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A PROPOSITO DI ARCHEOLOGIA

1 - L'archeologia

altili, anfiteatro

L’archeologia è un campo estremamente vario, sia per la datazione delle testimonianze sia per la loro diversità, diciamo così, tipologica. Per spiegare meglio questo secondo concetto si prenda il caso limite dell’impianto urbanistico il quale di per sé, cioè al di là dell’edificato, costituisce una memoria della civiltà che lo ha prodotto; ciò è valido specialmente per i centri di origine romana i quali sono il frutto di una precisa pianificazione. Per giungere subito ad una conclusione o meglio per esplicitare dove si intende giungere si invita a riflettere sulle due città romane di Boiano e di Altilia, l’una in cui sopravvive solo lo schema viario, l’altra nella quale la rete stradale si è conservata insieme agli isolati abitativi e alle attrezzature pubbliche, ovvio allo stato di rudere, che essa era destinata a servire: nella cittadina matesina occorre tutelare la viabilità della parte antica, anche se in verità non vi sono minacce di una sua alterazione. Quella di Boiano è una pianta di tipo ippodameo davvero rara di cui il precedente più noto è la greca Priene, perché impostata su un pendio accostato al versante del colle di Civita S. e non in una superficie pianeggiante, mentre ad Altilia la maglia ad assi ortogonali, caratteristica di tutte le città coloniali e Saepinum è una colonia di Roma, che è per sua natura indifferenziata nel tempo si è avuta la formazione di una gerarchia tra il decumano, il quale diventa il percorso principale, e il cardo.

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Terventum, secondo Matteini Chiari, è ancora più singolare perché avrebbe il decumano, l’odierna via Roma, in pendenza. I tracciati viari dei quali va preservato il disegno, piuttosto che la pavimentazione originaria la quale spesso non c’è più, rappresentano qualcosa a confine tra patrimonio “materiale” e “immateriale”; immateriale è sicuramente la toponomastica per cui la perdita del toponimo « ponte dei liguri », anche a causa dell’eliminazione del cartello segnalatore del ponte ferroviario presso il bivio di S. Polo, è la perdita di un pezzo di patrimonio culturale. A seguito delle guerre civili tra il 44 e il 31 a.C. che sconvolgono lo stato romano e che portano distruzione nel Sannio si ha con Augusto l’assegnazione delle nostre terre a gente proveniente dalla Liguria che, secondo alcuni storici, è composta da deportati dalla città di Luni la quale si era ribellata a Roma e, per altri, di veterani della undicesima legione (da cui Bovianum Undecanorum) ai quali per ricompensa delle campagne belliche veniva dato terreno da coltivare, anch’essi liguri come quelli della Lunigiana. Si è avuta in quell’epoca una trasformazione radicale del territorio molisano della quale la denominazione ponte dei liguri costituisce un ricordo. 

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Continuando ad esaminare casi particolari di tutela archeologica si passa agli inserti di pezzi lapidei antichi nelle facciate di edifici prevalentemente ottocenteschi e qui il campionario si fa molto esteso; vi sono poi le collocazioni di reperti, specie quelli di carattere monumentale, in spazi pubblici a scopo ornamentale se non scenografico come la testa del Dio Oceano in una fontana all’ingresso di Sepino, un’ara nell’area a verde prossima al tribunale di Isernia, rocchi di colonne nel giardino sottostante al municipio di Boiano. Passiamo adesso al bene archeologico che possiamo definire normale e per far ciò è utile introdurre alcune categorie: nel Molise vi sono le condizioni per la creazione di un parco archeologico ad Altilia (ci si è provato negli anni ’90 con i fondi FIO) e il riconoscimento di un complesso storico-monumentale a S. Vincenzo al Volturno, ambedue istituti previsti dal Codice dei beni culturali. Nella nostra regione ci sono pure gli estremi, sulla base degli studi del prof. Quilici, per identificare un paesaggio culturale e ciò avviene tra Casacalenda e Montorio dove c’è l’antica Gerione. Il patrimonio archeologico regionale è molto vario sia per datazione sia dal punto di vista della natura del bene; abbiamo così recinti fortificati realizzati dai sanniti, una città romana, santuari italici, ville rustiche di età imperiale, torri (quella sopra m. S. Nicola a Pescopennataro), sponde superstiti di ponti romani (a Limosano sul Biferno e il ponte Latrona a Monteroduni), anfiteatri voluti dai romani (a Larino e il Verlasce di Venafro), lastricati viari (quello di Boiano con grandi blocchi lapidei poligonali) sempre dovuti ai romani, acquedotti realizzati dai romani dei quali se ne sono conservate le tracce sotterranee di uno a Rocchetta al V. e a Venafro che trasportava le acque di Capo Volturno, il porto della mitica Buca al largo di Termoli che forse, però, è una fortificazione aragonese. Vi sono, inoltre, risalenti a fasi della nostra storia antichissima le costruzioni con tetto in pietra, una tecnica che si può definire senza tempo, sopravvissute nell’agnonese dove si utilizzava l’arenaria e nei comuni intorno alla Montagnola in cui il materiale lapideo è il calcare scistoso e le chiese rupestri, quella di S. Angelo in Grotte, prima probabilmente sede di qualche culto pagano. 

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Vi è un campionario vasto di sepolture che va dalle autentiche necropoli di Campochiaro e di Guasto di Castelpetroso risalenti alla preistoria, alle tombe scavate nel travertino il quale ha favorito per la sua lavorabilità la creazione di sepolcri a S. Vincenzo al V., anche a più piani, ad una necropoli lineare, non più areale come quella citata sopra allineata alla via Minucia all’uscita di porta Boiano di Altilia, località in cui sono presenti pure alcuni mausolei monumentali, ad un masso roccioso trasformato in sarcofago, di Ovio Piaccio, a Belmonte del Sannio. La rete tratturale è diventata dal punto di vista legale bene archeologico nel 1976 in base a notifica sopraintendile. Negli ultimi tempi si è avuta una vera e propria proliferazione di ritrovamenti archeologici sia perché si è esteso l’interesse ai manufatti minori sia perché fino agli anni ’90 la legge non imponeva la presenza di un archeologo nei cantieri. Dalla esecuzione dei lavori del metanodotto Campochiaro-Biccari sono emerse opere interrate. Si tratta di archeologia preventiva che evita interventi emergenziali di salvataggio. L’esperienza dei campi eolici ha portato alla scoperta di comprensori archeologici finora poco indagati il cui perimetro ed entità degli oggetti non sono ben definiti. Mentre in passato, a partire dall’Inchiesta Murattiana che risale ai primordi dell’interesse per l’antichità, si andava alla ricerca di eventuali opere d’arte più che allo studio delle civiltà che ci hanno preceduto ora il campo di indagine si è ampliato giungendo perfino all’utensileria minuta. Si è affermata, poi, la ricerca stratigrafica della quale, in verità, non si è tenuto conto nel portare alla luce il tratto di strada consolare a Boiano.

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2 - Il patrimonio archeologico
2 - Il patrimonio archeologico
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Il patrimonio archeologico molisano e l’ambiente, un rapporto difficile, sia che si tratti di quello sannita sia di quello romano. Quella di Roma, partiamo da questa, è una civiltà di pianura e alcuni centri di tale epoca sorti in aree pianeggianti, una volta terminata l’età imperiale, hanno subito una fase di decadenza, Saepiunum addirittura scompare, a causa delle divagazioni dei corsi d’acqua, si sa che l’alluvionamento è tipico delle piane, non più regimentati. Se ciò è stata la causa della morte, nel senso di città morte, prive di abitanti, di questi centri esso ha però, in qualche modo, pure permesso la conservazione delle antiche strutture. Nel secondo dopoguerra il Soprintendente Cianfarani fu impegnato in una grande opera di sterro del foro e della basilica di Altilia, mentre è di appena 20 anni fa la messa in luce del decumano di Boiano prossimo all’alveo del Calderari sepolto da una spessa coltre di depositi alluvionali; a Venafro il rio S. Bartolomeo non è stato capace, in quanto opera troppo consistente in elevazione, a nascondere con i detriti da esso trasportati il Verlasce, l’anfiteatro costruito probabilmente durante il regno di Augusto, il quale si è preservato adattandosi ad ospitare un insieme di magazzini agricoli.

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Facciamo ora un passo indietro e andiamo nel Sannio pre-romano dove si prediligono le alture nelle scelte insediative in cui il problema, com’è noto, non sono le inondazioni, bensì i fenomeni franosi. In verità, gli scoscendimenti interessano i versanti e non la sommità dei rilievi e dunque i santuari e non i recinti fortificati, le due tipologie di interventi costruttivi caratteristici di questa popolazione italica (dell’altra, che poi è quello che oggi chiameremo il quartiere residenziale, i vici, non sono rimaste tracce in quanto le case dovevano essere fatte di materie povere, alla stregua delle capanne). Nel complesso teatro-templio di località Calcatello a Pietrabbondante gli archeologi hanno accertato la presenza di movimenti del suolo che nell’antichità dovettero portare all’esecuzione di muri di rinforzo. A Schiavi d’Abruzzo si dovette staccare parte del costone che sovrasta l’area templare che così fu seppellita. Le cinte difensive, invece, poste come sono sulla cima delle emergenze montuose, stanno in luoghi stabili, prendi quella su monte Saraceno a Cercemaggiore oppure quella sulla montagna di Gildone; il pericolo, trattandosi di zone montane, sarebbe potuto essere quello dell’incendio dei boschi circostanti, non, va precisato, nell’ambito interno alla murazione la quale doveva essere libera per ospitare la popolazione che qui si rifugiava nei momenti di pericolo. Va fatta, a questo proposito, un’ulteriore precisazione rilevando la numerosità di questi presidi murati nel nostro territorio rivelatrice della bellicosità di questi antenati impegnati in continue guerre, ben tre contro Roma. Dal punto di vista della conservazione il fuoco preoccupa poco poiché non ci sono rivestimenti musivi, statue, decorazioni che rischiano di essere compromesse dalle fiamme, ma solo grandi blocchi lapidei accostati a secco, cioè senza calce la quale è sensibile al calore. In verità, vi è un’eccezione rappresentata da Montevairano il cui perimetro murario assai lungo lascia intendere che esso è nato non per raccogliervi dentro saltuariamente le persone minacciate da forze ostili, quanto piuttosto per proteggere un autentico insediamento urbano come confermano le tracce emerse in diverse campagne di scavo; la sua datazione che è il IV secolo a.C. è successiva a quella dell’incontro, con la conquista di Capua, con la Magnagrecia dalla quale si è appresa l’idea di polis, antitetica al sistema vicano che aveva informato fino ad allora l’organizzazione territoriale dei sanniti. Non vanno omessi fra le cause che hanno determinato la scomparsa di tante testimonianze di questa popolazione (insieme agli accadimenti militari che hanno visto trionfare i romani ed appunto, ben 25 furono i “trionfi” che vennero esibiti da Silla nel foro della capitale della potenza nemica) gli eventi tellurici, frequenti in questa terra altamente sismica. Il terremoto rappresenta una minaccia per l’integrità di quello che resta, dalle colonne della basilica di Altilia ai brandelli di muratura autentici “mozziconi” alti diversi metri dell’anfiteatro di Larino, elementi verticali rimasti, poiché senza collegamenti con altre strutture, isolati, particolarmente, perciò, vulnerabili alle oscillazioni del terremoto.

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Vi è, infine, un fattore ambientale, tornato ai primi posti oggi dell’attenzione della collettività, che è quello dei cambiamenti climatici il quale è capace di incidere, significativamente, pure sul patrimonio culturale. Esso può aver giocato un ruolo nella scomparsa dei probabili nuclei abitativi che Roma doveva aver fondato sulla costa, che essendo una fascia pianeggiante era un ambito da essa prediletto, lo si è detto all’inizio, per la costruzione di proprie colonie in cui, magari, trasferire, per controllarle, le tribù frentane. Il mito di Buca, un municipio romano ricoperto dalle acque dell’Adriatico ha pertanto qualche credibilità: il livello del mare, a seguito del riscaldamento del clima al termine di una delle fasi di glaciazione del pianeta, l’ultima delle quali è la “piccola glaciazione” del XV-XVI secolo, è possibile si sia innalzato sommergendo un tratto della linea costiera. Nel discutere sulla preservazione dei beni archeologici bisogna pensare poi che esiste una sostanziale differenza tra gli stessi: vi sono oggetti naturalmente deperibili, ad esempio quelli in legno, destinati alla vita quotidiana e gli attrezzi da lavoro, e manufatti, anche edilizi, creati per i posteri, quali i monumenti celebrativi, i templi, ecc.. I messaggi che si voleva fossero tramandati alle generazioni future, o testi di tipo votivo, erano affidati a materiali perenni come il bronzo, la Tavola Osca, o alle epigrafi trascritte e interpretate per primo, nella seconda metà del XIX secolo dal Mommsen, quando si avviano gli scavi di principali siti archeologici che congiuntamente alle poche pagine di autori latini tra cui Livio, per la volatilità insita nel supporto per la scrittura utilizzato, la pelle di pecora con cui sono fatte le pergamene, giunte a noi ci hanno permesso di conoscere il popolo sannita. Di qui una storia consegnataci dalla classe dominante e anche il contenuto, quasi obbligato, delle collezioni museali, il Sannitico a Campobasso e specialmente l’antiquarium del capoluogo pentro, composto da reperti di pregio o opere artistiche e non da documentazioni sulle famiglie e sul lavoro come avverrà in seguito (non perché umile).

3 - Il santuario di Pietrabbondante

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3 - Il santuario di Pietrabbondante

I santuari molisani sono luoghi di culto legati alla presenza di qualche fatto singolare dell’ambiente. Collegato ad una fonte è quello, il più recente, di Castelpetroso, o almeno la sede originaria, la Cappella delle Apparizioni. A S. Angelo in Grotte è, appunto, una grotta ad avere ispirato il sentimento religioso e ciò ha avuto inizio fin dal principio dell’era cristiana perché S. Michele era il protettore dei longobardi. Pure nell’antichità si doveva essere verificato qualcosa di simile, prendi lo scomparso bosco sacro di Fonte del Romito tra Agnone e Capracotta; qui venne trovata la Tavola Osca in cui sono enumerate varie divinità (in verità, sempre la stessa Cerere, mediante vari appellativi) ad ognuna delle quali corrispondeva un albero con adiacente altare e il rito prevedeva un circuito che li connetteva. Distesa boschiva era anche quella alle pendici del Matese dove sorge il tempio di Ercole Curino, ci troviamo a Campochiaro (è tuttora presente la copertura arborea) e boscoso era sicuramente il sito del tempietto di S. Giovanni in Galdo adesso superficie agricola. Presso una sorgente sta il tempietto di Vastogirardi nella località Piana dell’Angelo. È la natura, specie quella dove emergono con forza elementi primari, cioè foresta, cavità, roccia e emergenza sorgentizia, a conferire sacralità ad una certa parte del territorio e ciò venne confermato in alcune occasioni quando si ebbe il processo di cristianizzazione: almeno in tre casi si è avuta la sovrapposizione di una chiesa cattolica su di un tempio pagano e sono le cattedrali di Isernia e di Trivento le quali, però, sono intramurarie quindi non in rapporto con fattori naturali e il tempietto di Vastogirardi. L’agro è sicuramente meno controllato dall’uomo di un centro urbano e, proprio per questo, abbastanza misterioso mentre i posti abitualmente frequentati sono privi, in quanto ben conosciuti, di qualunque carica esoterica, di richiamo all’extraterreno, a cominciare dagli insediamenti abitativi.

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A meno che non si voglia aderire alla tesi che Pietrabbondante sia Bovianum Vetus come propugnato, per primo, da Mommsen oppure Cominium per altri autori, il santuario situato nella zona chiamata Calcatello è anch’esso rurale. L’edificio culturale è dedicato alla dea Vittoria e tale dedicazione qualche legame lo deve aver avuto con l’esito vittorioso di una fase delle “guerre sannitiche” da parte delle popolazioni italiche. Questo era il posto dove si radunavano le diverse tribù che formavano il Sannio per assumere le principali decisioni relative alla nazione specie in materia bellica. Qui, sembra coglierlo in un passo di Tito Livio, avvenne il giuramento della legio linteata ovvero “l’ultima legione”, mutuando questa espressione dal titolo di un noto film, che combatté, perdendo, contro Roma; Annibale prima di raggiungere Canne intese distruggerlo identificando nel santuario la capitale di questa terra ormai assoggettata all’Urbe dove il fenomeno urbano non si era ancora affermato. La devozione a Vittoria appare di comodo e comprensibile se inserita nel quadro delle vicende militari che per un lungo periodo segnarono la vita di quel popolo, ma è apparsa di recente una teoria, ritenuta plausibile dal Soprintendente ai Beni Archeologici del Molise di 15 anni fa, dott. Mario Pagano, secondo la quale la divinità originaria venerata nel santuario era Mefite, soppiantata poi da Vittoria. Mefite era una dea presente in quest’area come dimostra il tempio di S. Pietro in Cantoni vicino Sepino ad essa consacrato; nel caso in questione le terme alle quali tale divinità è preposta sono, però, lontane da Altilia e ciò permette, con qualche probabilità, di ritenerla la protettrice non solo delle acque termali, bensì pure di tutte quelle superfici dal cui sottosuolo provengono intensi odori. Magari perché ricche di tartufo il quale deve la sua fortuna in cucina alle sue emanazioni odorigene. In verità apprezzate oggi e non nell’antichità. 

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È una semplice ipotesi, non supportata da alcuna documentazione storica, non suffragata da alcun studioso e, lo si ammette, un po’ spinta (l’archeologia in quanto scienza prevede una tesi che poi va dimostrata) e, però, ci piace metterla in campo anche perché ci consente di spiegare la sacralità dell’angolo territoriale in cui ricade il santuario di Pietrabbondante, battuto spesso dai cercatori del prezioso tubero. Una interpretazione conformemente a quella adottata per Campochiaro, che porta a supporre che il senso del divino provenga dalla copertura forestale di questa fascia alto-collinare la quale se, da un lato, sarebbe utile per prevenire le frane delle quali ci sono tracce nel sito templare, dall’altro impedirebbe e, soprattutto, avrebbe impedito all’epoca, di percepire in un raggio di distanza considerevole il santuario. Per la sua imponenza non si può proprio pensare che si volesse che le piante lo occultassero. Esso oggi come ieri e più ieri quando l’ambito era privo di segni antropici l’area culturale doveva costituire un autentico Landmark, un punto di riferimento territoriale, nucleo focale di un grande ambito. Infine, si propone quale spiegazione della devozione lo stesso ambiente in cui è ricompreso, la cui maestosità è indubitabile per la vastità dello scenario che va dalla vallata del Verrino fin dove questo si congiunge con il Trigno e arriva alla cima di monte Saraceno; non è la bellezza paesaggistica a colpire gli antichi quanto la evidenza delle forze naturali, compresenti in tale territorio che abbraccia tanto la montagna quanto il piano. È la visione definibile di carattere panteistico in cui natura e divinità sono fusi insieme. I modi di sentire ancestrali erano superati quando i Sanniti costruirono il santuario essendo già entrati in contatto con la cultura greca che attribuiva una grande importanza alla razionalità e quindi alla geometria ricercando le proporzioni armoniche nella lettura del mondo così come nell’arte. La religione ha ormai abbandonato l’animismo di qualsiasi forma. Vi è un asse che lega il tempio al sottostante teatro, giusto al centro della valle, allineamento che (quasi a volerci insegnare a come leggere il paesaggio) prosegue in alto verso il colmo di m. Saraceno delimitato da una cinta muraria a scopo difensivo e in basso in direzione del corso del Verrino. Vi sono due manufatti, il tempio (B) e il teatro, lo si ripete, perfettamente allineati fra loro (e coerenti con l’andamento del pendio) costituenti un corpo unitario ed aventi sezione analoga.

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È, di certo, un intervento pianificato perché sono coevi; gli dei sono ora confinati nell’Olimpo, non più in terra che è nostra. Il tempietto precedente di un periodo antecedente detto tempio A è laterale, ma esso è, comunque, in linea trasversalmente, pressoché orizzontalmente, con il teatro posizionati come sono su un’unica terrazza, specifichiamo virtuale, mentre il tempio B poggia, anch’esso in maniera ideale, sul terrazzamento in cui è appoggiata pure la domus pubblica che è, seppur traslata altitudinalmente, su lato opposto a quello del tempio A rispetto alla direttrice longitudinale (sottolineando, lo si ripete, volutamente la direzionalità nella morfologia dell’area) che passa al centro del tempio B e del teatro: vi è, dunque, oltre all’assialità, la simmetria tra gli elementi che hanno larghezza identica o, se si vuole, vi è bilanciamento dei pesi visivi, anche rispetto al baricentro della valle. Niente di più classicista, o meglio di ellenistico per quella volontà di effetti drammatici rivelata dalla veduta del santuario per cui entrando dal tratturello che era la via di accesso con un solo colpo d’occhio si sarebbe visto sia il teatro e sia il tempio che lo domina.

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