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il Callora

Il Callora nasce in montagna, in località Scino. Qui per la quota che supera i 1.200 metri la neve si trattiene più a lungo e proprio in coincidenza con il suo scioglimento questo corso d’acqua registra le portate massime. Un idrometro posizionato immediatamente a valle dell’abitato, lì dove il fiume (il Callora è un fiume e non un torrente perché alimentato da sorgenti perenni) sbuca dal suo tratto superiore in cui corre in una gola e inizia a svilupparsi nella fascia collinare. Per quanto riguarda la parte in cui esso è incassato va detto che questa è l’unica porzione del fiume dove quest’ultimo non attraversa zone coltivate; financo in alto, ai lati del primo pezzo del suo corso si pratica l’agricoltura come rivelano i terrazzamenti e numerose aie circolari e pure il toponimo Masserie Scasserra, richiamando la presenza di coltivatori, ce lo ricorda. Il paesaggio coincidente con la porzione dell’asta fluviale incassata è dominato prima dai pali eolici di monte Crivari e dopo dalla mole del castello longobardo. È una situazione particolare quella della «rocca Maginulfo», ma non rara nel comprensorio matesino, vedi Longano, nella quale borgo e struttura castellana rimangono distinti, non contigui, pur se vicini. Tale lontananza ha influito sull’abbandono del maniero feudale, a differenza di quanto è successo in altri casi con il castello, o almeno i suoi resti, che si è trasformato in palazzo nobiliare; la posizione isolata di questa fortificazione, venute meno le esigenze militari, ha provocato la sua riduzione a rudere. Roccamandolfi, che costituisce il fulcro visivo del contesto paesaggistico della media valle del Callora, solo nel nome che contiene la parola rocca porta con sé il ricordo della fortezza. Il paese sorge su un pendio sul quale le case si accatastano l’una sull’altra formando un agglomerato molto compatto e ciò lo rende assai pittoresco; è una disposizione caratteristica quella a gradinata, che si riscontra in pochi casi (vedi Pesche definita da Francesco II la libreria del Molise); essa distingue questo centro dalla maggioranza dei comuni molisani i quali hanno il castello al vertice dell’insediamento. Per osservare il corpo idrico quando penetra nella gola, altrimenti non visibile, c’è un ponte sospeso raggiungibile pure dal Sentiero del Pastore, un itinerario che costeggia in alto il letto fluviale partendo dal punto in cui le greggi prima della tosatura facevano il bagno in una vasca lapidea naturale scavata dall’acqua. In questo luogo che è, poi, l’ingresso del nucleo abitato vi è un ponte che scavalca il Callora il cui ruolo di momento di passaggio è sottolineato da un’edicola votiva la quale si affianca ad una interessante fontana. Da ora in poi il corso d’acqua lascia il mondo del calcare per passare nell’universo delle rocce morbide, in specifico dell’arenaria. Esso perde la sua rettilineità disegnando una curva in prossimità di Campodiciello, a seguito della spinta che riceve dalla sua sinistra idrografica dal rivo che scende da Coppola di Prete. Qui confluisce nel Callora anche il Rio, questa volta alla destra idrografica. Ci troviamo un po’ più sopra del punto dove il panorama comincia ad abbracciare Cantalupo, della località Le Crete. I due territori comunali di Roccamandolfi e di Cantalupo stanno uno a monte e l’altro a valle e questa è l’unica volta in cui nel Matese un ambito municipale non si estende dal piano alla vetta del massiccio montuoso. È qualcosa di simile a quanto succedeva a Castel San Vincenzo prima dell’unificazione di Castellone che stava più in basso, mentre S. Vincenzo al Volturno era sopra, con distinte, anche se spalla a spalla, comunità l’una legata all’economia agricola, l’altra a quella montana.

Roccamandolfi è un centro pastorale, ma pure Cantalupo è interessato dal passaggio delle pecore sul tratturo, così come dei pellegrini che si recano nel comune altimetricamente superiore per la festa di S. Liberato la prima domenica di giugno quando iniziava la transumanza. Il Callora con la curvatura descritta evita Cantalupo che di scorcio si vede per poco tempo seguendo il  corso d’acqua e si inoltra nell’agro di S. Massimo, paese che rimane a lungo nell’orizzonte per raggiungere prima il Biferno che, intanto, nasce a Boiano il quale è un traguardo visuale del fiume, almeno Civita Superiore. Anche per tale aspetto, cioè per non avere in condivisione il fiume, si nota la separatezza tra Rocca e Cantalupo. In ogni caso il Callora che pur si avvicina al perimetro comunale di Cantalupo non sarebbe stato una linea di confine perché esso, per sua natura, non è mai, dalle scaturigini allo sbocco nel Biferno, un elemento di separazione tra entità municipali, forse in quanto non produce mai un sentimento di vera paura. Ben altra cosa sarebbe successa se esso non si fosse incurvato, rimanendo così rettilineo poiché abbreviandosi il percorso delle acque queste aumentano di velocità. Il Callora, il Quirino e la Lorda sono gli unici corpi idrici che sgorgano in altitudine per via del carsismo che connota questo gruppo montuoso per cui il loro tragitto per raggiungere la pianura è davvero lungo: senza le anse l’asse fluviale sarebbe troppo ripido determinando una corrente idrica assai veloce. Una ulteriore sterzata, molto più decisa della prima, il Callora la compie poco dopo aver toccato il piano. Si completa nello stesso tempo la serie dei paesaggi che il Callora contribuisce a caratterizzare: quello montuoso, quello collinare e, infine, quello pianeggiante. A proposito della secca deviazione nell’andamento del fiume è da evidenziare per inciso che esso finora è stato perpendicolare all’Appennino, adesso ne diviene parallelo, non dirigendosi verso il mare come fanno gli altri fiumi dal Biferno al Trigno. Tutto nella conca di Boiano ha la medesima direzionalità, dal tratturo, alla statale e al Callora che si affiancano fra di loro in una stretta striscia di territorio. Il nostro fiume si presenta con un alveo ghiaioso che in estate è completamente asciutto. Sono i detriti trasportati dalle fasce altitudinali più elevate che si sono depositati che progressivamente ne sopraelevano il letto e ciò è dovuto al fatto che il fiume è impossibilitato a divagare lateralmente, costretto com’è da pareti spondali volute dall’uomo che ne bloccano i processi evolutivi i quali sono tipici dei corsi d’acqua di pianura. Dal punto di vista naturalistico il pezzo maggiormente significativo del Callora è quello in cui ha principio riconosciuto Riserva naturale regionale e gestito da Italia Nostra. Forse un’area protetta troppo piccola e che rimarrà un fatto episodico fino alla sua ricomprensione nel parco del Matese. Siamo fin quasi superato l’ambito di Roccamandolfi, e cioè per circa la metà dell’asta fluviale (Masseria del Rio) in un Sito di Importanza Comunitaria e Zona di Protezione Speciale. Il fiume è stato oggetto all’interno di un progetto Life di ripopolamento di gambero di fiume, i cui risultati evidenti si stanno ottenendo nel tempo.

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 La piana di Campochiaro 
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Una piana, quella di Campochiaro, la cui origine ha due possibili chiavi interpretative: una è quella che si tratti di pianura alluvionale e l’altra che sia la parte finale di un grandioso conoide di deiezione creato dal torrente La Valle. Per quanto riguarda quest’ultima occorre spiegare che quando un corpo idrico con pendenza molto elevata come è appunto il La Valle il quale precipita vertiginosamente dalle alte quote del Matese raggiunge la base del versante montuoso esso deposita i sedimenti trasportati; la morfologia tipica è quella del ventaglio con il materiale che il torrente ha condotto con sé che si sparpaglia in lingue allungate al punto di contatto tra il fondovalle e la montagna, in questo caso, matesina. Il nome conoide sta proprio ad indicare la forma a settore di cono di questo accumulo sedimentario. Non è un fenomeno eccezionale, solo che a Campochiaro esso assume una configurazione spettacolare. Per quello che qui ci interessa si evidenzia che gli spessori dei depositi sono maggiori nella zona superiore della conoide dove si stempera l’energia del torrente e tale differenza di grandezza dello strato dei detriti tra l’alta e la bassa pianura si spiega anche nell’ipotesi di una piana alluvionale perché ogni corso d’acqua via via che prosegue il suo percorso abbandona materiali sempre meno grossolani. Riprendiamo la prima interpretazione indicata all’inizio: se suffraga la lettura della piana di Campochiaro quale piana alluvionale l’indizio significativo della planarità dell’area, manca, però, il “requisito” dell’essere solcata da un fiume con andamento a meandri. Le aste fluviali del Quirino nel quale esso confluisce e del già citato torrente La Valle sono pressoché rettilinee e non si colgono neanche terrazzamenti ai loro lati che avrebbero potuto far pensare ad un approfondimento dell’alveo conseguenza dell’incapacità di questi corsi d’acqua di scavarsi un letto nella massa di detriti da essi depositati che colmano la piana. Inoltre, ad eccezione dell’ambito prossimo all’abitato di Campochiaro, non si ha memoria di quelle inondazioni periodiche che caratterizzano una pianura alluvionale e, del resto, non  si sono rese necessarie opere di bonifica idraulica come avviene in altre situazioni. Soffermandoci su tale punto è da dire che l’assenza di risorse irrigue ha imposto quale uso del suolo il pascolo o la coltivazione di seminativi asciutti e, pure, impedito l’affermazione di un bosco planiziale che più spesso è igrofilo, gli alberi in questo areale rimanendo confinati alle sponde fluviali. Deve, di certo, concorrere il fatto che lo strato pedologico sia poco evoluto mancando il limo il quale viene depositato dai corsi d’acqua nel loro tratto finale. Il particellario agrario è irregolare, ben diverso da quello della centuriatio romana di cui, invece, vi sono tracce nella prossima piana di Sepino, rivelatore dell’impegno di questa antica civiltà a favore dell’agricoltura. Anticipando un tema che tratteremo in seguito, per via di questa scarsa potenzialità agronomica non è opportuno che nel ripristino delle cave la destinazione sia quella colturale a meno che si prevedano colture estensive. Si è accennato, a proposito della consistenza degli accumuli di inerti nel sottosuolo, di una fascia di pianura denominata alta e di una bassa e, adesso, precisiamo che sotto l’aspetto morfologico la piana si presenta morfologicamente omogenea. Ciò denuncia che a prescindere dall’altezza del materiale presente al di sotto della superficie vi è un’uniformità dell’origine geologica la quale è il fattore determinante della piattezza del comprensorio. Oltre al livellamento morfologico vi è la scarsa presenza di attività antropiche ad ispirare un senso di monotonia. In genere,

 in Italia sono  le piane il luogo più modificato dall’uomo e basta, per rendersi conto di ciò, pensare all’espansione degli abitati la quale ha privilegiato le superfici pianeggianti. Qui c’è solo una striscia in cui si addensano capannoni produttivi (l’agglomerato Industriale di Campochiaro) e importanti arterie stradali (la Statale 17) e ferroviarie (la linea Campobasso-Boiano), infrastrutture che hanno sempre privilegiato le piane. Non si può prendere per strada il tratturo il quale attraversa longitudinalmente l’area; ad esso si affiancano due sepolcreti, l’uno protostorico in località Cantoni e l’altro a Vicenne di epoca altomedioevale, che, peraltro, sono in qualche modo testimonianza per l’isolamento che richiedono i cimiteri di uno stato di rarefazione della frequentazione umana, salvo che nelle transumanze già in epoca remota. Oltre alla geomorfologia che qui disegna un piano (con pendenza massima al 4%) i tracciati minori, privi di curve e che si incrociano ad angolo retto, suggeriscono l’immagine di un sito regolato da leggi geometriche. Passando da ciò che è visibile a ciò che è invisibile, in questo caso la falda freatica si è sicuri della sua presenza poiché la copertura del suolo è costituita da materiale permeabile; negli ultimi decenni si è paventato spesso il rischio dell’abbandono di rifiuti nel ex-cave il quale potrebbe minacciare l’integrità delle acque sotterranee facilitando i siti estrattivi l’accesso di inquinanti nel sottosuolo. Lo abbiano solo sfiorato fino ad adesso ed ora affrontiamo in maniera più estesa il tema delle cave, il principale fattore di degrado ambientale di questo paesaggio planiziale il quale, altrimenti, per la ridotta urbanizzazione conserva un certo grado di naturalità. La sua principale risorsa sembrano essere proprio gli inerti. L’escavazione è favorita dalla facilità della sua esecuzione con mezzi meccanici. Siamo di fronte a cave per la produzione di brecciolino a volte di modeste dimensioni e a volte estese, ma sempre poco profonde. Molte di queste sono state aperte tanti anni fa quando il controllo sull’ambiente, il quale si andrà intensificando a partire dagli anni ’70, era limitato. Era il periodo in cui nella nostra regione si registrava la maggiore dinamicità edificatoria della sua storia e le buche di Campochiaro servivano per l’approvvigionamento a buon mercato degli inerti. Sono gli stessi decenni nei quali si costruirono le grandi infrastrutture necessarie per il passaggio da una società contadina ad una più moderna e anch’esse avevano bisogno di materiali di cava. C’è, infine, il vasto bacino da cui si  estrae il calcare, componente essenziale per il cemento che si produce nel vicino stabilimento di Guardiaregia. Al fine di rimarginare la ferita inferta a questo territorio si rende inevitabile predisporre una strategia complessiva dei siti estrattivi, quasi un parco minerario, piuttosto che limitarsi al recupero di singole cave. 

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Bagnoli
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Per comprendere un paesaggio è bene partire da uno degli elementi principali che è la rete idrografica. Nella descrizione dell’idrografia di quest’area bisogna partire dal tronco, per così dire, iniziale cioè dal Trigno. Esso c’entra con Bagnoli non solo perché costituisce il confine amministrativo con Civitanova (l’unico tratto del perimetro comunale delimitato da un fiume), ma anche perché vi confluisce il torrente Vella il quale nasce fra Pietracupa e Duronia e attraversa tutto l’ambito territoriale di Bagnoli. È bene pure, sempre per comprendere la struttura paesaggistica, partire, ancora un termine usato all’inizio, da più lontano, dall’esterno del comune di Bagnoli, dal corso dell’asta fluviale che precede quest’ultimo. È davvero interessante vedere come il Trigno che fino a quel momento procede in direzione sud-est improvvisamente, a causa dell’impatto con i primi contrafforti del sistema alto collinare e montuoso che trova il suo culmine nella Montagnola, appena raggiunto Bagnoli, sterza verso nord; ulteriore inversione di rotta compie subito dopo aver superato Bagnoli quando incontra il Verrino che sta andando pur esso verso meridione. È un incontro e nello stesso tempo uno scontro in quanto le loro rispettive correnti sono divergenti e con l’unificazione il Trigno, il corpo idrico maggiore, si dirige ad oriente come si conviene ai corsi d’acqua appenninici, si pensi al Biferno e al Fortore. Nel Trigno confluisce anche il Vella e ciò avviene in un punto molto prossimo a quello nel quale il Verrino si versa nel medesimo fiume. Questo luogo si chiama Sprondasino, uno dei momenti di più forte significatività del territorio di Bagnoli. È un posto di convergenza di molteplici cose, dai corsi d’acqua ai percorsi tratturali alle strade per via del ponte che scavalca il Trigno. Per quanto riguarda i tratturi Sprondasino è la conclusione del Tratturello. L’unico riconosciuto come tale nella classificazione ufficiale, che da Ateleta porta, appunto, a Sprondasino e qui avviene il contatto tra quest’ultimo e il Celano-Foggia. È un crocevia notevole, dunque, sottolineato dalla presenza di una locanda. È interessante osservare che ben due tratturi sono tangenti ai confini di Bagnoli, il secondo  dei quali è il Castel di Sangro-Lucera che proprio quando raggiunge i margini di questo paese abbandona, figurativamente, il Trigno con il quale si era accompagnato per un lungo pezzo nell’Alto Molise poiché il Trigno, come abbiamo visto, svolta mentre il tratturo continua diritto risalendo l’accentuato versante che porta a Duronia. Rimanendo nel tema del sistema idrografico si nota che il centro abitato di Bagnoli è equidistante, pressappoco, dai due corpi idrici più grandi (in verità gli unici se si escludono alcuni minimi rivi, il vallone Chiaia, il vallone Ripa, ambedue affluenti del Vella e quello che passando per la Madonna di Valle Bruna termina nel Trigno); è interessante osservare che se il nucleo urbano di Bagnoli non è baricentrico rispetto al territorio di appartenenza lo è qualora si esclude quella metà del bacino fluviale del Vella, il quale occupa circa due terzi dell’ambito territoriale di Bagnoli, che si accosta a Salcito.

 A proposito di baricentricità dell’insediamento abitativo si specifica che quella appena vista è relativa alla sezione trasversale dell’ambito comunale, mentre se ci si riferisce a quella longitudinale si constata che l’agglomerato insediativo se planimetricamente è centrale non lo è altimetricamente essendo situato a m. 635 e le quote del territorio massime e minime, poste l’una sul lato superiore l’altra in quello inferiore del perimetro (cosa peraltro che ci fa capire che la nostra area ha un andamento altitudinale decrescente il quale sarebbe continuo se non vi fosse il picco del rilievo roccioso sul quale si erge l’aggregato storico), sono m. 354, Sprondasino, e m. 783, Colle Silvestro. Sorprende che la piana, molto piccola, sta al di sopra del paese, dunque, un altopiano, e non al di sotto e ciò è dovuto al fatto che, inopinatamente, la pianura della vallata del Trigno appartiene a Civitanova pur essendo assai più prossima a Bagnoli. Si è parlato finora di idrografia e di orografia ed adesso si affronta la componente, diciamolo pure, più appariscente del contesto paesaggistico di Bagnoli che è la geologia. Il centro urbano separa, guardando il perimetro comunale trasversalmente, la formazione geologica del Flysh di S. Bartolomeo da quella delle Argille Varicolori. Si va preannunciando quello che avverrà un po’ più in là, cioè la fine del mondo delle argille che coincide con l’intera parte mediana della regione e l’inizio di quello delle arenarie che invece, connota il comprensorio alto molisano. Gli spuntoni calcarei che emergono dal suolo argilloso si infittiscono come numero proprio in quest’ultimo lembo del regno delle Argille Varicolori. Alcuni di essi sono Siti di Importanza Comunitaria in quanto habitat rari, prendi m. La Civita della confinante Duronia oltre che la Morgia di Bagnoli, Geositi e sede di localizzazione di insediamenti umani tra i quali si citano, accanto alla Morgia di Bagnoli, la rupe di Pietracupa, la Morgia Pietravalle con le sue cavità, rifugi fin dalla preistoria, e, di nuovo, La Civita di Duronia dove gli storici immaginano l’ubicazione dell’antica Maronea pur senza che siano state rinvenute tracce di fortificazioni le quali, del resto, non sono presenti neanche nella Morgia di Bagnoli e ciò è comprensibile se si riflette sul fatto che queste rocce sono naturalmente predisposte alla difesa; quelli elencati sono gli aspetti comuni, accanto ai quali ve ne è uno che le rende diverse fra loro ed è la forma fisica, ciascuno possedendo sembianze uniche in conseguenza della conformazione imprevedibile dell’ammasso roccioso, delle bizzarrie connaturate nella roccia. La Morgia di Bagnoli si distingue per la stretta integrazione tra elemento naturale e manufatti antropici, il campanile della chiesa di S. Silvestro e il palazzo feudale dei Sanfelice. Il dislivello di 110 metri di questa Morgia tra il basamento che è a m. 580 e il vertice a m. 690 ne fa un episodio estremamente riconoscibile nelle visuali paesaggistiche, un riferimento percettivo forte e, contemporaneamente, affascinante per la fusione tra natura e cultura.   

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Il Parco delle Morge
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Prima di tutto occorre circoscrivere l’ambito di interesse i cui confini possono essere rappresentati, grosso modo, dalla grande distesa forestale del bosco di Pietravalle in direzione del Biferno e nella direzione contraria del corso del Trigno. Ciò in un senso, mentre nell’altro abbiamo che il limite è coincidente, da un lato, con la terminazione del mondo delle Argille Varicolori che si estende all’intero Molise centrale per cui rimane indeterminata la terminazione nel verso contrario. La superficie boscata denominata Pietravalle divide la ex diocesi di Limosano da quella di Trivento e, forse, il confine di quest’ultima che separa da quella di Limosano oggi inglobata nell’arcidiocesi Campobasso-Boiano e da quella di Guardialfiera adesso parte del vescovato di Larino-Termoli è la delimitazione secondo tale orientamento del nostro territorio. La diocesi di Trivento ricomprende per intero l’area di cui ci occupiamo. Si è parlato dei fiumi ai quali è riconosciuto il ruolo di divisione dei comprensori (in verità, nel caso di studio non è il Biferno, bensì il bosco di Pietravalle, a fissare il termine ad est) mentre alla montagna si consegna la funzione di unificazione e così avviene qui con il monte Lungo, che è il baricentro, se non proprio fisico, però ideale della zona in studio. Esso con i suoi m. 975 è il fulcro delle vedute da ogni angolo del bacino territoriale essendo la vetta più alta. La montagna è un elemento puntuale e funge da riferimento visivo, al contrario della strada, quella che dall’altezza del bivio di Pietracupa conduce a Trivento, che è, invece, di tipo lineare e non riferimento nelle visuali, bensì luogo di osservazione dei panorami trattandosi di percorso di crinale che si sviluppa a cavallo delle valli dei torrenti Rivo e Vella. Il tracciato viario è ortogonale al tratturo Celano-Foggia che taglia trasversalmente il nostro comprensorio; essi si incrociano nella Piana di Salcito appena prima che la provinciale raggiunga il valico di monte Lungo, e per questo motivo tale posto è un passaggio obbligato. I due versanti separati dall’asse stradale appartengono a due province diverse, anche se, lo si rimarca, alla medesima unità diocesana che fa capo a Trivento. Seppure non si può utilizzare la definizione di «regione urbana» per l’ambito circostante Trivento sicuramente non è plausibile separare le realtà dei piccoli comuni prossimi, da Bagnoli a Salcito a Pietracupa a Duronia, da quella di questo centro antichissimo. Attualmente l’area è avvertita come marginale all’interno della organizzazione regionale, non solo per la sua perifericità geografica, al confine con l’Abruzzo, e per l’essere zona montana, ma un tempo Trivento, città sannita, municipio romano, sede vescovile era uno dei poli della struttura insediativa molisana e, di parte dell’Abruzzo e questa centralità territoriale le continua ad essere riconosciuta per la carica simbolica che si porta dietro. Nonostante la contiguità con l’Abruzzo e il fatto che la sua diocesi, inglobando, intorno al 1000, quella di Alfedena si stende anche al territorio abruzzese, Trivento non ha mai oscillato tra due regioni a differenza, per intenderci, di altre zone di confine, Venafro, Termoli e il Sannio Beneventano a testimonianza della sua forte identità molisana. Legame con la regione e legame con il posto tanto che i comuni, a cominciare da Trivento, hanno nel loro nome un riferimento al sito in cui sorgono: Fossalto al fosso, Pietracupa alla pietra, Salcito al salice e Trivento i 3 monti che la circondano. Si ritiene a questo punto completato l’inquadramento dell’assetto geografico e l’esame della sua evoluzione e ora dobbiamo passare a vedere qual è il carattere che rende peculiare questo paesaggio e che ha portato a ritagliarlo nel modo che si è fatto. Esso è rappresentato dalle emergenze rocciose che lo costellano, le cosiddette morge, di chiaro valore paesaggistico anche quando scarsamente percepibili parchè basta a renderle affascinanti il loro essere misteriose e, dunque, la forte carica semantica. Si sta parlando, per quanto riguarda le morge non distinguibili allo sguardo con immediatezza, di quelle collocate nel tratto intermedio del torrente Rivo che è distante dai centri abitati con morge. Esse sono Pietra Montino e Pietra Lummana che si scorgono solo in lontananza a differenza di Pietra Feuda e di Pietravalle le quali son o poste agli estremi, rispettivamente inferiore e superiore del corpo idrico, in posizione visivamente assai esposta. A queste morge, prendendo come riferimento la strada provinciale per Trivento, sullo stesso lato troviamo la rupe sulla quale sorge Pietracupa. Sul lato opposto abbiamo la morgia di Bagnoli e, più in là, quella prossima all’abitato di Duronia il cui nome Civita, evoca la presenza di un presidio umano. I massi rocciosi che spuntano dal mare delle argille nel quale sembrano essere stati infissi da qualche gigante non sono esclusivi di questa zona la quale costituisce l’ultimo lembo delle Argille Varicolori (chiamate pure Scagliose) perché esempi altrettanto interessanti vi sono anche nella rimanente porzione della fascia mediana della regione, uno per tutti la Rocca di Oratino. Qui, però, le morge si infittiscono tanto da conferire un’impronta precisa al paesaggio. Le morge, come sappiamo, sono identiche fra loro e addirittura qui esiste un’autentica antologia delle morge. La morgia Pietravalle è detta morgia dei briganti poiché vi sono una serie di cavità che potevano essere dei rifugi nel periodo del brigantaggio. Le formazioni lapidee che ospitano, per così dire, i paesi di Bagnoli e di Pietracupa spiega l’assenza di cinte murarie a difesa di tali comuni assicurando la loro protezione già l’asperità della roccia; le architetture, vedi la chiesa e il castello di Bagnoli e la cavità destinata a luogo di culto a Pietracupa (è stata sempre avvertita nelle civiltà trascorse la sacralità delle caverne) che vi si installano tendono a integrarsi all’ambiente rupestre. La Civita di Duronia era stata scelta, magari dai sanniti durante i periodi delle guerre contro i romani per protezione sfruttando la sua forma affilata. I processi geomorfologici, come questo dell’emersione delle rocce che si ergono nell’immagine paesaggistica (oltre che nell’immaginario collettivo), a seguito dell’erosione delle argille che le attorniano le quali sono assai meno resistenti del calcare, sono tra i fenomeni più spettacolari del paesaggio e il paesaggio delle morge è così uno dei più belli del Molise.

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Il ponte dell’Arcichiaro non era quello che vediamo oggi, così ardito, elevato, con uno dei primi impalcati in cemento apparsi nel Molise tanto che nella vulgata corrente viene chiamato «ponte del diavolo» (un indizio di quel sentimento di paura suscitato dalla gola di cui parleremo dopo), denominazione affibbiata ai ponti a schiena d’asino medioevali, strutture anch’esse impressionanti sotto l’aspetto tecnico. Con la costruzione della diga venne demolito l’antico ponte al quale quello moderno si sovrappone nello stesso sito, ma molte decine di metri al di sopra; un ponte qui è sempre stato necessario perché la strada che esso serve è l’unico percorso viario che permette di superare il massiccio del Matese raggiungendo il valico di Sella del Perrone. I viaggiatori di un tempo non apprezzavano, di certo, la suggestione della gola del Quirino che erano tenuti ad attraversare per andare in Campania, bensì, al contrario, avvertivano un senso di fastidio. Il medesimo modo di sentire verso gli elementi naturali più aspri è quello dei contadini, almeno nel passato, i quali ammiravano alcuni angoli del territorio in quanto sfruttabili dal punto di vista agricolo; non è, comunque, questa una valutazione solo dei coltivatori se si pensa al trecentesco affresco del Buon Governo a Siena nel quale è raffigurata, con compiacimento, una campagna ben curata. Ritorniamo al ponte per dire che le vedute dall’alto nel caso delle gole forse sono maggiormente stimolanti di quelle dall’interno dove si ha un campo visivo troppo angusto. Un punto di visione dell’identico tipo è la parte storica dell’abitato di Guardiaregia il quale si deve essere localizzato immediatamente ai margini della gola perché così, da questo lato, si rendeva inespugnabile. Le pareti della gola sono pressoché verticali e perciò per chi le osserva vertiginose anche se non sempre su di esse affiora la pietra, talvolta lo scoscendimento diventando meno accentuato, non del tutto a strapiombo, è rivestito di boscaglia e, a tratti, di un manto erboso che addirittura sembra pendulo. Si tratta di specie vegetali particolari tra le quali si segnala il tasso e i raggruppamenti arborei antichi si perpetuano lì dove l’orografia è impervia. Questo è uno degli ambiti più selvatici del Molise ed è, perciò, compreso nell’Oasi WWF. La natura originaria è quasi ovunque scomparsa e quelle che oggi chiamiamo aree naturali e, pertanto, le tuteliamo possono essere, prendi le faggete ad alto fusto e i pascoli d’altitudine, delle formazioni vegetali che risentono di un forte condizionamento antropico attraverso, per i boschi, il taglio periodico e, per le praterie, l’alpeggio. Unicamente le rocce e le gole, per via dei versanti a perpendicolo, non sono state appetibili per l’uomo. L’inaccessibilità della gola del Quirino ne fa il luogo più integro naturalisticamente (insieme alla gola del Pesco Rosso a Monteroduni) dell’intero complesso montuoso matesino. La gola suscita emozioni negli appassionati della wilderness, un concetto nato in America mentre da noi piuttosto che la contemplazione del mondo selvaggio si apprezzava, influenzati dal Romanticismo, le ascensioni sulle vette, specie se condotte in solitario, perché portano ad una elevazione dello spirito. In ogni caso si è sempre di fronte al nuovo atteggiamento per il quale il paesaggio diviene un argomento estetico. Rousseau con il mito del “buon selvaggio” propugna il ritorno allo stato naturale da parte dell’essere umano da cui deriva la nascita del cosiddetto sentimento della natura. Tanti pittori raffigurano immagini di squarci paesaggistici alpini e di mari in tempesta e ciò porta a stimolare i turisti  che sostituiscono ormai i viaggiatori del Grand Tour in quanto nel tempo si è affermato il fenomeno del turismo di massa, a fare esperienza degli ambienti incontaminati, di nuovo le zone alpestri, le coste rocciose, dirupi, voragini, grotte e così via. Si tratta di esperienze della natura saltuarie, non di una vera presa di coscienza, limitata com’è a momenti circoscritti, coincidenti con le ferie, un’altra espressione della società contemporanea, durante le quali si vuol interrompere il tran tran della vita quotidiana (simile considerazione vale per il week end). Si è alla ricerca dell’«orrido», del «sublime», secondo la terminologia dei Romantici e la gola del Quirino ha sempre affascinato i corregionali poiché capace di evocare tali sensazioni. C’è una componente diversa rispetto al godimento estetico usuale che rende pregnante la veduta della gola suddetta, aumentando il senso di terrificità o, meglio, tenebrosità che essa emana, la quale è legata alla consapevolezza dell’energia dei movimenti tettonici che hanno interessato la crosta terrestre. Essa, infatti, costituisce una discontinuità, quasi un solco che separa nettamente due porzioni di una montagna che per il resto nelle sue pendici si presenta compatta visivamente, essendo scarsi i corsi d’acqua che originano in quota e, dunque, i valloni che la incidono. La gola del Quirino non è definita faglia e, tanto meno, «attiva», ma piuttosto una frattura dovuta alla rigidità del calcare, il substrato geologico di questo rilievo montano, il quale tende a spezzarsi sotto le spinte endogene, le forze che hanno modellato la terra, invece che a piegarsi dando vita a morfologie non così dure; rimane l’associazione spontanea con la pericolosità tellurica dato che il Matese è uno dei comprensori a maggiore rischio sismico della regione. Incuteva timore, quando l’invaso dell’Arcichiaro non esisteva il quale funge da bacino di laminazione, il rigonfiamento nelle stagioni piovose e a seguito dello scioglimento delle nevi del Quirino le cui piene, con il trasporto dei detriti a valle, hanno contribuito alla formazione della piana; lo scorrere delle acque nella gola, peraltro, le conferisce una certa vivacità, percepibile da coloro  che vi si inoltrano, per il contrasto con l’immobilità delle rocce. Ad animare lo scenario vi è anche il volo, ora davvero solitario, degli uccelli (tra i quali fino ad alcuni decenni fa si annoverava l’aquila la quale nidificava nei costoni della gola); ad essi si vanno ad aggiungere le persone che amano i gesti avventurosi, le emozioni estreme, quelle che si provano nell’essere trascinati da una carrucola, sulla quale si viene imbracati, sospesa su un filo di acciaio teso tra le due opposte sponde della gola. Il progetto, presentato dal Comune di Guardiaregia, prevede opere simili a quelle già realizzate nelle Dolomiti Lucane; in qualche modo non modifica ciò che si avverte guardando la gola, cioè i brividi e contemporaneamente il piacere dell’«orrido».                               

la gola del Quirino
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Quella di Macchia d’Isernia è una fascia di terreno orizzontale oblunga che sebbene non molto larga è ben leggibile quale pianura specie se messa a confronto con i rilievi che la delimitano; da un lato, sempre longitudinalmente, essa è chiusa dai primi contrafforti del massiccio del Matese le pendenze dei quali rendono ancora più netta l’immagine della piana in quanto tale per il forte contrasto morfologico delle due entità territoriali, mentre dall’altro lato, iniziano la serie di colline che, susseguendosi l’una dopo l’altra, raggiungono i mille metri di quota della dorsale che congiunge Acquaviva a Forli e Rionero. Precedono queste formazioni più o meno montagnose, da ambedue le parti sempre nel verso più lungo di questa vallata (la possiamo definire anche così per la ragione che vedremo appresso), due corsi d’acqua e cioè il torrente Lorda sul versante matesino e il fiume Cavaliere nel lato opposto. I corpi idrici sembrano aver cura di porsi ai limiti della piana che essi stessi hanno contribuito a formare (il substrato è fatto di detriti alluvionali) e che, perciò, come anticipato nell’inciso, è legittimo, in qualche modo, chiamare valle. In direzione di queste aste fluviali il suolo tende a degradare e, dunque, si distinguono nella medesima superficie pianeggiante, ma non del tutto, due zone laterali più basse ed una centrale rilevata. Quest’ultima appare pressappoco piatta ed è la maggiormente estesa trasversalmente delle tre strisce nelle quali abbiamo immaginato di distinguere la nostra pianura. Essa è la sede delle attività antropiche ed ospita il tracciato della superstrada e quello della ferrovia che corrono affiancati lungo la isoipsa più alta che è pressappoco la linea mediana, ancora in lunghezza, della piana. Del resto le infrastrutture di trasporto non si sarebbero mai avvicinati agli alvei per i pericoli di inondazione. La strada, intendendo sia quella carrabile sia quella ferrata, taglia in due la pianura con alterazione della sua qualità paesaggistica per la perdita dell’unitarietà, anche se l’andamento della coppia linea ferroviaria–arteria viaria seguendo la conformazione allungata di questa pianura ne viene a confermare questo suo essenziale carattere visivo (per intenderci, se avesse dimensioni identiche nei due versi ortogonali l’uno all’altro, chiusa com’è da alture lungo tutto il perimetro, percettivamente sarebbe potuta essere letta quale conca piuttosto che valle e il fascio infrastrutturale ci aiuta ad interpretarla così). Questo canale di comunicazioni costituisce, inoltre, una barriera lineare che interrompe la continuità ecologica impedendo la diffusione delle specie animali e   vegetali presenti nel Sito di Importanza Comunitaria e Zona di Protezione Speciale del Matese.

Finora si è discusso della suddivisione della pianura secondo la sua estensione massima e adesso vediamo che vi sono differenze al suo interno pure tra, per così dire, il capo e la coda dell’ambito in studio, particolarmente in riguardo all’insediamento umano che si concentra nella zona mediana lasciando liberi gli imbocchi, superiore e inferiore perché vi è un lieve declivio, della vallata. Ci soffermiamo un attimo sulla vicinanza tra strada e ferrovia per due considerazioni non legate fra loro: la prima è che la superficie interclusa tra le due è a tratti assai stretta e anche quando i tracciati si allontanano un poco non si configura mai un paesaggio compiuto per cui rimane un’area residuale, un non luogo e la seconda è che il progetto di autostrada molisana si misura sulla ristrettezza di spazio per  il passaggio di questa infrastruttura viaria a corsie multiple per la presenza dei binari da una parte e del colle su cui sorge l’abitato di Macchia dall’altro o, da questa stessa parte, dei capannoni commerciali e dell’ex cimitero. Se la strada ferrata non è tanto remota risalendo al XIX secolo il percorso stradale è assai antico risalendo almeno al periodo romano. Esso era la via Latina che si diparte dalla “strada degli Abruzzi”, l’odierna Venafrana con la sua prosecuzione che è la fondovalle del Volturno, all’altezza di Roccaravindola per penetrare, e controllare, nella nazione sannita. Ad Isernia che era una colonia dei romani, una sorta di avamposto di questo popolo nel cuore del Sannio pentro, la via Latina si congiunge con la via Minucia che segue il tratturo Pescasseroli-Candela. La strada della quale stiamo parlando è orientata in direzione ovest-est e il corridoio geografico sul quale si assesta è uno dei pochi possibili per collegare l’Adriatico (tramite il corso del Trigno o del Biferno) con il Tirreno;

è interessante osservare che l’orientamento da oriente a occidente è perpendicolare a quello delle piste tratturali che, invece, si sviluppano da nord a sud. Il ruolo strategico ai fini dei collegamenti della piana di Macchia d’Isernia è dimostrato dalla permanenza (su per giù) nei millenni del sedime viario al contrario di altre decisive arterie dell’antichità, appunto la via Minucia, la cui direttrice di percorrenza ha subito negli ultimi tempi un cambiamento sostanziale non inerpicandosi più sul Macerone, bensì sfruttando il varco offerto dal fiume Vandra, con la costruzione dell’Isernia-Castel di Sangro. Bisogna aggiungere che nella nostra regione si vanno aggiungendo altri rami della rete viaria, si pensi alla Fresilia o alla Rivolo, e che ve ne sono ulteriori in cantiere, il Castellerce o la Vella ad esempio, che non ricalcano alcun tracciato storico, ma che l’ossatura principale rimane la viabilità secolare tanto che il disegno autostradale, perlomeno fino a Campobasso, pedissequamente si sovrappone ad essa. Una strada non è solo il manufatto viario, bensì include pure le strutture di servizio ad essa connesse, prendi le cappelle religiose e le taverne. Una di esse è collocata proprio al bivio di Macchia che è al centro (baricentro?) della piana, classica collocazione per tali opere le quali prediligono gli incroci poiché punti di traffico intenso. Le taverne non vanno viste da sole essendo parte di una catena studiata per garantire la sosta ai viaggiatori e il trasbordo delle merci, motivo quest’ultimo per l’addensarsi in prossimità della taverna di iniziative commerciali; le varie aziende che si sono localizzate nella piana di Macchia hanno dunque degli antecedenti in tale attività di vendita e ciò lo si dice senza rinunciare ad osservare che nei giorni nostri il commercio è nettamente superiore a quello precedente. I fabbricati per lo smercio condizionano l’aspetto visivo della zona con le loro insegne, l’illuminazione, ecc. relegando in posizione secondaria (ci stiamo riferendo all’automobilista che passa di qui) i segni tradizionali. Tutt’al più si instaura una convivenza, forzata per le preesistenze, tra gli elementi della modernità e le testimonianze delle civiltà trascorse.

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I GEOSITI

i geositi

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Le risorse ambientali, sulle quali fondare le nostre prospettive turistiche, sono pressoché infinite come dimostra l’interesse recente posto sulle emergenze geologiche finora poco considerate. Il merito di questa, per così dire, scoperta va attribuito innanzitutto all’Unesco che nel 1995 ha iniziato un’attività di promozione di tali beni. Per l’Italia è stata l’Ispra, in collaborazione con le Regioni tra le quali c’è anche il Molise, ad effettuare un censimento completo sul suolo nazionale che ha portato alla catalogazione di ben 3.500 geositi (che sta per siti geologici). Per quanto riguarda l’apporto degli uffici regionali è da evidenziare che la loro autonomia nel censire le formazioni geomorfologiche è stata limitata dovendosi necessariamente avere un coordinamento nazionale, altrimenti a fatti come i circhi glaciali, vedi quello di m. Miletto, i quali sono una rarità sull’Appennino, ma non nelle Alpi sarebbe stato attribuito un valore eccezionale. In verità, tornando al tema della primogenitura del riconoscimento di valore ad aspetti particolari della geologia, essa non spetta, almeno nel nostro Paese, all’agenzia internazionale che si occupa di cultura perché la legge sulle “bellezze naturali” del 1939 già riteneva meritevoli di tutela “le cose immobili che hanno cospicui caratteri di . . . singolarità geologica”. Gli episodi geologici hanno cioè valore di Bellezze Individue, una delle due categorie di cui si compone il patrimonio paesaggistico, l’altra è le Bellezze d’Insieme. Le prime possono essere incluse nelle seconde, cioè nei paesaggi degni di tutela, ma, comunque, conservano una propria specificità essendo soggette ad un’imposizione di vincolo specifico.

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I geositi, sempre nel nostro Stato e sempre antecedentemente all’iniziativa promossa dall’organismo dell’ONU, siamo nel 1991 quando venne varata la Legge Quadro sui parchi, sono assimilabili agli elementi di piccola scala con valenze naturalistiche. È un’ulteriore misura vincolistica che si aggiunge a quella stabilita dalla normativa per la protezione delle peculiarità non della natura in senso proprio ma questa volta percettive cui si è accennato. La predetta disposizione legislativa sulle aree protette sembra restringere la possibilità di sottoporre a salvaguardia la conformazione della Terra solo qualora si tratti di superfici limitate. Da qualche anno, invece, si comincia a parlare di geositi anche per porzioni ampie di territorio ed a questo è seguito nel dibattito sulle aree protette la proposta di poter avere parchi nei quali è insita la vasta dimensione, coincidenti con geositi estesi.

La stessa Unesco ha riconosciuto la validità dell’iniziativa che ha portato alla formazione della Rete Europea dei Geoparchi. La SIGEA ha avanzato l’idea di creazione di un geoparco pure per il Matese in quanto è un massiccio che ha caratteristiche unitarie di carsicità. L’essere un geosito grande non esclude che al suo interno vi siano geositi minori quali le doline, le cavità, l’anfiteatro formatosi a seguito della scomparsa del ghiacciaio. C’è una ulteriore misura di preservazione dei geositi che è legata alla conservazione della Biodiversità rientrando tanti di essi, dai calanchi Manes a Morgia Schiavone alla Forra di Arcichiaro, nella lista dei Siti di Importanza Comunitaria: i geositi per via del loro substrato roccioso, la morgia, o per quello argilloso quando il terreno è in forte pendenza, il calanco, o per l’essere sede di corso d’acqua, la forra, non sono mai stati considerati risorse utili per l’uomo, qualcosa da poter sfruttare e, pertanto, non sono stati alterati dalle attività antropiche, es. la coltivazione, e ciò ha determinato che gli habitat animali e vegetali lì presenti non siano stati distrutti. 

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A livello molisano è in cantiere un provvedimento legislativo riguardante il «parco delle morge», gli spuntoni rocciosi posti lungo il torrente Rivo tra Pietracupa e Trivento, il quale si muove nel campo della promozione di tali beni. Sono varie le idee sulla valorizzazione di questo patrimonio ambientale che meritano di diventare cose concrete come il progetto di itinerari e di visite guidate, la realizzazione dei percorsi attrezzati (vi è già uno che riguarda la Morgia dei Briganti), la pubblicazione di volumi scientifici o di guide turistiche (quello comprendente la catalogazione dei geositi dell’Alto Molise voluto dall’Assessorato regionale al Turismo è pronto, ma non è stato ancora diffuso). I geositi e in genere le manifestazioni geologiche meritano di essere custodite anche per i rimandi culturali dei quali più di uno di loro sono carichi. Le grotte sono, da un lato, paurose essendo il nascondiglio di banditi (la citata Morgia dei Briganti) e, dall’altro lato, sono cariche di misticismo (la chiesetta rupestre di Busso); le irregolarità dei massi pietrosi suscitano anch’esse contrastanti emozioni, tanto di terrore (l’impronta della mano del diavolo presso S. Egidio di Boiano) quanto di tipo devozionale (la “pedatella” di S. Margherita a Colledanchise, quasi un calco del piede della santa); viene da precisare, perlomeno per quanto riguarda i segni misteriosi sui blocchi lapidei, che i nostri antenati erano suggestionati dalle particolarità geomorfologiche nonostante l’esiguità delle tracce lasciate, si prendano i “campanarielli” di Roccamandolfi che sono delle ardite guglie, alla stregua di quelle dolomitiche.

Pure quando il calcare non è nudo, cioè a vista, bensì coperto parzialmente da vegetazione, esso è in grado di ispirare visioni fantastiche come denuncia il nome attribuito dagli abitanti di S. Massimo di Pietra Palomba (che significa piccione) a quella gobba del rilievo montuoso che si protende nella valle quasi volesse spiccare il volo.

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