutto salubre con la luce solare tutto il giorno (va da ovest ad est) e la salubrità è un obiettivo che è stato tenuto ben presente dal Musenga nel disegnare questa specie di grande lottizzazione. I lotti sono comprensivi di giardino e se il privato è assicurato di una superficie a verde la quale tiene basso l’“indice” di fabbricabilità, il pubblico non è da meno in quanto a densità urbanistica per via dei due grandi “vuoti” situati nel centro l’uno destinato a piazza l’altro a parco. Non si era mai visto fino ad allora in nessuna realtà insediativa molisana spazi comuni tanto ampi (forse, solo, piazza G. Pepe nella stessa Campobasso può reggere il confronto). È questa delle superfici non “coperte” l’eredità più consistente che ha lasciato la pianificazione ottocentesca voluta da Murat alla città attuale o, quantomeno, alla sua parte centrale la quale, comunque, è il cuore della struttura urbana. Un’immediata constatazione è che la maglia dei percorsi i quali hanno una sezione consistente risulta idonea tuttora, in piena età dell’automobile (va segnalato che, opportunamente, si è reso non carrabile, bensì solo pedonale, il Corso); anche quello del traffico, in quel tempo delle carrozze, deve essere stato un problema che Musenga intendeva risolvere. Le erte pendenze dell’agglomerato antico superabili unicamente mediante gradinate contrapposte alla piattezza del Borgo Murattiano sono l’evidenziazione maggiormente efficace dal punto di vista percettivo dei cambiamenti messi in moto dal Murat due secoli fa. Guardando l’aspetto architettonico si nota una densificazione dell’area che non è stata riempita, come inizialmente stabilito, dai fabbricati unifamiliari al posto dei quali si sono eretti immobili plurifamiliari, con l’eccezione del palazzo destinato a sede del Tribunale Amministrativo; vi è stata una qualche rifusione dei lotti e, innanzitutto, una crescita in altezza dei volumi. Nonostante ciò l’impianto planimetrico progettato dal Musenga ha tenuto e nonostante il mutamento del significato della piazza per via del subentro del Municipio al Monastero della Libera con tutto ciò che, inevitabilmente, si porta dietro.

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5 - Il Castello Monforte

Ciò che colpisce nella vista del castello Monforte, perché inusuale, sono le torri basse, tutte. Sono quattro, una per ogni angolo di questo maniero che ha una forma tendenzialmente quadrata e non è possibile che siano corte perché la loro parte superiore è, per qualche causa, crollata: è poco credibile che ognuna di esse sia stata colpita da uno stesso accidente, naturale o artificiale, capace di determinarne il crollo parziale. Oltre che la comparazione con le altre rocche dove le torri sono di altezza, sempre, pari o superiore a quella della cortina muraria cui sono adiacenti (svettano sulle mura a Carpinone e Torella) è la presenza del redontone in sommità a denunciare l’incompletezza dell’elemento turrito. Il redontone è quel cordolo in pietra con profilo bombato (una specie di toro, il cuscino lapideo che si metteva alla base delle colonne) che suddivide in due parti, in senso verticale, sia le torri sia le pareti di una struttura castellana a partire dalla II metà del XV secolo; esso distingue una zona inferiore che è sagomata in maniera obliqua e una soprastante che è, invece, dritta.

A suffragare la tesi che non sia stato un evento involuto, bensì frutto della volontà umana, ciò che ha prodotto la ridotta elevazione delle torri è il fatto che in quel periodo si è proceduto a “cimare” le torri in tante opere fortificate, operazione che in gergo tecnico si chiamava scamozzare, dal nome dell’architetto Scamozzi il quale per primo operò simili tagli. Ebbene, nonostante le argomentazioni esposte tendenti a dimostrare che le torri qui furono oggetto di abbassamento, si è dell’opinione che a Campobasso le torri non furono decurtate, ma che esse nacquero così. L’indizio forte che spinge a tale ipotesi è, per via degli spigoli del castello ai quali si agganciano le torri che sono, come del resto le facciate da ogni lato, a scarpa, la seguente: se le torri proseguissero verso l’alto esse si troverebbero staccate dal muro del volume principale del castello che, nel frattempo, essendo inclinato, arretra. Comunque, per quello che ora si vuole dire non cambia molto, tanto se il corpo turrito è stato accorciato quanto se è stato pensato esattamente nel modo in cui lo vediamo oggi. In questo secondo caso, va precisato, il redontone occorre leggerlo alla stregua di una modanatura architettonica non come una componente funzionale di raccordo tra il basamento a scarpata e quanto si sviluppa sopra verticalmente, il prosieguo della torre. Il tema della taglia delle torri, o meglio sul loro taglio la cui conseguenza è il redontone trasformato in, pressappoco, un cornicione e non più linea di demarcazione, la sua mission classica, non è una questione da poco, non riguarda, infatti, un dettaglio costruttivo poiché coinvolge l’impostazione stessa dell’apparato difensivo all’indomani dell’introduzione delle armi da fuoco. Le torri dovevano essere più spesse per resistere ai colpi di cannone, di qui la scarpa che le ingrossa, e più corte per permettere di posizionarvi le bombarde le quali erano chiamate a colpire gli avversari “d’infilata”; alla difesa piombante, quella dello scagliare sulla testa degli assalitori che tentano la scalata alla cinta muraria oggetti pesanti, se non olio bollente, si sostituì con l’avvento della polvere da sparo la difesa cosiddetta radente.

Quest’ultima, anche temporalmente, tecnica di guerra consentiva di uccidere un maggior numero di nemici rispetto a quella precedente in quanto una palla di artiglieria sparata orizzontalmente riusciva a falcidiare una schiera di soldati e non più uno solo alla volta. Poiché la gittata dei cannoni è a lunga distanza il castello diviene da macchina da difesa a macchina d’offesa. Si riducono gli scontri corpo a corpo nei quali i condottieri mettevano alla prova, secondo gli ideali cavallereschi, il proprio valore e da ciò ne consegue anche una loro perdita di status; perdita che dovettero amaramente accettare pure personaggi alla ricerca di gloria, tipo l’ambizioso conte Cola. Da strateghi di battaglie campali nelle quali ponevano in luce le virtù guerresche, mostravano il loro coraggio nel combattimento, esibivano carisma nel condurre all’attacco le truppe, evolvettero in figure assimilabili agli ingegneri militari. Tale fu il destino di Nicola di Monforte al quale si deve l’adozione delle misure di adattamento del castello di Campobasso alla nuova arte della guerra. Tra queste vi è il ringrosso della zona basamentale dei fronti edificati con l’aggiunta di paramenti lapidei sistemati in diagonale per renderli più resistenti alle cannonate; ciò in ragione del fatto che il loro cedimento, cioè del piede, avrebbe causato la caduta dell’insieme della muratura. L’intercapedine fra la fodera esterna in conci calcarei e il muro preesistente è riempita di terra costipata e durante un intervento di restauro effettuato un paio di decenni fa sono state rinvenute in tale interspazio colmato da terreno radici di piante allignate all’interno. Per rendere efficace l’azione delle bombarde fu decisa l’eliminazione delle case in prossimità del maniero. La demolizione delle abitazioni per un ampio raggio consentiva di avere sgombra la vista per il tiro delle artiglierie e di controllare i movimenti degli avversari. Accanto alla creazione di questa sorta di spianata il Monforte, quasi a non saper decidersi edificò un doppio circuito murario, uno minore intorno al castello e l’altro che abbracciava l’estensione totale del borgo, una soluzione avente un sapore di ridondanza.

6 - Il borgo antico

Non è detto che le mura di Campobasso siano da attribuirsi a Cola di Monforte, possono essere state opera della stessa cittadinanza. È credibile che la cinta muraria sia stata fatta per volontà propria della civitas, magari in collaborazione, tutt’al più, con il feudatario. È plausibile anche la tesi che la comunità abbia voluto dotarsi di una fortificazione per difendersi, oltre che da nemici esterni, dallo stesso signore. La presenza sia della porta vicino l’abside della chiesa di S. Bartolomeo che separava l’insediamento abitativo dall’area di pertinenza del castello, sia della torre prossima denominata Terzana la quale è “scudata” con la rotondità rivolta verso l’abitato munita di foro per l’alloggiamento della bocca del cannone, è un indizio che avvalora l’ipotesi formulata. Dunque la popolazione campobassana ha un duplice sistema difensivo, uno nel margine inferiore della città per proteggersi durante i conflitti con potenze forestiere e una nel segmento del perimetro urbanizzato superiore negli scontri, ovvero sommosse popolari, contro la guarnigione agli ordini del titolare del feudo.

La città ha una pianta conica, la linea che segue il confine sopra è corta, sotto è lunga. Il disegno dello sviluppo planimetrico si presta per uno schema a raggiera della viabilità con le arterie stradali, i raggi, che convergono verso l’alto, distanziandosi fra loro andando verso il basso. Tale morfologia della planimetria che richiama la sezione longitudinale di un cono fa pensare e non si sbaglia a farlo ad un inviluppo della superficie cittadina che ha quale punto focale il castello. Quest’ultimo funge da attrattore delle percorrenze del borgo per le sue funzioni di centro direzionale. In qualche modo, si obietterà, si sta contraddicendo quanto detto al principio circa l’autonomia del nucleo urbano della rocca ed è vero, ma è vero fino ad un certo punto e quel punto è, in effetti, una riga o, meglio, striscia di territorio, quella occupata da un asse viario più tardo che congiunge porta S. Paolo a porta S. Antonio Abate. A questa altezza, in verità si dovrebbe dire bassezza perché siamo nella fascia più bassa dell’agglomerato murato, si verifica una autentica rivoluzione nell’andamento delle strade le quali sono le vie Ziccardi e S. Antonio Abate, che corrono lungo la isoipsa ma ci ricomprendiamo anche via Cannavina pur se essa ha l’ambiguità di essere la prosecuzione di via Chiarizia la quale cammina ortogonalmente alle curve di livello. Il polo cui si indirizzano non è ormai, siamo alla fine del medioevo, il maniero posto in cima al colle bensì la piazza posta nel piano. Essa significativamente è omonima della chiesa arcipretale che vi insiste; significativamente in quanto nel medesimo slargo affaccia il fronte laterale della nuova residenza del feudatario che aveva nel frattempo traslocato dal castello essendo venuta meno la necessità di fortificarsi, siamo nel periodo vicereale. Però la dimora nobiliare pur piegandosi a L per dar spazio alla piazza non colloca il suo ingresso su tale slargo altrimenti forse quest’ultimo si sarebbe chiamato Largo del Palazzo. È da dire che è l’unica piazza presente nel centro storico la quale per la sua sufficiente ampiezza riesce a contenere le assemblee civiche. Senza tale piazza Campobasso sarebbe rimasta acefala, la testa le era stata tagliata avendo perso la struttura castellana qualsiasi ruolo; testa nel senso di organo decisionale come nel corpo umano e come in esso situata alla quota più elevata dell’organismo, adesso, insediativo. Il collo è rappresentato dal lungo declivio disabitato che distanzia la rocca dall’inizio, partendo da su, dell’aggregato residenziale. In definitiva, l’assetto urbano sarebbe incompleto senza un luogo o edificio che sia per lo svolgimento di attività di interesse collettivo, ieri come oggi, lo prevede la vigente normativa urbanistica; per di più piazza S. Leonardo è nel baricentro dell’ambito abitativo. La polarità è in continua migrazione, dal castello sede del potere militare alla piazza S. Leonardo in cui si assommano il potere religioso e quello governativo e da qui alla piazza del mercato, attuale piazza Prefettura, che è il sito del potere economico che è extramoenia. Al di là delle mura stanno pure, ai due lati brevi contrapposti, le chiese di S. Antonio Abate e di S. Paolo intorno alle quali si erano andate raggruppando abitazioni, dei minuscoli quartieri e, perciò, anche esse dei fulcri sia pure minimali i quali hanno l’effetto di mitigare la tendenza alla polarizzazione centrata sulla piazza S. Leonardo.

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È da notare che ambedue queste chiese fuori porta sono collocate fuori 2 porte cittadine le quali prendono nome da esse. Pure la piazza mercantile è subito al di fuori di una porta, immediatamente adiacente com’è alla Porta Maggiore. Tutto ciò lascia dedurre che le entrate svolgano un ruolo primario nell’organizzazione urbana, posti di addensazione di case e di locali commerciali e artigianali, per certi versi costituiscono dei micropoli decentrarti. Finora si è condotta la lettura dell’impianto urbanistico assumendo quale determinante della forma urbis l’ubicazione delle funzioni direttive, gli elementi primari sono, in precedenza, il castello e, in seguito, la piazza comunale, proponiamo ora una differente interpretazione della configurazione della città. La figura del ventaglio che richiama la pianta induce a presupporre una crescita a macchia d’olio, con il liquido oleoso, per rimanere nella metafora, il quale, è l’edificazione che si espande progressivamente dal vertice del monte S. Antonio in cui c’era il nucleo originario sul versante allargandosi proprio come fa una macchia, man mano che si scende giù. Tale processo di sviluppo, peraltro tipico in età contemporanea, del’agglomerazione deve essere stato arrestato, figurativamente, dalla cortina muraria fin quando ha potuto, fino all’abbattimento della Porta Maggiore, dopo di che si è avuto il dilagare della predetta sostanza olearia che è metaforicamente l’edificato nella zona dove sorgerà il sobborgo extramurario. Il piano di Musenga per il Nuovo Borgo sembra mirare ad impedire una diffusione incontrollata priva di qualsiasi regola formale, degli edifici e riprodurre qui la congestione edilizia che si è avuta nel borgo antico dovuta ai fabbricati che si affastellano l’uno sull’altro riempiendo ogni vuoto salvo quello coincidente con piazza S. Leonardo senza verde pubblico. 

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5 - Il Castello Monforte

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6 - Il centro storico
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