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MUSEO DIFFUSO DI CASALCIPRANO

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museo diffuso

Questo Comune è stato l’antesignano della costituzione di raccolte etnografiche insieme al Comune di S. Pietro Avellana in provincia di Isernia e al Comune di Bonefro a ridosso del Basso Molise. All’inizio si trattava di allestimento di mostre temporanee nel periodo estivo; ogni anno, per numerosi anni, veniva trattato un tema diverso, dal costume femminile alla superstizione al lavoro contadino, e diverse sono state pure le sedi espositive, in paese e una volta, rispettivamente, in una borgata agricola ormai disabitata e in un “casino” signorile. È stato sempre il Comune ad organizzare queste manifestazioni, seppure con l’ausilio sostanziale di volontari, e ciò si è potuto verificare, cioè il fatto che l’amministrazione comunale si impegnasse direttamente in un settore un po’ a lato rispetto ai compiti istituzionali principali, perché uno studioso appassionato di antropologia per molto tempo ha fatto il Sindaco, Francesco Miranda. C’è da evidenziare, a proposito di quanto detto, due cose: la prima delle quali è che sono state le mostre a portare alla nascita del museo, che, dunque, è frutto di un lavoro annoso e non un’iniziativa frettolosa, la seconda è che più che l’orgoglio civico è stato l’interesse dei cittadini per la storia della propria comunità, lo dimostra l’impegno di tanti, a portare alla creazione i questa realtà museale. Forse è stato possibile il coinvolgimento della popolazione in quanto il museo si presenta come un luogo della memoria, documentando un passato, quello della civiltà rurale, molto vicino a noi. Le mostre, e pure quanto spiega, sia pure in parte, l’avvio del processo che ha portato alla formazione del museo, si sono potute tenere poiché a Casalciprano nel medesimo periodo l’amministrazione comunale aveva portato a termine l’acquisizione e il restauro di un palazzo ottocentesco, il palazzo Montalbò, il quale diventa il «contenitore» che ospiterà diverse edizioni delle esposizioni folcloriche. Se esso risulta idoneo per una mostra, anche perché vi è all’interno spazio pure per un convegno, lo è meno per un’azione mirante alla musealizzazione di reperti della tradizione popolare.

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Infatti esso è un esemplare di architettura aulica, fatto in qualche modo in contrasto con gli oggetti semplici messi in mostra. Si corre, in definitiva, in casi simili il rischio di decontestualizzare dei materiali esposti rispetto al contesto originario, anche se vi è il vantaggio, come dimostrato proprio dal palazzo Montalbò, di avere a disposizione locali per conferenze date le dimensioni consistenti dei vani  del’edificio. Dalle mostre si è passati, senza alcuna soluzione di continuità, al museo. Quest’ultimo occupa più case del centro storico, sempre fabbricati piccoli, ed è, per tale ragione, uno stimolo a visitare il nucleo antico del paese, un po’ come succede, per intenderci, in altri comuni con il Presepe Vivente ambientato solitamente nella parte più vetusta dell’insediamento, scenografia ideale per tali manifestazioni. L’organizzazione del museo, inoltre, ha comportato il recupero di diversi manufatti altrimenti destinati all’abbamdono essendo in punti dell’aggregato urbano non raggiungibili con l’auto; in particolare si è avuto il riutilizzo dei vani terranei destinati a servizi, altrimenti oggi difficilmente impiegabili per scopi diversi. Il museo, va detto, non è formato elusivamente da una sommatoria di dimore tradizionali, alla stregua di sezioni dell’organismo museale, ma è costituito dall’insieme del borgo.

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La visita a questo museo comporta una serie di percorrenze, i vicoli che sostituiscono i corridoi, e di soste, le varie unità abitative occupate dalle raccolte, le sale di un classico museo. Qui si è accettata l’assenza di continuità espositiva, ritenuta necessaria nella museografia per evitare che il visitatore si distragga, anzi viene esaltata questa frammentazione del percorso di visita; le persone, così, vengono in contatto con il contesto in cui si inseriscono le case nelle quali, a loro volta, si inseriscono gli oggetti della tradizione. Va, poi, considerato che la vita di un tempo si svolgeva in parte all’esterno dell’uscio di casa per cui molti di quegli oggetti li si poteva incontrare in alcune ore del giorno al di fuori dell’abitazione. Le musealità che si perseguono normalmente nelle raccolte etnografiche sono due, quella della raccolta stessa e quella dell’immobile in cui è collocata, anch’esso di valenza folclorica, qui diventano 3 aggiungendosi quella del contorno urbano alle costruzioni adibite a museo. Se si osserva la dispersione, sia pure contenuta, delle sedi museali dal punto di vista del visitatore vi è il duplice vantaggio che egli può operare una scelta individuale sulla durata della visita e che non è obbligato a seguire un itinerario rigido, quale è la successione delle sale in un museo ordinario, mentre se si prende in considerazione la visuale del cittadino di Casalciprano si vede il legame forte che si instaura, inevitabilmente, tra la sua vita quotidiana  e il museo. Egli avverte un maggiore attaccamento al luogo di residenza se non orgoglio nell’abitare spalla a spalla con un museo superando quel sentimento di inferiorità connesso al vivere in un centro cosiddetto minore. Casalciprano è un paese in cui la fisionomia di origine è ben conservata, nonostante lo svuotamento di molte case a causa dell’emigrazione, ragion per cui non si prova alcun senso di contrasto tra la raccolta museale e ciò che sta intorno e, anzi, è consentito parlare di una fusione felice.

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Il centro storico si sta trasformando in un museo di sé stesso, non solo perché il costruito funge da sede museale, ma anche attraverso uno sforzo di musealizzazione riguardante gli spazi aperti (strade, slarghi, ecc,). In differenti luoghi sono stati installati “statue” di materiale plastico durevole in scala 1:1 raffiguranti persone intente a svolgere qualche attività, anche ludica come i giochi tradizionali (ovviamente per questi le statue rappresentano bambini). È per un verso, una sorta di teatralizzazione alla stessa maniera delle rappresentazioni in costume, questa volta non viventi, bensì cristallizzate, per un altro verso, le statue, specialmente quando riproducono figure ferme riverse nella loro postazione lavorativa, sono una specie di sostituzione dei manichini nei quali ci si imbatte nei musei che, però, non possono stare all’aperto in quanto deperibili. Queste statue, isolate o in gruppo, servono pure per annunciare a chi viene a trovarsi a Casalciprano l’esistenza del museo, una specie di segnali esterni e per alcuni hanno il significato di restituire all’ambiente  urbano delle presenze di fattura umana che, purtroppo, si sono rarefatte. 

IL CENTRO STORICO DI CASALCIPRANO

Il centro storico di Casalciprano
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Le gerarchie territoriali sono mutate nell’ultimo mezzo secolo, ma permane sempre una struttura gerarchica tra i vari centri. Se prima Casalciprano gravitava su Frosolone per i servizi scolastici secondari, l’assistenza sanitaria specialistica, le attività commerciali, in seguito questo comune si è venuto a rapportare maggiormente con Boiano, più distante anche se più fornito di attrezzature; oggi il capoluogo regionale sta diventando il polo di riferimento privilegiato. I motivi di questo cambiamento sono stati, sicuramente, la realizzazione di nuove arterie viarie, la Bifernina in precedenza e di recente la Rivolo che collega velocemente con Campobasso. Le suddette strade hanno colmato una carenza atavica, quella dei collegamenti carrabili, togliendo dall’isolamento gli agglomerati edilizi, almeno della media valle del Biferno. Man mano pure relazioni di lunga durata come quella con Frosolone e con Trivento, la sede della diocesi si sono venute a ridurre d’intensità. È da dire che ovunque nel Molise si riscontra pur nella polverizzazione del sistema insediativo la presenza di polarità urbane principali quali fulcri del sistema insediativo. Ciò si spiega con il fatto che l’economia agricola è stata in passato basata sull’autoconsumo e non sul mercato per cui i nuclei abitativi erano (e sono) piccoli, dimensionati rispetto al suolo coltivabile a disposizione degli abitanti che lo devono raggiungere a piedi, e questo fatto impedisce la formazione di aggregati molto consistenti. Gli insediamenti sono minimi, al di sotto dei 1000 residenti, anche se distribuiti nell’area in questione in modo diffuso poiché storicamente vi è stata una completa utilizzazione a fini agrari dei terreni. Lungo la vallata di questo fiume, perlomeno nel tratto in cui ricade Casalciprano, quello mediano, i paesi e, di conseguenza, la viabilità, ci stiamo riferendo a quella preesistente alla costruzione delle infrastrutture moderne, si dispongono sulla fascia collinare.

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Essi sono allineati fra di loro, posizionati come sono alla medesima quota, a formare una sequenza regolare. Si configura una sorta di catena formata da borghi distanziati fra loro di una lunghezza analoga; essa è abbastanza estesa comprendendo Colledanchise, Casalciprano, appunto, Roccaspromonte, Castropignano, Limosano. È da rilevare che tale modalità di urbanizzazione si coglie pure nel versante opposto del bacino idrografico, anche qui gli abitati sono concentrati in una stretta striscia di territorio di collina, ma ancorché i paesi dei due distinti lati del corso d’acqua siano planimetricamente vicini essi, per le difficoltà di percorso, specie per l’attraversamento dell’alveo fluviale, non erano collegati fra di loro. I centri urbani prediligono nell’ubicazione il colmo dei colli perché luogo più difendibile e a  Casalciprano è ancora ben riconoscibile quello che doveva essere il perimetro delle antiche mura per

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non si ha edificazione ai margini salvo una palazzina di edilizia residenziale pubblica frutto, quindi, di un programma costruttivo regionale coevo. Mentre in questo ambito la fisionomia urbanistica è comprensibile con nettezza, anche perché di tipo lineare conseguenza com’è del passaggio delle strade supercomunali, nel resto dell’aggregato abitativo la configurazione è molto più articolata, sia per quanto riguarda il sistema viario sia per il costruito. A contribuire a questa complessità di sicuro sono stati i frequenti terremoti, siamo in zona di sismicità elevata, che possono essere stati la causa della distruzione del castello del quale non vi è alcuna traccia se non l’ampio vuoto presente all’interno dell’isolato prossimo alla chiesa parrocchiale che discende fino a via Giardini. Siamo nel punto più alto del centro urbano, definibile acrocoro perché qui il colle spiana; a far presupporre che in tale sito vi sia stato la struttura castellana è tanto la dimensione dello spazio aperto di questo isolato, davvero sorprendente se si pensa al resto dell’agglomerato storico composto da isole edilizie estremamente compatte quanto la contiguità con l’architettura religiosa, il potere politico (e militare) e quello ecclesiastico congiunti. Non è vero, comunque, che senza la residenza feudale, con l’eccezione delle chiese, tutto sia edilizia popolare individuandosi pure a Casalciprano manufatti di pregevole fattura, frutto di una colta tradizione architettonica, in particolare i palazzi Montalbò, Chiunco e Antonecchia i quali si pongono in interessante dialettica con la cosiddetta architettura spontanea, molto più minuta. Questi palazzi che risalgono all’Ottocento non vanno letti quali semplici episodi, bensì come un diverso strato del sistema insediativo che è costituito da più fasi edificatorie, evento storico dopo evento storico, terremoto dopo terremoto, durante le quali il paese si è rimodellato, conservando, ad ogni modo, l’impianto seppur rinnovato a dimostrazione della sua grande forza di permanenza.

via dell’impianto viario “a guscio” che ne segue il percorso; è l’elementarietà dello schema urbanistico il quale permette una chiara lettura a rendere ben evidente la posizione dell’originaria cinta muraria della quale non rimangono resti in quanto, magari, ad essa si sono sovrapposte abitazioni sfruttando quali fondazioni proprio il basamento della murazione. Il tracciato stradale che sembra ripercorrere tale recinzione fortificata è quello che comprende via Maddalena, piazza S. Maria, via Giardino passando per Porta Mancina, e si conclude in largo Municipio. Vi sono, poi, due sobborghi, anch’essi di antica datazione, affiancati, ai due vertici opposti, al nucleo originario; ambedue possono essere considerati appendici sviluppatesi intorno ad altrettanti luoghi di culto, la chiesa di S. Maria detta del Giardino con il bellissimo portale in stile romanico al quale è sovrapposto un rosone la cui cornice, con interventi recenti, è sagomata in cemento e l’altra di S. Pietro della quale si tramanda solo il toponimo, prossima a quella tutt’ora esistente di S. Rocco, cappella che sorge fuori dell’abitato perché destinata per seppellire i morti della peste del XVII secolo. Pure nella località Maddalena (un nome che chiaramente rimanda a questa santa e che costituisce l’indizio della presenza di una chiesa) alla quale conduce l’omonima strada che è presumibile sorga sul perimetro della fortificazione e, quindi, ai limiti dell’abitato vi è un raggruppamento di case; siamo lungo il terzo fianco dell’insediamento medioevale al quale fa da contrappunto, quasi, nella direzione contrapposta una appendice urbana di epoca novecentesca.  Quest’ultima è avvenuta lungo la diramazione della strada provinciale che serve il paese la quale funge da elemento attrattivo alla stessa maniera degli edifici di culto di cui sopra. Sull’altro braccio viario di collegamento extraurbano che porta alla fondovalle Biferno, opera degli anni ’70, poiché probabilmente troppo recente

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CASALCIPRANO TRA ARTE URBANA E MUSEO DIFFUSO

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Il progetto si articola in due filoni, quello del museo diffuso e quello dell’arte urbana. I due settori sopraddetti sono strettamente collegati fra di loro in quanto nel primo abbiamo la conservazione di oggetti della tradizione popolare in vani di abitazioni della parte antica dell’abitato e l’allestimento all’esterno di quadri di vita tradizionale attraverso manichini di dimensione umana realizzati in una particolare lega, mentre nel secondo si è intervenuto su diverse facciate del medesimo settore dell’abitato con la creazione di pitture murali, opera di artisti contemporanei, che traggono ispirazione da aspetti della società del passato. Queste distinte operazioni, legate come si è detto da un filo concettuale comune, sono avvenute in momenti diversi, nell’arco di circa 20 anni, ma nello stesso tempo senza interruzioni significative. Per quanto riguarda gli obiettivi perseguiti essi sono molteplici dalla rivitalizzazione del centro storico al rafforzamento dell’identità comunitaria. Il progetto che si è definito così come si presenta, una volta raggiunta la sua configurazione pressoché finale, nel corso di circa 2 decenni si è posto l’obiettivo ambizioso di dare una nuova vita al centro storico. Infatti la visita al museo

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diffuso e il percorso che raggiunge le varie raffigurazioni parietali sono un’occasione per comprendere, attraverso gli spostamenti che il turista deve compiere, la configurazione e le singole peculiarità dell’aggregato insediativo di origine medioevale. Obiettivi non secondari sono quelli di: riqualificazione dell’immagine urbana, in specifico degli spazi pubblici, una sorta di intervento di arredo urbano, e ci si sta riferendo ai dipinti sui fronti dei fabbricati e ai gruppi scultorei posizionati in slarghi abbastanza informi dell’insediamento, rivitalizzazione del patrimonio edilizio, almeno di quei locali posti a piano terra nati per essere stalle o depositi e che oggi hanno perso la ragione d’essere iniziale; recupero della memoria collettiva sia preservando gli oggetti d’uso comune e gli attrezzi da lavoro, non solo quello agricolo, appartenenti alle famiglie del luogo per i componenti delle quali più anziani costituiscono un ricordo dei propri antenati. A proposito degli effetti prodotti ci sono varie considerazioni da fare sia sui risvolti «materiali» che su quelli «immateriali». Il senso di orgoglio delle comunità per il proprio paese è stato certamente uno dei maggiori risultati del lavoro svolto. Esso non è  misurabile in termini quantitativi essendo un elemento, quello del sentimento di appartenenza, non determinabile con indicatori numerici, ma nel contempo è sensibilmente cresciuta la consapevolezza di vivere in un luogo “importante”, non in un posto degradato. Altro risultato è l’afflusso di visitatori, tra i quali vi sono le scolaresche provenienti da varie zone della regione, che è, nonostante che l’iniziativa condotta non sia più una novità, rimasto costante; visitatori interessati tanto all’antropologia, il museo diffuso, quanto alle espressioni artistiche sui prospetti dei fabbricati. Inoltre, è sorta un’attività ristorativa che sembra essere il giusto complemento alle attrattive offerte, l’enogastronomia rappresentando un campo fondamentale nelle strategie di sviluppo turistico. Ciò che è stato messo in campo a Casalciprano rientra sicuramente in quello che si chiama sviluppo territoriale sostenibile. 

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Il Molise ha orientato ormai da decenni le sue strategie territoriali sulla valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici. Si tratta di visioni strategiche articolate, avendo puntato, da un alto, che è quello delle emergenze storiche e naturali maggiori (Altilia, Pietrabbondante, il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, ecc.) sulla «competitività», quindi su una sorta di sfida con altre località di rinomato valore, e, dall’altro lato, sulla “coesione” cioè sul mantenimento degli attuali livelli demografici ed economici sfruttando le risorse locali che sono non singoli episodi bensì l’insieme che li ricomprende, cioè il paesaggio il quale qui è sufficientemente integro. Per molti versi l’iniziativa di valorizzazione del centro storico di Casalciprano può essere assunta quale esempio per altri piccoli centri. Il progetto è stato per l’epoca in cui è stato impostato del tutto innovativo ed esso ha rappresentato una novità assoluta nelle politiche di messa in valore dei borghi tipici nel panorama molisano. Successivamente, siamo ai nostri giorni, esso può essere considerato il fatto ispiratore di proposte simili come quella del comune di Roccamandolfi che ha quale tema il brigantaggio e quella di Civitacampomarano centrata sui murales. Ad ogni modo, ciò che si vuole

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trasmettere non è la ripetitività, ma la ricerca di soluzioni improntate da originalità, calibrate sui diversi contesti. Forse esso è esemplare, piuttosto che per l’idea, per il suo formarsi gradualmente sulla spinta di un crescente interesse da parte di amministratori e cittadini poiché non è apparso di colpo, frutto di estemporaneità, bensì è venuto a prendere forma in più steps. Il coinvolgimento della comunità locale se non altro per aver messo a disposizione le pareti delle proprie case e l’aver consentito l’utilizzo di una parte di esse per il museo diffuso è il segno di un interesse della popolazione per il patrimonio ambientale. Il recupero del patrimonio edilizio è un obiettivo primario, seppure non sempre espresso, bensì sottinteso nella programmazione dell’amministrazione regionale. Se si tiene conto, poi, che i piccoli Comuni sono i luoghi di vita di ceti sociali con livelli di reddito non elevato, l’intervento a favore di questi centri può essere considerata una delle forme di sostegno a questo strato di popolazione insieme alle altre politiche socio-economiche dello Stato, dall’inizio degli anni ’70, nelle linee programmatiche regionali è quello del mantenimento della presenza umana nel circondario rurale in cui ricadono i piccoli borghi in modo da assicurare la manutenzione del territorio attuata con attente pratiche agricole.  Quanto realizzato a Casalciprano deve essere ritenuto il frutto, piuttosto che l’innesco di un processo di sensibilizzazione sulle tematiche ambientali, in quanto in questa regione è da molto che si dibatte sulla valorizzazione dell’ambiente. Ciò che va ascritto a merito di quanto è stato costruito a Casalciprano è di aver reso concreto, per così dire visibile, ciò di cui si è tanto parlato. L’aver, poi, affrontato la problematica della cultura popolare è qualcosa che ha un respiro europeo perché c’è una sostanziale unità culturale tra le classi minori in giro per il continente, in contrapposizione all’egemonia di tipo culturale delle classi dominanti (vedi G. Galasso «L’altra Europa»).

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ARTE URBANA A CASALCIPRANO
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 L’arte urbana va intesa come un tentativo di valorizzazione del centro storico (non fosse altro perché richiama visitatori) e, pertanto, le pitture murali hanno poco a che vedere con la cultura dei graffiti, i quali, invece, servono a dar voce al disagio di minoranze giovanili; non fosse altro che esse sono state finanziate con fondi pubblici e che a coordinare il lavoro degli artisti è stato il  prof. Canova dell’Università degli Studi del Molise. La street-art è diversa dagli altri movimenti artistici innanzitutto perché non riceve sovvenzioni da parte di enti né si avvale di sponsorizzazioni. Mentre i writers occupano pareti con le loro opere senza chiedere alcun permesso, clandestinamente, spesso lavorando di notte per non essere scoperti, addirittura contro la volontà dell’amministrazione locale, coloro che hanno prodotto gli affreschi sulle facciate di vari edifici di Casalciprano sono stati, al contrario, invitati dal Comune che, è ovvio, ha condiviso la decisione con i proprietari delle case prescelte.Si  tratta di veri e propri pittori, quelli che hanno operato qui, i quali ben gradiscono vedere una loro creazione figurativa in una sala di museo o in una galleria, cosa che gli artisti di strada, invece, rifuggono.

Questi ultimi producono nell’anonimato, fatto che li distingue con decisione dagli altri artisti. Un aspetto è comune ed è quello che le produzioni di ambedue sono concepite per quello specifico luogo, per quella determinata parete per cui l’eventuale distacco dalla stessa al fine di trasferirla in uno spazio museale ne produrrebbe la decontestualizzazione e, con essa, la perdita di significato. I murali di Casalciprano si integrano con gli elementi di facciata, con le bucature, specie finestre e, meno di frequente, balconi poco presenti nelle case tradizionali e con le porte in quanto stanno in alto. Essi non sono serviti per coprire le «bruttezze», magari le opere in calcestruzzo di sostegno di strade o qualche manufatto di servizio, per giunta abbandonato, e neanche per accrescere la “bellezza” dei fronti edilizi, bensì per dare un tono nuovo all’abitato che non può che essere temporaneo, rientrando in una logica, lo si è detto all’inizio, di valorizzazione che, nel caso specifico è di richiamare l’attenzione sul nucleo antico e non di cambiare i connotati, se non per breve tempo.

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In altri termini, se si fosse voluto puntare sulla riqualificazione estetica, allora si sarebbe dovuto intervenire in ambiti periferici dove pure nei borghi minori vi sono fatti costruttivi incongrui dovuti, mettiamo, al passaggio di una infrastruttura viaria moderna o alla realizzazione di qualche capannone, ad ogni modo i murales contribuiscono ovunque ad aumentare la vivibilità. I murales permanenti sono appropriati per le pareti esterne degli ospedali, alla nostra scala dei poliambulatori, e delle scuole al fine di rendere tali luoghi più attraenti e creare un clima più gioioso, specialmente per i bambini; il loro carattere di componente duratura del fabbricato non esclude, comunque, che negli anni essi possano essere sostituiti, cancellando i precedenti com’è nella natura stessa dei graffiti, arte effimera per eccellenza. A causa della loro temporaneità non si è pensato di dover redigere un piano, che preveda o meno il concorso dei proprietari, per la loro conservazione, quale sarebbe potuto essere un programma di pulizia delle superfici dei murali con cadenza periodica: di consolidamento degli intonaci in relazione al materiale di cui sono costituiti, e di protezione dagli agenti atmosferici in dipendenza dall’esposizione dei fronti (ad esempio, a nord). La preoccupazione maggiore è quando l’edificio viene abbandonato seppure si esclude il rischio che venga demolito.

Un problema che qui, di certo, non si pone dato il coinvolgimento della comunità nell’operazione è quello dei vandali, i quali, del resto, avrebbero difficoltà a distruggerli in quanto, lo abbiamo accennato, stanno nella parte superiore delle facciate. Sono ormai trascorsi alcuni anni dal completamento di quest’opera che ha avuto la caratteristica di un’azione unitaria, seppure i dipinti sono disposti in punti distinti dell’abitato (producendo addirittura un affollamento di murali in rapporto all’estensione del borgo), ed adesso è necessario darle un prosieguo. Potrebbe essere un’occasione di animazione della società locale l’organizzazione di workshop di pittura sui muri nei quali accanto a professionisti si potrebbe dar spazio, nel senso letterale del termine, a volontari com’è nello spirito del graffitismo, stimolando alla partecipazione pure i giovani del posto. Giovani sì, poiché essi sono sensibili ad espressioni artistiche di tipo «surrealista», la stessa dei tatuaggi. Tutto ciò per continuare quanto finora messo in campo per la valorizzazione del centro storico che non è solo i murales in quanto vi è anche l’interessantissimo museo diffuso. Ambedue le iniziative (per quanto riguarda il museo, se pensiamo ai gruppi statuari posti all’aperto) hanno riguardato gli spazi urbani determinando uno stretto rapporto tra arte e strada. Le aree pubbliche sono state interessate anche dal rifacimento delle pavimentazioni con l’utilizzo della pietra e dell’illuminazione cittadina con lampioni «in stile».

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Per quanto riguarda l’edificato il Comune ha effettuato il restauro di un palazzo storico, dopo averlo acquisito dagli eredi della famiglia Montalbò, ed acquisito diversi vani nella zona storica trasformandoli in locali museali; il privato ha dato anch’esso un contributo trasformando due unità edilizie di consistenti dimensioni in strutture turistiche. L’autorità ecclesiastica ha provveduto a restaurare la chiesa parrocchiale. Oltre a ciò non c’è molto altro. È necessario nel prossimo futuro un forte impegno dell’amministrazione a favore della ristrutturazione edilizia cominciando con la redazione di un piano di recupero. In coerenza con lo sforzo fatto per gli affreschi parietali si dovrà procedere, tornando al tema della riqualificazione dell’immagine urbana, pure alla stesura di un piano del colore frutto di uno studio attento capace di riconoscere le peculiarità dei vari corpi edilizi senza pensare di imporre modelli di facciata uniformi, o tutt’al più con alcune varianti. È un impegno gravoso, molto simile a quello che ha preceduto la scelta delle pareti sulle quali dipingere i murales, in quanto l’architettura popolare, che è quella che connota la quasi totalità degli edifici della zona più vecchia di Casalciprano, è poco riconducibile a schemi compositivi prefissati. Non è gratuita completamente l’affermazione che per le case dei contadini si debba parlare di edilizia spontanea. Forse proprio questa mancanza di regole definite nella configurazione architettonica ha permesso agli artisti di poter esercitare una qualche libertà espressiva, una propria interpretazione delle facciate.                          

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