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1. Lineamenti dei quadri panoramici

Nel Molise è proprio difficile descrivere il paesaggio, almeno in modo sintetico. Ciò perché nello spazio di circa 100 chilometri si incontrano forme molto diverse fra loro le quali si susseguono senza un ordine preciso quale potrebbe essere l’andamento montagna, collina e pianura come sarebbe da attendersi in una regione appenninica. Infatti, troviamo piane all’interno, la conca di Boiano, e monti in prossimità della costa, monte Mauro, colli qua e là. Superfici pianeggianti si alternano a rilievi montagnosi, la piana di Sepino stretta tra il Matese e il monte Saraceno, rilievi alto collinari si mescolano insieme nell’alto Molise alle emergenze montane perché il territorio ha sempre quote elevate. Proviamo, comunque, a delineare alcuni caratteri essenziali e partiamo in questa impresa dal Molise centrale che è il comprensorio più esteso, seguendo un criterio idrografico e non quello usuale di cui si è detto di distinguere la regione in montagna, collina e pianura. Dunque, si ripartisce l’insieme in bacini che sono quelli del Trigno, del Biferno e, parzialmente del Sangro e del Fortore, tutti di forma allungata in quanto si tratta di valli strette. Qualsiasi elemento posto a cavallo delle vallate non si legge come individualità, vedi Montevairano o Monteverde per rimanere vicino al capoluogo regionale, bensì quali porzioni di insieme formato dal crinale che separa il Biferno dal Tappino, affluente del Fortore. Si è detto che noi non abbiamo bacini larghi, ma adesso dobbiamo in qualche modo correggerci, il Volturno allargandosi di molto una volta raggiunto Roccaravindola quando s’incontra con il Vandra; analogamente fa il Fortore dopo la diga di Occhito, anche qui al seguito della confluenza di un torrente, il Tona, ma già in Puglia.

La fascia costiera è esclusa da questa suddivisione in bacini in quanto si è ormai in pianura, pianura che gli stessi fiumi provenienti dall’Appennino hanno contribuito a formare. La piana litoranea è una fascia continua non interrotta dai solchi vallivi e questa condizione di continuità fisica è un fatto unico nel Molise dove in qualsiasi altra parte i corsi d’acqua con le loro valli, vallette, vallicole hanno frammentato il territorio, oltre a porsi come ostacolo agli spostamenti. I principali fiumi qui diventano delle aste, in passato meandriformi, poco incise rispetto al terreno; vi sono poi corpi idrici minimi, es. il Tecchio, il Mergolo e il Sinarca, che nascono nella prima schiera collinare che si affaccia sul mare e perciò paralleli ai maggiori, in senso est-ovest, i quali poco si avvertono da chi attraversa in direzione nord-sud il litorale. Il Basso Molise è distinguibile morfologicamente per l’assenza di vallate fluviali e nello stesso tempo per essere ambito pianeggiante; pure quest’ultima è una singolarità, la nostra regione essendo davvero povera di pianure (nell’entroterra ci sono solamente quelle di Boiano e di Venafro). Figurativamente sembra che le alture abbiano scacciato le piane sospingendole verso il mare, magari proprio mediante la corrente fluviale. Il metodo di analisi territoriale per bacini idrografici non può essere applicato alla parte della regione coincidente con l’Appennino. Esso è composto dal Matese e dalle Mainarde i quali, comunque non vengono a formare, come ci sarebbe da attendersi, un complesso montuoso collegato, separati come sono dal Volturno (ancora una volta un fiume). Il Matese seppure inserito nella catena appenninica, deve essere visto come un massiccio a sé stante; contribuisce a configurarlo come un rilievo autonomo vi è il fatto che è delimitato da due corsi d’acqua, il Tammaro e sempre il Volturno, che ne costituiscono confini certi. Il Matese più delle Mainarde è una lunga groppa montuosa disposta parallelamente alla linea di costa mantenendo per tutta la dorsale una distanza pressoché costante da essa e invece le seconde lievemente divergenti da essa.

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Per quanto riguarda quest’ultima annotazione si aggiunge che le Mainarde se viste insieme ai monti dell’Alto Molise dai quali è il valico di Rionero posto a oltre 900 m. di quota a dividerle vengono a definire una sorta di semiarco che ha la convessità verso l’interno del territorio molisano. Sia il Matese che le Mainarde non stanno sull’asse mediano della Penisola, bensì sono spostate in direzione del Tirreno; trattandosi di rilievi consistenti che raggiungono l’altitudine di duemila metri essi fungono da barriere alle perturbazioni provenienti da occidente e, quindi, da regolatori del clima. Tali montagne neanche rappresentano degli spartiacque come dimostra il fatto che il Tammaro e il Volturno pur nascendo nel versante adriatico confluiscono in quello tirrenico. Hanno un’altra cosa in comune il Matese e le Mainarde ed è la loro formazione geologica che è il calcare appartenendo tutt’e due alla «piattaforma carbonatica abruzzese-laziale» e, pertanto, sono caratterizzate dal carsismo il quale comporta l’assenza di idrografia superficiale. Non c’è, dunque, nessuna possibilità di farli rientrare nella logica dei bacini fluviali sui quali è impostato il nostro discorso. Adesso ci soffermiamo su una diversa questione che è quella che non c’è corrispondenza tra le aste fluviali e quanto avviene nel sottosuolo, nel senso che, limitandoci al Biferno, il suo alveo non delimita formazioni differenti e ciò lo si può verificare guardando la carta geologica del Molise dove l’avvicendarsi caotico di formazioni, dalle «arenacee di Cercemaggiore» al «flysh numidico» nella grande fossa riempita nel Miocene dalle «argille varicolori» che è il comprensorio del Matese Centrale non tiene in alcun conto la presenza del fiume. Vale la pena raccontare quanto avvenuto qui nelle lontane ere geologiche: successivamente all’emersione del basamento calcareo del Matese frutto del’orogenesi collisionale, quella della teoria delle «placche», sempre per lo stesso tipo di meccanismo si è avuto il riversamento nella fossa già citata di materiali argillosi che inglobano zolle di altra natura, arenacee e calcaree, con dimensioni variabili, anche molto grandi. Gli eventi deformativi sono stati gli agenti fondamentali dell’assetto del paesaggio italiano e così è da ritenere che non sia il sistema idrografico ad aver determinato i lineamenti paesaggistici della regione, bensì la tettonica. I corsi dei fiumi sono, in altri termini fattori secondari della configurazione attuale del territorio e quindi non capaci di rendere pienamente ragione dell’aspetto fisico del Molise il quale rimane perciò indecifrabile, misterioso, confuso e, infine, affascinante.

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2. Le forme del territorio

Non è proprio così, ma si può affermare che da noi l’angolo più ad est, cioè Montenero di Bisaccia (in verità lo è, di poco, Campomarino) è anche il più settentrionale e viceversa che quello più meridionale, Sesto Campano è quello più occidentale (pure in questo caso va aggiunto “all’incirca”). Ci troviamo in un caso sull’Adriatico e nell’altro sul versante tirrenico. Le temperature, tenendo conto per Montenero di Bisaccia dell’effetto mitigante delle escursioni termiche dovuto al mare, hanno valori simili in questi due punti estremi della regione nonostante il primo stia a nord e il secondo a sud e la spiegazione di ciò è data dal fatto che il Molise è, in definitiva, una fascia, un ambito abbastanza stretto seguendo tale orientamento, quello, per meglio precisare, dei Paralleli. È quello proposto uno dei possibili modi di approcciarsi alla lettura del nostro territorio che se è poco significativo dal punto di vista climatico è interessante in termini puramente geografici in quanto la striscia superiore della regione appare appartenere all’Italia Centrale, mentre quella inferiore al Mezzogiorno; non per niente, per la nostra terra si usa spesso l’espressione “terra di mezzo”. Dunque secondo il verso che va dall’alto al basso della Penisola noi siamo una zona di transizione. Per quanto può valere, si segnala che nel Molise la mezzeria dell’Italia peninsulare in senso longitudinale, quello dei Meridiani, non coincide con il limite del suolo regionale come succede altrove dove l’Appennino è sulla mediana della nazione perché qui la catena appenninica è spostata verso il Tirreno, cioè, verso ovest per cui non siamo del tutto una regione orientale, qualifica che ci viene attribuita nelle previsioni meteorologiche dell’Aeronautica Militare.

Oltre al rapporto con i punti cardinali vi sono ulteriori differenziazioni territoriali possibili basate queste non sulla posizione (rispetto ai Poli o se ci si colloca a levante o a ponente), bensì sulla configurazione del terreno. Una di esse è quella che porta a distinguere i comprensori in dipendenza dell’essere montagna, pianura o collina suddividendo in fasce la regione, quella appenninica, quella del medio Molise e la piana costiera. Una prima considerazione è che essendo la superficie regionale piccola sono piccole, di conseguenza ognuna di tali parti; secondo è che esse sono equivalenti per estensione, ma sommando insieme la montagna vera e propria e i rilievi alto collinari ne risulta, in base alle classificazioni in uso nella statistica ufficiale per cui ciò che sta sopra i 600 metri è montano, il territorio molisano è prevalentemente montuoso. Quanto detto è valido se rapportato ad altre situazioni regionali nelle quali i caratteri morfologici sono più omogenei, si pensi a quelle che ricadono nella Pianura Padana o alle regioni alpine, tipo il Trentino. Quello della scala dimensionale ridotta degli elementi che concorrono alla conformazione del Molise è un connotato originale del suo paesaggio il quale presenta una notevole varietà succedendosi in un breve spazio contesti paesaggistici diversissimi, il piatto, la costa, l’ondulato, l’interno e sommitale, quello di altitudine che è sull’Appennino. Potrebbe apparire quanto si è descritto una graduazione costante dell’elevazione del suolo, dai monti al piano e, invece, non è così perché, a prescindere dalla presenza delle conche intermontane, si verificano dei salti altimetrici bruschi tra i massicci montuosi, Matese e Mainarde, e la serie dei colli che si sviluppa al centro della regione. Più dolce è la transizione tra quest’ultima e il litorale. Percettivamente a dominare la scena, immaginando il Molise che si rappresenta su una sorta di palcoscenico, sono due attori principali, i gruppi montuosi e la striscia litoranea. Sono i segni più decisi fisicamente, uno, le emergenze montane, per la loro elevazione, l’altro, la banda costiera, per la sua piattezza. Entrambe sono figure nette che si distinguono con sicurezza nelle visioni panoramiche. Il pendio lungo e ripido del perimetro lineare che delimita tali monti è una forma molto forte, così come lo è la pressoché (vi è il promontorio su cui sorge Termoli) assoluta rettilineità del margine dell’Adriatico, interamente bordato da un nastro sabbioso. Tanto il fronte montano quanto quello marino si presentano quali “oggetti” unitari e ciò, insieme alla loro geometria estrema, la verticalità che connota i blocchi montuosi e l’orizzontalità della costa attribuisce loro una qualche solennità.

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Per la teoria di colline che li tiene a debita distanza oppure, se si vuole, che li collega non si può dire altrettanto poiché si presentano come un avvicendarsi confuso di groppe che hanno quote e pendenze differenti, con poche alture che spiccano. Si offre adesso un terzo modo di scandire il nostro territorio in pezzi distinti alternativo ai precedenti, quello per bacini idrografici. È un criterio efficace per illustrare la geografia del Molise, almeno quanto quello che si è proposto sopra, poichè ambedue consentono di mettere, metaforicamente, le cose, cioè le componenti del paesaggio, in ordine. È una successione ordinata quella che porta dallo spartiacque appenninico alla fase collinare della regione fino al mare; in maniera da un lato analoga e da un altro divergente, quindi non longitudinalmente, come si è fatto finora, ma trasversalmente, quindi seguendo l’asse corto della superficie regionale riscontriamo la medesima regolarità nella ripartizione del territorio in quanto i corsi d’acqua principali sono equidistanti fra loro. I bacini pluviali hanno estensione rapportabile, solo che unicamente quello del Biferno è completamente molisano, mentre gli altri due sono in divisione con, il Trigno, l’Abruzzo e, il Fortore, con la Puglia. Non smentisce il discorso il Volturno, è solamente che esso va in direzione opposta sfociando nel mar Tirreno (ci sarebbe, inoltre, il Sangro il quale, però, ci sfiora appena). In una regione appenninica qual è la nostra, a differenza di quelle alpine dove le grandi montagne sono un qualcosa a sé stante e la pianura, Padana, è indipendente dal resto, vi è un maggior legame tra le zone, seppure geograficamente differenti; per cogliere tale interconnessione è bene seguire l’andamento delle aste fluviali le quali rappresentano il filo conduttore in un racconto del quadro territoriale locale, giocando con tale suggestione, una narrazione fluida, per così dire, essendo dei corpi idrici, con un lieto fine, il Mediterraneo dalle cui onde nacque Venere. La fiaba (peccato!) si è bruscamente interrotta mezzo secolo fa quando in ognuno dei bacini vennero costruiti gli invasi; Chiauci, Liscione e Occhito, sono dei momenti singolari rispettivamente del Trigno, Biferno e Fortore e con essi ha termine una visione idilliaca del Molise che si trova ad entrare improvvisamente nella modernità.

3. Le aree regionali pianeggianti

Solo poco più di un decimo del territorio regionale è pianeggiante precisando che non si è detto piatto perché le zone in piano non sono mai del tutto livellate e anche quella del Basso Molise, la più vasta, presenta un dislivello, seppure ridotto, tanto da far distinguere una alta pianura, Pantano Alto, e una bassa, Pantano Basso. Le piane maggiori sono disposte ai due lati esterni del Molise, a est vi è, appunto, quella costiera, a ovest quella di Venafro che, comunque, è meno estesa della prima. Il resto delle pianure di dimensione significativa sono sì interne, ma non sono distribuite equanimemente nel resto della regione, bensì concentrate nella fascia preappenninica, dunque in un settore non centrale geograficamente della superficie regionale. Si possono definire piuttosto che piane, conche circondate come sono, almeno da alcuni lati, da rilievi montani e collinari che siano. L’essere concave è denunciato dai loro bordi che sono sempre in lieve pendenza. Ne abbiamo una sequenza ininterrotta che costeggia il Matese la quale inizia da quella di Sepino, prosegue con quella di Boiano e quindi con quella di Pettoranello seguita da quella di Isernia in località Le Piane e si conclude a Macchia d’Isernia dove, di lì a poco, prende avvio la piana di Venafro di cui si è detto; collaterale, ma altrettanto importante è la piana di Sessano, importante pure dal punto di vista storico perché qui si svolse la celebre battaglia tra Alfonso d’Aragona e il Caldora, una “battaglia campale” per la quale ci vuole, appunto, un campo, una pianura.

Quest’ultima è dello stesso tipo di quelle appartenenti alla serie di cui si è detto, cioè è una piana intermontana (in genere su alcuni dei lati vi sono rilievi collinari, piuttosto che montani), morfologicamente una concavità; accanto a queste concorrono a formare quel 10% circa del suolo in piano nel Molise i fondovalle fluviali. In genere sono strisce abbastanza sottili e non sono mai riconoscibili dei terrazzi, cioè terreni di una qualche larghezza e rialzati rispetto all’alveo, elemento morfologico che dimostra qual’era un tempo la quota del letto fluviale che in seguito si è approfondito. Seppure in sezione trasversale minime, le vallate percorse dai maggiori corsi d’acqua, tutti provenienti dall’Appennino che da noi non è sull’asse mediano della Penisola, bensì è spostato verso il Tirreno, sono lunghe. Pertanto le zone in piano che si incontrano lungo tali aste, sommate insieme rappresentano una percentuale considerevole della superficie pianeggiante della regione. Inoltre, va considerato che data la lunghezza questi corsi idrici toccano pressoché ogni ambito comunale mettendo a disposizione di tanti centri parcelle pianeggianti delle quali c’è tanta fame per la localizzazione dei PIP (Piano per gli Insediamenti Produttivi). Di ragionamento in ragionamento è ovvio che le industrie vanno servite da strade le quali sono quelle moderne, costruite, per il medesimo motivo di doversi ubicare su un sedime piano, nel fondovalle e fondovalli si chiamano la Trignina e la Bifernina. Queste superstrade per essere rettilinee viaggiano spesso su viadotti i quali scavalcano spesso il fiume, oltre che per il fatto che esso è per sua natura curvili- neo, per far “planare”, poggiare la carreggiata sulle parti in piano disseminate ai lati qua e là. Le arterie viarie cercano sempre le pianure e così la viabilità romana che si dipana nell’antico Sannio secondo la direttrice che va da Venafro, a Isernia e a seguire Boiano e Sepino in quella terra di conche intervallate da modesti valichi, quello della Trinità tra Venafro e Macchia d’Isernia, dopo, risalendo verso la concavità che sta nel capoluogo pentro contigua all’altra di Pettoranello, raggiunge il passo di Castelpetroso dirigendosi in direzione di quella di Boiano per continuare fino alla Sella di Vinchiaturo che separa quest’ultima dalla prossima che è la piana di Sepino.

Ci si è interrotti nel descrivere gli spazi pianeggianti solcati dai fiumi per parlare di percorsi stradali e adesso riprendiamo tale tema per aggiungere che tra questi ve ne sono due davvero ampi, la Valle Porcina interessata dal passaggio del Vandra, e la piana di Roccaravindola formata dal Volturno. Con un continuo andirivieni, lo si ammette, si ritorna alle conche per dire che, come per le fondovalli, la strada è legata agli insediamenti, adesso abitativi, Venafrum, Aesernia, Bovianum, Saepinum. La forte concentrazione di Municipi in tale fascia è conseguenza, da un lato, dalla predilezione che i Romani avevano per le piane e, dall’altro lato, dalla predilezione che i Sanniti pentri, i quali i primi intendono controllare, avevano, per esigenze difensive, per la montagna la quale, come visto sovrasta la conca. Vi è, ad ogni modo, anche una viabilità che corre sulle dorsali come quella che penetra nel comprensorio altocollinare del Sannio frentano in cui Roma costruisce una città, Larinum, sfruttando l’unico sito pianeggiante, le Piane di Larino, disponibile. Per completezza si fa rilevare che pure Terventum è piana e Piano si chiama il punto culminante del colle su cui è adagiato che è un autentico acrocoro. Rimane da trattare per completare il panorama di questo particolare, e lo si ripete minoritario, lineamento dell’orografia molisana la pianura costiera in cui essa è, invece, maggioritaria: lo si affronta in ultimo in definitiva non perché è poco estesa, in quanto, anzi, lo si è sottolineato in apertura, è la prima per grandezza tra le piane. L’assenza di barriere fisiche e la regimazione delle acque con l’intervento di bonifica che ha investito l’intero ambito sub-regionale hanno consentito il suo attraversamento da nord a sud da parte di linee di comunicazione di rilievo nazionale carrabili e ferroviarie avviate nel finire del 1.800. Questo andamento richiama la catena delle conche del Molise interno la quale si sviluppa da settentrione a meridione consentendo il transito di uomini, merci e, soprattutto, pecore secondo l’identico orientamento nell’epoca imperiale in cui è vitale, la transumanza che abbraccia più contesti regionali. Da considerare, poi, che la viabilità locale è parte di una maglia generale con “tutte le strade che portano all’Urbe”. Dobbiamo immaginarci, comunque, una piana costiera più ristretta nel passato quando le propaggini collinari giungevano fin quasi sul litorale con gli abitati prossimi alla battigia tanto da permettere ad un Comune che è Campomarino di fregiarsi nella sua denominazione dell’appellativo Marino, cosa che oggi sembra strana poiché la cittadina sta ad alcuni chilometri dal mare. La pianura litoranea era repulsiva alla presenza umana a causa degli enormi stagni la memoria dei quali è nei toponimi cui in precedenza si è accennato; attualmente, al contrario, è l’areale maggiormente attrattivo di attività economiche e, conseguentemente, di persone. C’è di tutto, industrie, agglomerati residenziali e turistici, tracciati stradali notevoli, ecc. la cui ubicazione qui è legata alla piattezza del terreno.

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4. La formazione della coscienza paesaggistica

Fino agli anni ’70, pur essendo la legge sulle «bellezze naturali» del periodo fascista, non vi erano vincoli paesaggistici nel Molise e, del resto, erano rari in tutta la Penisola (interessando solo le località rinomate, come ad esempio il lago di Garda). Il primo vincolo è proprio del 1970 e riguarda la costa; ne seguiranno altri nel ’74, è il caso di quello del Matese, e nel 1977 in coincidenza con il passaggio delle competenze sulla tutela alla Regioni, con una progressiva estensione delle zone vincolate la quale, però, non arriverà a coprire l’intero ambito regionale. Il territorio molisano in precedenza non era soggetto ad alcuna forma di controllo, non solo paesistico. Infatti, anche dal punto di vista urbanistico bisognerà aspettare il decennio tra il ’70 e l’’80 per l’avvio della regolamentazione territoriale, nonostante che la legge istitutiva dei piani sia del 1942, sempre di epoca fascista, dunque di oltre 30 anni prima. C’è voluta la spinta della cosiddetta legge-ponte che è del 1967 per convincere le amministrazioni comunali molisane a varare gli strumenti urbanistici, senza i quali in base a tale disposizione legislativa non sarebbero state possibili nuove edificazioni. In verità lo sforzo compiuto dai nostri Comuni non è stato enorme poiché ci si è limitati a redigere Programmi di Fabbricazione prevalentemente, invece di elaborare Piani Regolatori Generali, documento ben più significativo. Il 1970 è una data importante pure per un’altra ragione che è l’inizio dell’autonomia regionale. Fino ad allora l’unica legislazione esistente era quella statale la quale evidentemente si muoveva su una scala nazionale: il problema principale in Italia a quel tempo era (ed è) quello della crescita disordinata delle periferie, non unicamente nei centri maggiori o in quelli del Nord dove si erano trasferite masse consistenti di meridionali.

Collegate a queste vi erano altre questioni spinose, dalla speculazione edilizia all’intasamento automobilistico delle città. L’obbligo della pianificazione imposto dalla già citata legge-ponte è legato alla necessità di fronteggiare le minacce di alterazione degli insediamenti abitativi conseguenze dello sviluppo industriale. Nessuno nell’età del «boom economico» si sarebbe sognato di opporsi all’installazione di una fabbrica che porta posti di lavoro seppure possa guastare il paesaggio e financo se causa inquinamento. Vi è il mito di un progresso che fa tutt’uno con la crescita produttiva. Che non bastino i PdF, i quali hanno quale campo di applicazione fondamentalmente gli agglomerati urbani, senza alcuna incidenza sull’agro rurale, ma che necessitino i PRG risulta evidente se si pensa a come sono cambiate le campagne sia perché invase da capannoni, tanto a destinazione zootecnica quanto per rimessa di prodotti o mezzi agricoli sia in quanto sedi privilegiate, in epoca più tarda, di discoteche o centri commerciali. Vi sono, poi, le trasformazioni delle zone extraurbane provocate dall’esplosione proprio negli anni settanta del fenomeno del turismo di massa legato all’aumento del tempo libero legato, a sua volta, alla nuova tipologia di lavoro che è il lavoro dipendente e legato, infine, all’affermarsi della motorizzazione privata la quale ha portato alla costruzione delle arterie moderne che permettono di raggiungere stazioni sciistiche, prendi Campitello, dunque località montane oppure posti di villeggiatura marina, anche assai reconditi, sul litorale adriatico, si pensi a Campomarino. Sia il centro turistico estivo che quello invernale sono del ’70; essi hanno comportato la “cementificazione” delle aree più belle del Molise che è avvenuta per compiacere il nascente e irrefrenabile impulso al consumismo. Non sono stati risparmiati, prima della legge-ponte che qui ammette unicamente ristrutturazioni, neanche qualche borgo collinare pittoresco il cui skyline è stato alterato da volumetrie ingombranti, vedesi ciò che è accaduto lungo l’imponente scalinata di via S. Nicola a Trivento dove a circa metà della stessa un antico fabbricato è stato sostituito da una «palazzina» pluriplano del tutto anonima. Non si riesce a credere che la gente, compreso uomini di cultura, non si rendessero conto della banalità estetica della produzione architettonica corrente, solamente si prediligeva il fatto che quelle brutte case fossero più comode da vivere.

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Manco tanto, peraltro, funzionali considerato che i loro autori erano in genere geometri, anche per via dello scarso numero di architetti nel passato (Pacanoski e Antonelli a Campobasso, Gentile a Boiano, Coppola a Isernia e pochi altri). Le ragioni dell’apprezzamento della modernità nel settore costruttivo sono molteplici e, fondamentalmente, per le persone uscite dagli eventi bellici della seconda guerra mondiale c’è il desiderio di rinnovamento in ogni campo, di rinascita. Per i ceti subalterni si aggiunge la volontà di sfuggire la miseria contadina e l’appartamento in condominio, di norma periferico, viene a rappresentare una sorta di ascesa sociale. Attraverso le riviste illustrate popolari e i primi programmi televisivi, di frequente viste al bar, entrano nell’immaginario collettivo anche nei paesi più piccoli e isolati visioni della vita cittadina nelle quali si idealizzano pure i quartieri delle case popolari. Vi è un processo di omologazione culturale che investe, in maniera indistinta, qualsiasi angolo del Paese e in nome del mutamento si distrugge o si compromette il patrimonio edilizio tradizionale. Non è che oggi le cose vadano tanto meglio poiché se è vero che adesso i borghesi, piccoli, medio o «alti» che siano, ricercano, specie per farne una seconda casa, quelle dimore contadine che prima disprezzavano, per essi sono diventate oggetti esotici piuttosto che beni culturali. Attraverso i lavori di ristrutturazione si tende ad imitare le più trendy costruzioni agricole della Toscana o dell’Umbria, adottando così nei rifacimenti dei poveri fabbricati campagnoli molisani stilemi architettonici (tipo le riquadrature con mattoni a faccia vista delle aperture) in uso nella parte centrale dell’Italia e ciò produce un effetto di falsità. È sembrato doveroso fare questa sottolineatura, ma ora proseguiamo il nostro discorso sull’atteggiamento che prevaleva prima rispetto al paesaggio e, questa volta, nell’accezione di ambiente. Quest’ultimo, in particolare nelle zone industrializzate, è diventato un problema negli ultimi decenni attirando in tal modo l’attenzione su di sé e ciò ha rappresentato anche una spinta per incrementare l’interesse verso il paesaggio. La legge Galasso che è del 1985 porta definitivamente a conclusione questo percorso di avvicinamento tra valori ambientali e paesaggistici sancendo il loro legame indissolubile: i piani paesistici che sono contenuti in questa normativa e che le Regioni sono obbligate a redigere (e il Molise adempì nel 1991) tutelano accanto agli aspetti storico-culturali quelli ecologici e con essi si entra in una nuova era del governo del territorio che fa sembrare tanto lontano il mondo degli anni ’70.

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5. Le zone tutelate e non

È quasi commovente, nel senso che fa tenerezza, lo sforzo del professor Galasso autore dell’omonima legge, oggi Decreto Urbani, di salvaguardare i capisaldi del paesaggio italiano, tanto essi sono soggetti a mutamenti inevitabili per cause naturali. Infatti se su quelle antropiche si può intervenire, appunto apponendo il vincolo paesaggistico, su quelle dovute al dinamismo che è intrinseco al mondo della natura, no. Si prenda la linea di costa per la quale scatta l’obbligo di richiedere l’autorizzazione agli uffici preposti alla tutela per effettuare qualsiasi intervento entro 300 metri dalla stessa linea la quale si tenta di cristallizzare realizzando le barriere frangiflutti presenti lungo tutto il litorale molisano. Quest’ultimo rientra nella tipologia della costa bassa, quella sabbiosa la quale è soggetta nel tempo ad avanzamenti ed arretramenti, ben diversa, dunque, dalla costa alta che, invece, è fissa; va fatto osservare a proposito di quest’ultima che neanche la falesia su cui sorge una parte del centro abitato della Termoli moderna ha la propria terminazione, verso il mare, immutabile e lo dimostrano i crolli subiti anche in anni recenti in località Riovivo e la necessità di dover realizzare a protezione delle case di via Cairoli importanti murazioni. La superficie marina in epoca post-rinascimentale ha occupato una striscia di, in precedenza, terraferma e la testimonianza è rappresentata da tracce di una struttura portuale di fattura aragonese che stanno subissate appena a largo a nord della cittadina adriatica. I porti sono le prime opere a rimanere coperte per l’innalzamento del mare; medesima sorte dovette subire nel periodo tardo antico la città di Buca.

Gli antenati dei termolesi attuali dovettero scegliere di installarsi lì dove c’è il borgo medioevale perché un’emergenza rocciosa, non scalfibile dalle onde, la quale oggi appare come un promontorio, ma che in passato poteva assomigliare ad un isolotto a causa degli acquitrini presenti nell’entroterra. Essere circondata dall’acqua era, peraltro, una garanzia di difesa per questa città. In definitiva, il blocco calcareo sul quale poggia la Termoli vecchia è l’unico punto stabile della fascia costiera e fa sì che il nostro centro sia l’unico insediamento in prossimità della distesa marina, mentre altri tentativi, vedi Buca, se è mai esistita, sono falliti in breve. C’è linea di costa e linea di costa perché c’è anche quella costiera dei laghi per cui vige la medesima misura di protezione dei m. 300 dal suo limite. I bacini lacustri presenti nel Molise sono di origine artificiale e ciò nonostante vengono considerati componenti primarie del paesaggio, di un paesaggio che è quello odierno, non quello di appena 50 anni fa e per tale aspetto contraddicono l’idea di fondo del prof. Galasso di conservazione dei caratteri originari del sistema paesaggistico della Nazione. Il perimetro degli invasi varia, sale o scende, in relazione alle esigenze di utilizzo, l’irrigazione, della risorsa idrica in essi contenuta e, dunque, per effetto dell’azione dell’uomo. Questa appena citata è una cosa governabile, imponendo, non è il caso in questione, limitazioni, mentre, riprendendo il ragionamento fatto all’inizio sull’ineluttabilità della trasformazione del paesaggio per cui non c’è provvedimento vincolistico che sia capace di bloccarla; l’evoluzione del contesto naturale con lo scivolamento a valle delle particelle terrose dai versanti sovrastanti il lago rischia di provocarne l’interramento. È un processo ecosistemico al quale si è fatto fronte al momento della costruzione della diga del Liscione con il rimboschimento dei pendii mediante alberi di conifere che, però, ora stanno invecchiando. Salendo la quota di fondo si avrà, conseguentemente, a parità di volume d’acqua invasata, un innalzamento delle sponde e, quindi, la variazione dei contorni dello specchio d’acqua.

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All’interno delle categorie dei beni paesaggistici elencate nella L. Galasso ve n’è una che non rientra nei beni ambientali propriamente detti, bensì tra i beni culturali ed è rappresentata dalle aree archeologiche. Sarà per via dell’età remota della loro formazione queste sono state incluse dal provvedimento legislativo predetto tra gli elementi costitutivi del paesaggio. Pure i tratturi, i quali sono presenti nel territorio regionale fin dalla preistoria, fanno parte dell’archeologia. La rete tratturale pone una questione particolare essendo essi “segni” permanenti del paesaggio pure se, in quanto suolo erbaceo, hanno notevoli affinità con i fatti ecologici i quali, invece, sono contrassegnati da dinamismo, il che, prima o poi, ne modifica l’immagine (lo abbiamo constatato per il mare e per i laghi). Solitamente un prato su cui non si pratica il pascolo in un arco temporale significativo si riempie di cespugli e di arbusti, preludio al suo divenire bosco, un po’ come succede per i seminativi abbandonati, visibili in gran numero, ormai, nelle campagne molisane. Sia una superficie prativa sia un campo coltivato sono espressioni della civiltà umana e lo spopolamento dell’agro con la diminuzione che ne segue dei contadini permette loro di ritornare alla condizione naturale, o meglio seminaturale perché ci vorrà tempo affinché le piante pioniere diano vita ad un’unità boschiva vera e propria. Con i tratturi la progressione degli strati vegetazionali, da quello erboso a quello arbustivo fino a quello arboreo, non avviene, perlomeno in molteplici tratti; sarà per la compattazione del terreno dovuta al passaggio di migliaia di capi di bestiame per migliaia di anni (moltiplicati per 2, l’andata e il ritorno della transumanza), ma la struttura floristica è rimasta invariata, altro che dinamicità della natura. I tratturi per tale caratteristica rientrano tra i tasselli più fermi del paesaggio. L’usura del cotico erboso dovuta al calpestio delle greggi nei segmenti in pendenza avrebbe dovuto provocare erosione superficiale che non c’è stata forse perché le piste tratturali ufficializzate da Alfonso il Magnanimo per evitare il pascolamento brado che è erosivo sono state selezionate quali le maggiormente solide dal punto di vista idrogeologico, in grado di consentire il transito senza problemi delle pecore.

6. Gli ambiti antropizzati

C’è poco da fare per l’inserimento paesaggistico delle architetture contemporanee, specie quelle di grandi dimensioni. Ciò è difficile in particolare quando queste opere sono caratterizzate dall’impiego di nuove tecnologie quali l’acciaio o il legno lamellare oltre al cemento armato qualora esso non è occultato dentro costruzioni dall’aspetto tradizionale. Vi sono tipologie edilizie che in passato non esistevano, si prendano i cimiteri che si sviluppano in altezza (ad esempio a Isernia) invece di ampliarsi in pianta il che ne snatura l’immagine consolidata di giardino dove meditare nel verde sulla caducità della vita terrena; qui non è il materiale utilizzato che può essere anche la muratura ordinaria, bensì è lo sconvolgimento del senso originario dell’attrezzatura cimiteriale a determinare un certo sconcerto (lo stesso, comunque, succede anche in quei casi, prendi Busso, in cui di fronte all’impossibilità dell’allargamento dell’area si satura lo spazio interno con altre fila di loculi eliminando le presenze vegetali). Negli stadi, l’unico veramente tale è quello di Campobasso, viene, invece, esibita l’innovazione tecnologica, la struttura in c.a., e il manufatto è ad una scala che prima non era neanche pensabile. C’è, poi, la questione della prefabbricazione, una modalità costruttiva utilizzata per i capannoni (agricoli, artigianali, ecc.) che sono ormai delle componenti costanti del paesaggio; essi sono figli di quella fase della storia della nazione che prende avvio dal “boom economico” e rispondono alle due esigenze che si sono andate manifestando, da un lato quella delle attività produttive di avere grandi luci e, dall’altro lato, l’intercambiabilità delle funzioni da ospitare all’interno per far fronte ai continui cambiamenti che si registrano nell’economia. Il termine che si adopera per descriverli pure per tale motivo è pure quello di contenitore, una parola chiave dell’urbanistica dei decenni ’70 e ’80 insieme a comprensorio e a città regione. I capannoni vengono prodotti, d’obbligo in serie, pure nel Molise (uno stabilimento per tutti: Valtappino).

Non si tratta, comunque, sempre di oggetti, essendo ripetitivi, privi di identità, bastando poco per caratterizzarli; si è affiancato al volume edilizio nel centro commerciale denominato Lo Scrigno a Termoli una scala mobile esterna che richiama quella del Baubourg a Parigi e qui l’impianto architettonico diventa esso stesso un’insegna pubblicitaria tanto è straordinaria, almeno nel nostro contesto, la soluzione dell’elemento distributivo posto “sfacciatamente” sul prospetto. Niente a che vedere queste opere, insieme ai viadotti, ai silos, ai serbatoi idrici e così via, con il costruito storico. L’unica categoria di fabbricati che continua ad avere rapporti con il passato è quella delle case unifamiliari. Ad esclusione della movimentazione dei tetti, una moda assai diffusa, le “villette” odierne sia a schiera che isolate sono formalmente simili a quelle tradizionali. Cambia il sistema portante, oggi prevalentemente in conglomerato cementizio armato, ma l’aspetto esteriore, cioè il manto di copertura, il rivestimento in intonaco se non il mascheramento del setto murario con una cortina in pietra, le aperture, la pavimentazione del piazzale, la recinzione, ha molto in comune con quello delle residenze di una volta. Perciò hanno gioco facile i nostri piani paesistici a fissare prescrizioni per i fabbricati da edificarsi che richiamano l’architettura del luogo. Ciò è contenuto nelle Norme Tecniche di Attuazione le quali pur se il numero delle indicazioni è limitato (d’altro canto, una eccessiva quantità di disposizioni è ingestibile tanto da parte del progettista quanto del controllore del progetto) tendono piuttosto che a tipicizzare la dimora a incrementare quanto più possibile i caratteri capaci di assicurare la sua aderenza al paesaggio.

Più complesso è il compito delle NTA quando si tratta del recupero delle case contadine (rurali e urbane). Ormai si è affermato un vernacolo universale che sostituisce i dialetti, per fare un paragone con la lingua, dei vari posti, una sorta di esperanto per cui l’abitazione storica molisana non è riconosciuta nelle sue specificità perché esiste un unico modello abitativo che omologa le differenti culture architettoniche locali. A dire la verità, così come è successo per la lingua da Manzoni in poi, esso coincide con il tipo edilizio toscano e negli interventi di ristrutturazione del patrimonio costruttivo compaiono di frequente elementi stilistici che non appartengono alla tradizione del Molise: si allargano le finestre e si incorniciano con laterizio mentre da noi le bucature delle abitazioni popolari erano piccole oltre che prive di contorni, per contenere la dispersione del calore e per l’assenza, negli esemplari più poveri, del vetro negli infissi. Vi possono essere, di certo, contaminazioni da altri linguaggi tra cui l’avanzamento in facciata dei cornicioni aumentando lo sporto di gronda come si usa nelle regioni alpine dove si giustifica per la necessità di allontanare la neve dalle mura; a Vastogirardi, in effetti, l’ultima parte del tetto è sorretta da mensoloni in pietra, mentre quelli delle Alpi sono in legno (e in legno, sempre per lo spirito di emulazione con i villaggi nordici, a Capracotta in recenti caseggiati sono stati realizzati i parapetti dei balconi). Data l’importanza che gli episodi edilizi minori, maggiormente degli edifici monumentali non fosse altro che per il loro numero notevolmente superiore, hanno nel definire l’identità paesaggistica bisogna nelle azioni di restauro avere attenzione ad ogni dettaglio senza operare alcuna semplificazione e senza scadere nel “pittoresco”, almeno nella definizione esterna dell’edificato. Un qualsiasi regolamento, a partire dalla normativa sui materiali a corredo degli strumenti di pianificazione paesistica, si deve limitare, gioco forza, a fornire schemi da seguire o impartire raccomandazioni, ma nulla può sulle modalità realizzative, cioè sul “saper fare”. Quest’ultimo è forse l’aspetto più preoccupante, ora che si vanno perdendo le conoscenze artigianali dei mastri muratori, rimasti, purtroppo, senza apprendisti in bottega che vogliano apprendere il mestiere. Oramai anche i materiali da impiegare nei lavori di recupero sono difficoltosi da reperire e bisogna accontentarsi, di conseguenza, di un elemento lapideo di provenienza extraregionale al posto di roccia presa in sito.

7. Le oscillazioni nell'estensione delle superfici boscose

È plausibile che all’origine la superficie del nostro territorio, ad eccezione delle emergenze rocciose e degli stagni i quali dovevano essere numerosi ed ampi nella fascia costiera e dei corsi d’acqua, fosse, come d’altro canto il resto d’Italia salvo le cime alpine, coperto da bosco interamente. Una copertura boschiva, vale la pena precisarlo, continua, ma nello stesso tempo differenziata con le specie arboree che si distinguono in relazione alla posizione geografica, cioè a seconda se si è nella zona litoranea che subisce gli influssi marini o se si è all’interno della regione, dunque in senso orizzontale, all’altitudine, se collinare o montana, perciò in senso verticale, e al substrato, in qualche modo nel senso della profondità, in quanto le formazioni geologiche, argillose (medio Molise), calcaree (Appennino), arenacee (alto Molise) o sabbiose (basso Molise), che sono il sottosuolo condizionano il tipo di soprassuolo. Non si poteva fare a meno di questo inciso dovendo parlare di paesaggio. Non vale solo la geografia a spiegare le caratteristiche del paesaggio boscato molisano, perché ha un peso pure la storia. Si è iniziato accennando alla situazione all’anno zero quando l’uomo era ancora cacciatore e raccoglitore e non ancora agricoltore. Le forme di agricoltura praticate in età remota erano primitive; non essendo capaci i nostri progenitori a favorire il rinnovamento della fertilità dei campi essi nel constatare la sopravvenuta improduttività dei terreni procedevano disboscando altre superfici in cui impiantare colture. Per quel che qui ci interessa si ha più che una riduzione, progressiva, della superficie forestale, una sua trasformazione in quanto sugli appezzamenti di terra in precedenza coltivati e in seguito abbandonati si ha nel tempo una ripresa spontanea della vegetazione che evolve man mano da arbustiva in arborea. Il risultato è che la foresta primigenia scompare sostituita da un bosco, per così dire, di seconda mano che ha evidentemente connotati differenti dalla prima.

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L’assetto paesaggistico che, come ben si sa, è un insieme di natura e cultura, comincia a cambiare, da una distesa pressoché uniforme di foreste quando la popolazione era dedita esclusivamente alla caccia e alla raccolta dei frutti spontanei, si passa alla comparsa al loro interno di oasi coltivate e, di conseguenza, di villaggi “contadini”. Sia le une che i secondi, a seguito di quelle, sono destinate, nel giro di qualche decennio, a scomparire, lo si è detto sopra, per il trasferimento delle famiglie altrove e ciò spiega perché a noi non sono sopravvenuti resti di nessun abitato, il pagus, le cui abitazioni dovevano essere intese quali temporanee e perciò costruite con materiali deperibili. Il passaggio alla stanzialità, mai effettivamente concluso dai Sanniti, è lungo, siamo ancora nell’era del seminomadismo connesso, da un lato, a tale modo di coltivare, dall’altro lato, alla adozione della pratica della pastorizia transumante. Pure quest’ultima ha contribuito ad erodere il patrimonio forestale, tanto per aprire e mantenere la striscia tratturale quanto nelle zone di montagna dove si conducono le greggi in alpeggio nel periodo estivo per ricavare pascoli. Qui, ci riferiamo al Matese per proseguire con i Sanniti, alle praterie “primarie” (risalenti alla notte dei tempi) pur assai vaste, i vari Campi, Campitello, Campo dell’Arco, Campo delle Ortiche e così via, date le cospicue dimensioni del fenomeno della transumanza, si vanno aggiungendo praterie “secondarie” frutto del pascolamento delle bestie del cotico erboso, lo strato basale dell’ecosistema forestale danneggiato il quale si ha, a catena, il danneggiamento e poi il deperimento e poi la scomparsa del bosco. Il pabulamento eccessivo delle pecore ha scoperto, lasciato scoperta tutta la parte sommitale dei monti matesini anche di quelli che non raggiungono i 2.000 metri di quota. È questo il limite altitudinale del faggio che è nella dorsale appenninica, come del resto, nel complesso in ogni areale del nostro continente, l’essenza botanica a foglia caduca maggiormente diffusa. Non c’è solo l’equivalenza tra latifoglie e latitudine poiché essa si estende a qualsiasi tipo di alberatura, pure a quelle aghiformi: procedendo dall’equatore verso i poli si abbassa progressivamente, riducendosi la temperatura media, l’altezza che può raggiungere il bosco la quale nel Matese, cioè all’incirca a metà strada, è, appunto, un paio di migliaia di metri.

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La riduzione del manto boschivo per via della diminuzione dei capi di bestiame al pascolo libero, in zootecnia prevale ora la stabulazione fissa, vale a dire in stalla, si è arrestata ed è in corso una tendenza inversa, quella dell’aumento della percentuale di territorio boscato, sono i dati del Censimento dell’Agricoltura. I prati si restringono, anche se in proporzione si assottigliano, verbo appropriato, essendo delle superfici lineari, di più i tratturi e la spiegazione è questa: lo sviluppo dei margini di una figura tendente al rettangolare quelle in cui, in geometria, un asse è prevalente sull’asse ortogonalmente opposto, molto prevalente, peraltro, nelle piste tratturali (111 metri di larghezza contro oltre 100 chilometri di lunghezza, 1 a 10.000) a parità di metri quadri racchiusi nel perimetro è superiore a quello di un poligono iscritto in un quadrato se non in un cerchio, che tenda, detto diversamente, a questo qual è una prateria. I canali con pavimentazione erbacea della transumanza vengono rosicchiati, nel momento in cui attraversano ambiti boschivi e ciò succede di frequente nel comprensorio altomolisano, da ambedue i lati rischiando di scomparire perdendosi così un importante segno culturale e un vitale corridoio ecologico. Il disboscamento finora descritto è avvenuto lentissimamente per cui c’è stato il tempo per un assestamento, graduale del sistema ambientale alla nuova configurazione assunta dagli spazi aperti rispetto a quelli chiusi, lo si ripete, la matrice originaria delle terre emerse, almeno nel nostro parallelo. Molto più veloce, invece, è stata la distruzione dei boschi, lamentata da Vincenzo Cuoco, nel finire del XVIII secolo per far fronte alla fame di terreno da coltivare per, a sua volta, soddisfare la fame, non metaforica bensì vera e propria, e acuta soprattutto, della popolazione che in quell’epoca era in consistente crescita. Non c’è stato il tempo per l’assestamento di cui sopra per cui le frane. Ciò succedeva nelle colline del medio Molise e bisognerà attendere un secolo perché la scomparsa delle formazioni boschive si verifichi pure in pianura con le grandi opere tese a bonificare innanzitutto dagli acquitrini, il basso Molise che ha mutato, letteralmente, il suo volto. Il bosco, lì è rimasto solo in qualche toponimo come Bosco Tanasso nel Larinate. Al Fascismo si deve l’intensificazione, sotto lo slogan la redenzione delle terre, dell’azione di bonifica e, per fortuna, che è durato solo un Ventennio, la faccenda dell’arco temporale breve. Si sono perse le foreste planiziali, diventate assai rare da noi, anche perché rare le zone pianeggianti nel Molise. L’erosione successiva, pertanto in età contemporanea, del patrimonio forestale è un tema che viaggia insieme con quello del Consumo di Suolo a causa della crescita dell’urbanizzazione e dell’incremento delle infrastrutture.

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