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Il lanificio di Sepino

Aggiornamento: 29 dic 2023



L’ex lanificio Martino iniziò a funzionare nel 1886, contando 18 addetti nel 1931, è stato dichiarato fallito nel 1970 e quindi abbandonato. Del resto non era possibile continuare la produzione dei tessuti di lana con macchinari azionati ad energia idraulica mentre la concorrenza già da tempo aveva adottato altre forme di energia, prima il vapore e poi quella elettrica, per il funzionamento della fabbrica.

La storia del lanificio che pure non è molto lunga, essendo durata meno di un secolo, è comunque significativa. Lo sviluppo dell’industria tessile che ha portato alla meccanizzazione delle operazioni di filatura e di tessitura nel XVII secolo in Inghilterra ha coinciso con l’avvio della “Rivoluzione industriale”.



Qui da noi questo processo, che sembra oggi bloccato, è quindi in ritardo di oltre cent’anni.

È interessante pure capire la logica seguita nella ubicazione dello stabilimento. L’opificio è situato vicino ad un ponte, cioè quindi ad una strada per il trasporto delle merci, ed al segmento di corso d’acqua, il torrente Tappone, dove vi è maggior corrente ai fini della spinta idraulica (lo rivela la cascata dell’immagine fotografica).



Meritano attenzione inoltre le caratteristiche architettoniche del fabbricato il quale era connotato dalla presenza di locali ampi e di ariose finestre. La grandezza dei vani è connessa alla necessità di raggruppare in un limitato numero di spazi le varie macchine in modo che potessero essere tutte azionate da un’unica fonte centrale di energia. Infatti, il moto rotatorio della turbina idraulica veniva trasmesso con successivi passaggi ad un albero orizzontale di trasmissione a cui era collegata, per mezzo di una cinghia, ogni macchina.

Le finestre grandi invece rispondono alla necessità di dare ai posti di lavoro il massimo di luce solare. Al lanificio è collegato un mulino il quale sfrutta l’acqua di scarico del primo e ciò può essere dovuto ad un accordo che permise all’imprenditore tessile di sfruttare qualche antica concessione di derivazione idrica assentita al mulino. L’accostamento tra mulino e lanificio ci mettono in evidenza che se le macchine idrauliche per la produzione di tessuti erano fino ad allora sconosciute, era invece diffuso l’uso della forza motrice dell’acqua per altre applicazioni.





 





Si ripubblica un intervento uscito su IL BENE COMUNE che descriveva il lanificio,

quando l’organismo architettonico era ancora interamente in piedi e le sue macchine

erano ancora visibili. La situazione attuale è quella di un fabbricato crollato 

e il macchinario è sepolto dai detriti



IL RECUPERO DEL LANIFICIO MARTINO A SEPINO

(CON I SUOI MACCHINARI)


Il lanificio Martino merita di essere restaurato per molti motivi. Tra questi uno dei più importanti è che in esso sono conservati ancora tutti i macchinari originari. In effetti, siamo di fronte ad una situazione particolare, almeno per il Molise, che è quella di un insieme di edificio e attrezzature interne che è in nuce, un museo completo. Qui non si tratta di recuperare il “contenitore” architettonico oppure le macchine separatamente, ma di vederle come cose indissolubili. A differenza di quanto si verifica usualmente per gli edifici monumentali nel momento in cui vengono destinati a museo, qui non occorre reperire altrove gli oggetti di interesse storico o artistico da esporre perché il contenuto è già pronto.



In altri termini il lanificio può diventare il museo di sé stesso. Rimanendo in tema di tutela, va sgombrato il campo da una possibile obiezione che avendo quest’area un ricco patrimonio archeologico, architettonico e naturalistico vincolato estendere la salvaguardia anche alle testimonianze di archeologia industriale rischia di provocare la paralisi del territorio. A questa probabile osservazione si può controbattere facendo rilevare che la nostra regione risulta tagliata fuori dal processo di industrializzazione che ha investito l’Italia dall’inizio del XX secolo e che, pertanto, i manufatti di archeologia industriale da salvare sono relativamente pochi. In aggiunta occorre dire che fabbriche conservate con le loro attrezzature come questa sono rimaste in numero davvero esiguo in Molise. La loro rarità se, per un verso, è un dato negativo, per un altro, può rivelarsi positivo perché consente di concentrare gli sforzi su una limitata serie di esemplari.



Quello che, forse, è più urgente recuperare è la macchina, la quale se è un elemento poco percepibile in una lettura a scala territoriale è stata la principale protagonista della rivoluzione industriale. Il costante rinnovamento tecnologico nei processi di produzione industriale provoca un invecchiamento precoce dei macchinari che seppure ancora efficienti nella loro consistenza materiale vengono considerati nell’arco di un breve volgere di tempo superati dal punto di vista economico e tecnico e, perciò, sostituiti. Mentre le strutture murarie della fabbrica possono essere in qualche modo ripristinate è difficile comprendere i meccanismi di funzionamento delle diverse macchine del passato e quindi operare le necessarie riparazioni perché si è persa la conoscenza di come venivano azionati questi attrezzi nelle varie fasi di lavorazione. Il problema più preoccupante per l’ex lanificio Martino è proprio questo e cioè il capire lo scopo di tutti quegli ingranaggi, pignoni, alberi di trasmissione, cinghie, ecc. che rendono così affascinante il suo interno. Bisogna intervenire subito prima che si perda la memoria storica rappresentata dagli ultimi addetti che vi hanno lavorato (lo stabilimento ha chiuso nel 1971).



Neanche si può pensare sia facile trovare restauratori specializzati che operino a livello nazionale nel campo dell’archeologia industriale perché è un settore molto diversificato trovandosi una grande varietà di produzioni (ad esempio, le centrali idroelettriche, le cartiere, i pastifici ed, appunto, i lanifici); a fronte di questa estrema differenziazione di procedimenti industriali non è immaginabile che vi siano specialisti nel restauro che assommino tutte queste competenze. Rimanendo nel Molise e parlando solo di Campobasso (ma bisogna considerare che le prime industrie sono nate nelle campagne e non nelle città perché dovevano installarsi vicino ai luoghi di reperimento delle materie prime come, mettiamo, l’argilla per la fabbricazione dei laterizi e alle fonti di energia che è generalmente quella idraulica) vediamo che sono archeologia industriale il mercato di piazzetta Palombo, il macello di via Garibaldi, lo stabilimento Petrucciani per la produzione di mattoni e così via; di qui si vede la complessità di questo comparto e la vastità di conoscenze che sarebbe richiesta a coloro che devono operare per il recupero dei reperti di archeologia industriale.



Con ciò non si vuole sostenere l’impossibilità della salvaguardia per la quale è indispensabile in primo luogo uno studio approfondito attraverso registri contabili, le lettere di ordinativi, le liste delle spese effettuate che ancora è possibile salvare nella vecchia fabbrica, resi polverosi dai detriti che su di essi si sono depositati a causa del deterioramento delle strutture edilizie. Questo della conservazione dei documenti è un compito precipuo dell’Archivio di Stato così come degli Istituti Tecnici e Professionali (per inciso si rileva che l’Istituto d’Arte di Isernia ha una sezione dedicata al tessile e perciò interessata alla produzione della lana) nella convinzione che la tutela dell’Archeologia Industriale non è un’operazione dettata dalla nostalgia, ma da ragioni storiche.



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