A PROPOSITO DI SAN MASSIMO
1 - Casa signorile a San Massimo
2 - Caratteri di via San Rocco
3 - La fontana e il giardinetto pubblico di S.Massimo
5 - Il palazzo Gioia-Piccirilli, la collocazione urbana
6 - Il palazzo Gioia-Piccirilli e la diversità dei suoi fronti
7 - Il palazzo Gioia-Piccirilli alcuni aspetti architettonici
8 - Palazzo Gioia-Piccirilli un palazzo lungo una strada o in una piazza?

Casa signorile a San Massimo
Avremo presente all’orizzonte nella presente esposizione, a volte nominandola espressamente a volte non citandola, sempre una “casa palazziata”, traducibile in “casa sotto forma di palazzo”, che sta in via S. Rocco in S. Massimo. Adottiamo, prendiamo in adozione, questo edificio quale esemplare rappresentativo delle dimore signorili ottocentesche le quali si rinvengono in ogni paese del Molise poiché in tutte le realtà comunali si andò affermando in quel secolo il ceto dei “galantuomini”, le persone di
estrazione borghese che le abitano. Si denuncia che si è scelto di prendere tale fabbricato quale esempio perché se ne ha una conoscenza diretta. Non la si finisce qui con il preambolo perché c’è da aggiungere un’altra premessa che è quella che la descrizione è finalizzata a mettere in luce le differenze che intercorrono tra la concezione dell’abitare del passato, seppure limitato alla classe dei “don”, e quella odierna. Possiamo procedere. Nelle abitazioni antiche, sia popolari sia di un

certo rango, il loro spazio interiore è del tutto amorfo, le funzioni dei loro vani erano indifferenziate nel senso che la destinazione d’uso assolta non era esclusiva; oggi, per capirci i metri quadri e la lunghezza dei lati di una stanza da letto derivano da uno studio preciso, l’existenzminimum, sulla disposizione dei mobili mentre in precedenza era il mobilio a doversi adeguare alla stanza. Non è che nei palazzotti del passato non vi fosse una distinzione funzionale dei locali, ma essa era determinata solo dall’utilizzo che ne facevano coloro che vi vivevano; vedi le camere da letto, con l’eccezione della matrimoniale che rimaneva tale anche se i genitori erano ormai deceduti, quelle dei figlioli denominate con il nome di chi della prole la occupava, erano adattabili in breve, se la discendenza era esigua, in salottini oppure studioli. Un fatto linguistico, dunque, non ergonomico. Paradossalmente, nonostante l’elasticità
nell’attribuzione di funzioni ai vani che le compongono le case gentilizie rivelano una rigidità nella scomposizione della volumetria in più unità immobiliari, magari per suddividere lo stabile tra i successori; è questa, peraltro, una delle cause principali del loro abbandono, troppo grosse, dispersive, onerose da gestire per un unico nucleo famigliare. Sono assolutamente non conformi agli standards residenziali di oggigiorno. Il caso che abbiamo assunto quale riferimento è un caso a sé, per la casa palazziata sanmassimese il problema non si è posto perché uno degli eredi generosamente si è fatto carico di ricomprare le quote testamentarie del resto dei coeredi e di provvedere da solo alla manutenzione dell’edificio. Le residenze datate, non c’entra se grandi o piccole, si fa fatica ad abitare se non da parte di chi vi ha sempre vissuto, datato anch’egli, una generazione che va scomparendo.

Non riesce a fare presa per convincere i proprietari a mantenere viva la casa di famiglia neanche il fatto che sia, appunto, la casa di famiglia in cui sono custodite le memorie avite, neanche se si tratta di manufatti architettonici di prestigio. Il destino di tante di esse, che le ha salvate dal deperimento, è stato l’acquisizione da parte dei Comuni che le hanno trasformate in museo, municipio, centro culturale, casa di riposo. Se c’è una cosa in comune tra i palazzi storici e gli
alloggi attuali, si parva licet componere magnis essendo, è noto, le prime grandi e le seconde piccole, è la ripartizione interna fra zona notte e zona giorno. Nella fabbrica di v. S. Rocco del centro matesino le camere da letto stanno al piano superiore e la cucina affiancata alla camera da pranzo e soggiorno a quello inferiore. La domus parva non ha i locali di rappresentanza, all’apposto della domus magna; essi sono collocati al secondo livello il quale è denominato piano nobile.

Ci sono 2 cose da sottolineare a tal proposito, l’una è che si trovano al I piano che è il più distante dalla strada poiché destinati come sono a ricevimenti riservati, esclusivi devono aver luogo in un luogo appartato, l’altra è che l’ambito dedicato al riposo notturno ubicato al medesimo livello è, in particolare la camera degli sposi, oggetto di visite, legate all’esposizione della dote, alla nascita della prole, durante la convalescenza di un coniuge e fino alla veglia mortuaria per cui anch’esso ha caratteri di rappresentatività. La stanza matrimoniale, tanto nelle casette popolari quanto nelle magioni aristocratiche, è dotata di componenti di arredo di pregio tra cui vanno ricomprese le coperte finemente tessute, pezzi di valore che entrano nell’asse ereditario.


Per quanto riguarda le qualità spaziali è da dire che nelle architetture residenziali di livello non c’è attenzione alla privacy: in assenza di corridoio ogni vano è di passaggio, qualcuno arriva ad avere ben 6 porte (succede nella casa palazziata in esame). È impossibile non essere in contatto con gli altri membri della famiglia costantemente, condivisione delle superfici che si verifica pure nelle abitazioni umili dove si vive tutti nello stesso ambiente in quanto il solo che c’è. È all’unisono un fattore di disagio per la convivenza forzata e un elemento di rafforzamento dei legami famigliari. Il silenzio si è ormai impossessato di queste dimore prendendo il posto del vociare continuo dei suoi abitanti, componenti di famiglie numerose. Lo svuotamento non ha prodotto un’atmosfera di quiete bensì di desolazione.​

2 - Caratteri di via S.Rocco a S.Massimo
Via S. Rocco la si può definire una strada «matrice» e non un percorso «d’impianto» in quanto essa non è stata concepita per consentire l’edificazione al suo contorno, bensì è un percorso con la funzione di congiungere l’abitato con la chiesa di S. Rocco la quale sta fuori le mura perché funge, succede in tanti paesi molisani, da cimitero dei morti per la peste del 1630, quella manzoniana. In altri termini via S. Rocco preesiste alle case che le si addossano ai margini e non, al contrario, per permettere l’espansione urbana. Via S. Rocco nasce dalla piazza della chiesa parrocchiale e si conclude quando incrocia la strada provinciale su cui prospetta la chiesetta di S. Rocco e durante il suo svolgimento incontra altri tre percorsi. Ci soffermiamo sul primo di questi che si trova proprio all’inizio di via S. Rocco; esso è piuttosto un vicolo che una strada e non compare nella toponomastica comunale. Seppure non ha neanche la dignità di avere un nome è, comunque, significativo se letto insieme a quello ad esso parallelo che sta poco dopo ed adesso ne vediamo il perché. Si tratta di due viuzze, la seconda delle quali peraltro è a fondo cieco ed è di proprietà privata, che contornano l’imponente palazzo Piccirilli, voluto dal canonico Gioia, un personaggio di grande cultura, parente stretto (zio o fratello?) del famoso pittore Raffaele Gioia. L’aulicità di questo edificio è sottolineata dalla presenza dei due percorsi che lo fiancheggiano i quali lo isolano (in verità uno dei due è mascherato da un per così dire finto muro) dal resto dei fabbricati, un cosiddetto isolamento dorato. Per quanto riguarda la distinzione tra percorsi matrice e d’impianto di cui si è detto sopra possiamo considerare i 2 vicoli appartenere a questi ultimi perché nati per delimitare il palazzo, cioè contemporaneamente ad esso. Essi non lo precedono, ma in qualche modo costituiscono un insieme, palazzo-maglia viaria. A proposito del palazzo Piccirilli, e ciò vale pure per il contiguo palazzo Tortorelli, si vuole sottolineare pure che le torri ad essi addossate vanno intese come un motivo ornamentale e non quali elementi del sistema difensivo urbano, semmai, ma evidentemente non è così, del singolo edificio, alla stregua delle torri di un castello; che non siamo di fronte alla cinta fortificata dell’insediamento medioevale è dimostrato dal loro essere collocate sul terrapieno che costituisce il giardino, posto davvero insolito per delle torri. Per il palazzo Piccirilli è giusto usare il termine di tipo edilizio a blocco che, invece, non è appropriato per il palazzo Manfredi-Selvaggi collocato pochi passi dopo poiché esso è congiunto con la casa Silvestri. Non è corretto, però, adoperare la dizione di tipo edilizio a schiera il quale non è davvero appropriato. È un comparto quello che include le abitazioni Manfredi-Selvaggi e Silvestri sbilanciato nel senso che vi è una sproporzione nelle costruzioni, la seconda delle quali è molto più piccola dell’altra. A smentire la lettura di edificazione a schiera, la quale ha dalla sua il fatto che si congiungono per le quinte, vi è che l’altezza dei corpi edilizi non è scalettata seguendo l’andamento del pendio, bensì nel verso contrario. Osservando quanto succede dal lato opposto della strada, nel tratto che fronteggia

la congiunzione tra le proprietà Manfredi-Selvaggi e Silvestri notiamo che qui il palazzo ora Farrace, un tempo Maselli, spezza la sua copertura in 2 parti, riducendosi di un piano nel pezzo più basso, quasi volesse rispettare lo sviluppo in pendenza della strada: a spiegare ciò è forse l’appartenenza della porzione con altezza minore alla famiglia Selvaggi che possedeva l’edificio confinante il quale raggiunge la medesima quota, famiglia imparentata con i Maselli dai quali potrebbe averla ricevuta in eredità (a confermare l’unitarietà del costruito è la presenza del cortile interno sul quale prospettano sia la proprietà Selvaggi che quella Maselli). Ritornando a porre l’attenzione sul palazzo Manfredi-Selvaggi si nota un particolare interessante: il portone principale, sottolineato dal balcone sovrapposto, è quello situato nella zona alta della via S. Rocco e non solo perché conduce agli ambienti abitativi mentre l’altro portone è posto al livello dei fondaci, ma anche perché è il più vicino alla piazza. Più via S. Rocco scende più perde i caratteri urbani tanto che nell’ultimo spezzone da un lato, quello della proprietà Manfredi-Selvaggi, è delimitata dal muro del giardino di questo palazzo, cosa abbastanza inconsueta per una strada quella di avere fronteggianti fra di loro una abitazione e l’alto paramento in pietra che sostiene il terrapieno del giardino. All’inizio si è fatto cenno all’incrocio di via S. Rocco con altri percorsi: il principale, vedesi quanto spiegato prima, è via Impero. Analizziamo prima di tutto il punto dove si incontrano queste due strade il quale, nonostante le dimensioni limitate, costituisce pur sempre un crocevia; via S. Rocco qui spiana ed il piano è una caratteristica propria delle piazze le quali devono essere pianeggianti poiché luoghi di incontro. Per dare ariosità a tale punto si ebbe la smussatura dell’angolo del palazzo Manfredi-Selvaggi.

Vi sono due sedute in pietra a rimarcare che è un momento di sosta ed esse, è scontato, devono essere piane. Su questa sorta di piazzetta, in infinitesimo, si apre l’accesso del palazzo Selvaggi la cui ubicazione lì è in dipendenza di certo della presenza dello slargo cercando, in qualche modo, di accreditare l’idea che essa sia la corte d’ingresso dell’edificio. Che questo portone, che è di una notevole ampiezza, inoltre, abbia la volontà di misurarsi con l’impianto urbanistico lo si desume pure dal suo essere in asse con la via della quale costituisce il fondale prospettico. La continuità della edificazione lungo via S. Rocco non si interrompe mai, né nel tratto in cui il palazzo Piccirilli si distacca dalla casa Silvestri perché tale cesura è occultata da una porta che si apre sulla strada né nell’incrociarsi della nostra via con via Impero. Un arco con sovrapposto un locale abitativo sostenuto da volta a botte collega le due porzioni del palazzo Selvaggi fungendo tanto da corpo di controspinta tra fabbricato e fabbricato quanto da vano di passaggio al piano superiore tra la parte originaria del palazzo e il suo ampliamento. La continuità cui si è fatto cenno di via S. Rocco si spiega altresì con la tendenza del tessuto viario di essere a maglie larghe, derivando dalle antiche strade di collegamento extraurbano che si dipartivano dal nucleo storico le quali sono evidentemente poche. Infine, si vuole rimarcare che le costruzioni che prospettano su via S. Rocco non sono mai (salvo palazzo Piccirilli) ricomprese in « isolati »; pure lo stesso palazzo Farrace che è racchiuso tra due percorsi urbani non fa parte di un isolato, confinando con l’altra strada mediante un giardinetto. La schiera edilizia che inizia dal palazzo Selvaggi e va a scendere sul medesimo lato alle sue spalle ha sempre orti, mentre sul lato opposto i fabbricati hanno giardini pensili che confinano con la strada provinciale e queste aree di pertinenza hanno la lunghezza variabile in dipendenza del tracciato della provinciale, alla stregua di aree di risulta. La via S. Rocco deve avere avuto molteplici trasformazioni nella sua configurazione, la più significativa è naturalmente quella avvenuta dopo il terremoto del 1805 quando si pensa che alcuni edifici vennero rinnovati (il palazzo Piccirilli il cui crollo determinò la morte di Raffaele Gioia e della figlia, una porzione del palazzo Selvaggi venne distrutta dal sisma causando il decesso di un certo Egidio, il palazzo Manfredi-Selvaggi venne ristrutturato e ampliato). Scontato che non c’è stata la contemporaneità dell’edificazione lungo la strada in quanto il primo piano urbanistico, è un piano di “allineamento”, è del 1877 è probabile che vi sia stato un processo di intasamento dei vuoti lasciati tra i fabbricati. Brevi ulteriori considerazioni riguardano: per i giardini, pur aree di risulta come rilevato prima, si rileva comunque un’intenzionalità in quanto sono sospesi su un terrapieno per ottenere il suolo in piano; gli edifici di via S. Rocco sono tutti unifamiliari, ma le tipologie edilizie, non facilmente riconoscibili, sono estremamente differenti; le altezze delle unità edilizie sono anch’esse diverse fra loro; l’edificazione di via S. Rocco è formata da strutture di notevole consistenza, superiore a quella delle costruzioni presenti nel resto dell’abitato storico; per il palazzo Piccirilli si può

parlare di un isolato coincidente con una unità edilizia; non vi è una linea definita al contorno di via S. Rocco che non ha una larghezza costante con l’avanzamento del palazzo Manfredi-Selvaggi e di una parte del palazzo Selvaggi; i gradini d’ingresso ad alcune abitazioni occupano il suolo stradale. Si conclude qui l’esposizione delle particolarità riscontrabili nell’osservazione di via S. Rocco che conferiscono ad essa una certa unicità, non permettendo di riconoscere alcun modello ricorrente e ciò, del resto, è quanto succede in qualsiasi angolo di qualsiasi centro storico. La cosa che colpisce maggiormente, all’interno di essa, rimane il rapporto, rovesciato, tra la casa Silvestri e il palazzo Manfredi-Selvaggi il quale contraddice la regola che l’edificio a monte sovrasta quello a valle, fatto paradossale che mette in evidenza l’inutilità di ogni sforzo per la ricerca di una logica nell’aggregazione dei volumi edilizi lungo via S. Rocco.

3 - La fontana e il giardinetto pubblico di S.Massimo

Dopo l’unità d’Italia si pose a S. Massimo, come in altri centri del Molise a cominciare da Campobasso, il problema della modernizzazione dell’insediamento urbano. L’occasione fu anche quella del terremoto avvenuto agli inizi di quel secolo che avendo provocato seri danni spingeva a mettere mano ad interventi di sistemazione dell’abitato. Il sisma del 26 luglio 1805 oltre a causare la morte di 70 persone aveva minato la stabilità delle vecchie mura del borgo medioevale le quali vennero abbattute in parte per creare ampi viali, le odierne via Roma e via Impero, dove dovevano trovare posto edifici pubblici (il palazzo della scuola previsto, ma non realizzato sul sito dell’orto della casa prima Farano e ora Galeassi) e il giardino comunale (appunto la Fontana).
Questa sostituzione delle murazioni (più propriamente dei fossati adiacenti) con larghi ed ariosi viali alberati costituiva un ampliamento del nucleo originario. Ampliamenti che ormai erano favoriti in ogni Comune del nostro Paese dalla legge per gli espropri che è proprio di quegli anni e che venne varata dal nuovo Stato unitario per risolvere il problema del Risanamento di Napoli dove fu effettuato lo sventramento dei quartieri popolari per la creazione del Rettifilo (corso Umberto). In quel periodo a S. Massimo,

grazie anche a questo strumento legislativo, fu possibile avviare un autentico programma di grandi opere. Infatti fu effettuata una serie di operazioni urbanistiche che riguardarono non solo la zona posta fuori delle mura con i 2 viali e la Fontana, ma che portarono anche alla trasformazione del vecchio centro con la demolizione di abitazioni per la formazione della piazza Marconi, l’allargamento (per fortuna solo pianificato ma non attuato) della via Piccirilli (dovevano essere abbattute le scale esterne alle case), oltre alla costruzione di attrezzature collettive (appunto la scuola di cui si è detto). Tutte queste iniziative rientravano in un piano regolatore redatto dall’ing. Mazzarotta nel 1877 in cui, si fa rilevare, il disegno delle opere e dei tracciati viari non viene disgiunto dal sistema del verde.

Pure a S. Massimo, alla stessa maniera di altri Comuni di ben più grandi dimensioni, il verde è una componente fondamentale della politica di risanamento urbano. Siamo nell’epoca nella quale il verde si afferma nella organizzazione urbanistica per lenire le disfunzioni provocate dalla prima rivoluzione industriale: si pensi a città quali Londra, Milano, ecc.. Pur se in un ben altro contesto l’attenzione al verde rivela anche qui da noi il passaggio ad un’era più attenta alle esigenze sociali. Il verde pubblico, formato dal giardino della Fontana e dai viali alberati, e, quindi, accessibile a tutti i cittadini costituisce un’affermazione dei valori che si andavano diffondendo allora di uguaglianza e di giustizia sociale. L’importanza data alla questione del verde nei centri cittadini man mano si diffuse anche nelle località più piccole che cominciarono ad imitare le realtà urbane maggiori, diventando quasi una moda. Il verde assume un ruolo fondamentale nel decoro urbano così caro alla classe borghese che andava emergendo pure a S. Massimo, soppiantando nella guida del centro il vecchio ceto feudale. Mentre il feudatario associava la sua immagine a quella del castello, il prestigio della nascente borghesia era affidato proprio al decoro urbano. Nuovi stili di vita si andavano affermando che richiedevano viali per il passeggio, giardini per l’incontro e la conversazione. Il verde legato com’è al decoro penetra dappertutto dal cimitero (una nuova infrastruttura cittadina che nasce nel medesimo arco temporale sulla scorta dei decreti napoleonici) poiché la morte è vista come sublimazione della natura, ai giardini delle abitazioni private (il più bello è quello appartenente agli eredi del dott. Giuseppe Selvaggi con le aiuolette, il gazebo e, specialmente, il pino marittimo).

Una ex-discarica diventerà giardinetto comunale (al cui interno viene posto il busto dell’on. Enzo Selvaggi) e di essa rimane solo il ricordo nel nome popolare di “monnezzaro”. Il verde, però, va visto a S. Massimo come altrove quale insieme e non come una sommatoria di punti; nelle intenzioni degli amministratori locali ottocenteschi doveva essere proprio così come testimonia la contiguità tra il giardino della Fontana, il verde alberato, il verde antistante alla scuola in progetto, il parco privato nel quale sarebbe dovuta sorgere una residenza signorile e di cui rimangono le imponenti mura di sostegno del terrazzamento in località Fonticella oltre che il muro di recinzione lungo via Roma. Il fulcro di questo sistema era costituito proprio dal giardino della Fontana. Si tratta di un giardino di dimensioni forzosamente ridotte come, del resto, deve essere ogni giardino urbano. In questo giardino piccolissimo trovano, comunque, spazio vialetti sinuosi, aiuole e la fontana. Il giardino è impreziosito da un gioco d’acqua costituito dai zampilli i quali fuoriescono da teste leonine e che cadono in una vasca. La fontana rappresenta, in un certo senso, la celebrazione dell’acqua proveniente dall’acquedotto comunale costruito contestualmente che serve altre due fontanelle dalle quali i cittadini potevano attingere. Si ricrea, così, artificio e natura nel centro urbano. Nelle aiuole vengono piantati alberi e non fiori per la loro facilità di mantenimento. Qui domina l’agrifoglio, una pianta locale, mentre via Roma è ombreggiata dagli ippocastani, una specie esotica. Il giardino della Fontana è anche un belvedere che permette di spaziare dalla vallata sottostante alla montagna. Quello della terrazza è un tema ricorrente del giardino storico e ben si addice a questo luogo che ha un’elevata panoramicità. In definitiva il giardino della fontana è l’emblema più efficace dell’atteggiamento culturale di quest’epoca di profonde innovazioni urbanistiche contraddistinte dalla cura unitaria per gli aspetti funzionali e per quelli estetici.

4 - La piazza di S. Massimo

Se è vero che la componente della struttura urbana che resiste maggiormente al cambiamento è costituita dagli spazi pubblici, vedi la rete viaria, che le aree collettive rappresentano in qualche modo lo zoccolo duro dell’abitato, mentre le costruzioni edilizie sono soggette a modificazioni, sostituzioni, ecc. nel tempo, ciò non è più vero quando si verifica un terremoto. Ogni ricostruzione successiva ad un sisma oltre che della riparazione dei danni ai fabbricati si è occupata della revisione dell’impianto urbanistico a cominciare da quello del 1456 quando a Campobasso il Conte Cola colse l’occasione per radere al suolo il quartiere che sorgeva ai piedi del suo maniero allo scopo di arroccarsi, per finire con quello di S. Giuliano dove si è avuta la realizzazione del Parco della Memoria. A S. Massimo a seguito dell’evento tellurico del 26 luglio 1805 si procedette a demolire un intero caseggiato per fare una piazza; in “tempo di pace” gli insediamenti evolvono molto lentamente mentre in “tempo di guerra”, quello della calamità, le trasformazioni avvengono in modo rapido (in verità neanche tanto se ci vollero 70 anni per varare il piano dell’ing. Mazzarotta contenente il nuovo disegno dell’agglomerato abitativo).

Bisogna ricordare che è nella seconda metà del XIX secolo, lo stesso periodo del rifacimento dell’assetto insediativo di questo comune, che si mettono in moto grandi azioni di rinnovamento degli aggregati residenziali i quali, sostanzialmente, consistono in sventramenti all’interno della massa edificata e quali esempi illustri si citano, a livello nazionale, il Rettifilo di Napoli e, a quello europeo, i viali del Barone Hausmann a Parigi. Tali eventi erano finalizzati al “risanamento” (così si chiamava la società partenopea preposta all’operazione) della situazione igienica creando vuoti per dare luce e aria alle abitazioni, cosa che, ovviamente, non è il fondamento dell’iniziativa sanmassimese perché non erano avvertiti in centri minori come il nostro simili problemi. In comune, comunque, in tutte queste realtà, grandi e piccole, vi è la volontà di migliorare l’aspetto estetico dei nuclei urbani, conformandolo alle tendenze artistiche del neoclassicismo. Nel centro matesino le esigenze che hanno spinto alla formazione di questo luogo privo di costruzioni sono, in primo luogo, quello di liberarsi delle macerie piuttosto che consolidare i resti delle case e, in secondo luogo, di ordine monumentale e funzionale. Per quanto riguarda quest’ultimo c’è da dire che le piazze vere e proprie sono rarissime nei paesi molisani, in particolare quelle che sono frutto di un’apposita progettazione, mancando, per citare solamente entità urbane confinanti con quella in questione, a Boiano in cui piazza Roma è una sorta di villa comunale, mentre piazza Duomo è poco più che il sagrato della cattedrale, a Cantalupo e a Roccamandolfi dove, in entrambe la chiesa parrocchiale offre un lato, che è un muro cieco, allo spazio libero destinato poi a piazza. Nell’Italia dei Comuni, invece, le piazze sono state sentite come autentiche attrezzature civiche in quanto punti di aggregazione che favoriscono le relazioni sociali se non la partecipazione alla politica. Tali funzioni sembra siano state assolte dalla piazza di S. Massimo perché qui si è sempre montata la cosiddetta cassa armonica su cui suona l’orchestra in occasione della maggiore festività cittadina, la festa della Madonna, si accende il tradizionale falò nella notte di Natale e ogni altro evento che coinvolge la comunità che, così, viene a riconoscersi in essa, assurgendo al ruolo di fulcro dell’insediamento.

Nella piazza si tengono i comizi elettorali e, quindi, è il posto che favorisce la democrazia; a tale proposito, va evidenziato che la piazza nasce in concomitanza con la nascita dei primi partiti popolari (si rammenta che il regime borbonico era di tipo assolutista); ciò è, di certo, positivo senonché, occorre sottolinearlo, le donne erano escluse in quell’epoca dalle votazioni. Il potere del feudatario, figura che scompare nel 1805, passa alla cittadinanza e la sua sede, il municipio, si colloca nella piazza (il castello colpito dalle scosse sismiche, che sta decentrato con la piazzetta annessa, il Colle di Corte, non viene restaurato e non ci sarebbe stato, per quanto detto, il motivo). Rimane forte l’autorità ecclesiastica e, del resto, la popolazione locale è stata sempre molto religiosa; c’è un risvolto fisico di questo grande peso della Chiesa nel sistema sociale ed è la posizione rialzata della chiesa principale rispetto alla quota della piazza sulla quale anch’essa prospetta, ricostruita dalle fondamenta dopo quel terribile terremoto (da 3 navate diventa ad unica navata). C’è un ulteriore attore con una parte decisiva sulla scena pubblica che è rappresentato dal ceto dei “galantuomini”. Esso ha una notevole influenza sulla società sia perché composto da professionisti, notaio, medico, avvocato, ai quali, prima o poi, ogni persona deve rivolgersi sia perché sono i maggiori proprietari terrieri e l’economia in borghi rurali come S. Massimo girava tutta sull’agricoltura. Appellati con il titolo di ‘don’ costituiscono il notabilato che vuole manifestare lo status raggiunto anche attraverso la magnificenza delle proprie residenze. Una delle famiglie emerse all’indomani della fine del feudalesimo è quella dei Tortorelli il cui palazzo va ad occupare una porzione consistente di uno dei lati lunghi della piazza. Se intendiamo quest’ultima come un palcoscenico teatrale in cui si rappresenta la vita del borgo, la “commedia umana”, la «casa palaziata», secondo il modo di dire di allora, dei Tortorelli per l’estensione della sua facciata ne forma uno dei fondali. Essi avevano lasciato l’avita dimora nel nucleo medioevale sottoposto, non solo figurativamente, al maniero feudale e si erano spostati a valle dove stanno edificando le residenze, sempre pretenziose, altre unità famigliari (Gioia, Maselli, Selvaggi, ecc,) appartenenti all’emergente classe borghese. Sono fabbriche grosse che si contrappongono, non solo fisicamente, all’edilizia minuta della zona più antica del centro. La piazza funge da baricentro tra queste due distinte parti urbane, a servizio di entrambe, e, nello stesso tempo ha una sua autonomia, ha caratteri stilistici definiti che rimandano all’architettura colta (monumentali li abbiamo chiamati prima) per la sua pianta regolare, quasi rettangolare, la presenza di un asse di simmetria che la attraversa partendo dal municipio e raggiungendo l’ingresso della chiesa-madre e poi c’è l’antico portale rivestito da bugne appiattite in pietra e sormontato dallo stemma gentilizio dei Tortorelli tra gli elementi che partecipano a questo grande spazio comune.

5 -Il-palazzo Gioia-Piccirilli, la collocazione urbana
Il palazzo Gioia poi Piccirilli rientra nella tipologia classica degli edifici signorili ottocenteschi, ma ciò non vuol dire essere la riproduzione esatta di un modello architettonico codificato in maniera stringente che non esiste. All’interno di questa categoria di costruzioni le quali hanno in comune la forma a blocco, cioè dei volumi tendenzialmente cubici, si ritrovano numerose varianti ed è utile per capire la peculiarità del palazzo in esame e con esse la sua originalità il confronto, per non spostarsi più lontano, con il contiguo palazzo Tortorelli. Due palazzi vicini ci sarebbe stato da aspettarsi che fossero dal punto di vista formale simili e, invece, non è così pur essendo volumetricamente di dimensioni rapportabili. La differenza più rilevante è nell’androne che nel palazzo Tortorelli per via della larghezza dell’entrata e del fatto che è in piano con la piazza oltre che per la notevole altezza equivalente a un piano e mezzo (a livello superiore ai due lati del vano di ingresso è ricavato un mezzanino) permette di ospitarvi una carrozza; in quello in origine della famiglia Gioia si approssima all’atrio.
Entrambi hanno un consistente sviluppo in lunghezza ed entrambi hanno in conclusione la scala che porta al piano superiore. Nel palazzo Tortorelli tale vano che succede al varco di accesso può essere classificato quale locale di servizio perché, lo si è detto, disponibile al rimessaggio di carrozza o calesse. Nel palazzo Gioia, invece, l’atrio è parte integrante dell’abitazione, anzi è l’asse ordinatore delle stanze poste al livello terraneo tra le quali ci sta la cucina eccezionalmente ben conservata; ciò nonostante che la sua pavimentazione, in lastre di pietra, sia la stessa dei cortili e proprio così si chiamano gli atri, sono due, del palazzo Selvaggi posto sempre su via S. Rocco pochi numeri civici più in là. In quest’ultimo quello che sta sopra è, in realtà, un vestibolo, in quanto ha funzione di smistamento dello spazio domestico, più appropriata è la parola cortile, coperto, non aperto, per quello di sotto poiché è a servizio degli ambienti di servizio (stalla, fondaco, cantina). Ora lasciamo le comparazioni e da adesso in avanti l’oggetto esclusivo dell’analisi sarà il palazzo Gioia senza far riferimento ad altri casi.

Riprendiamo da dove ci eravamo fermati nella sua descrizione e cioè dalla scala. Nel palazzo Gioia essa è un autentico scalone per la sua monumentalità data dalla articolazione in tre rampe, non le due consuete, articolate secondo lo schema delle scale a T. Tale scala, è evidente, non risponde solo ad esigenze di funzionalità, ma pure di natura estetica, è considerata un’opportunità architettonica per “magnificare” la residenza. Si è detto in precedenza che essa è in fondo all’androne, un maxicorridoio, e con una veduta d’infilata può essere scorta dall’esterno e ammirata, l’androne fungendo da cannocchiale visivo. Un canale prospettico che penetra da un fronte e raggiunge quello opposto partendo dalla piazzetta antistante al portone. La scala è il traguardo degli sguardi che si volgono verso la facciata della “casa palaziata” che è il fondale del predetto slargo, sempre che, come succedeva un tempo, il portone rimanga aperto per gran parte del giorno.
L’insieme atrio-scala è l’elemento che organizza l’interno di questa architettura anche perché ne è al centro. Il portone da cui prende avvio è centrale, conseguentemente, pure alla facciata e a sottolineare il suo ruolo preminente nella composizione architettonica è il bel portale che lo adorna. Se l’asta ideale che congiunge atrio e scala partendo, lo si rimarca, dal portone, è il filo conduttore per la comprensione della planimetria, perciò in senso orizzontale, il portone è partecipe nel medesimo tempo dell’asse verticale che si individua nel fronte. Esso fa tutt’uno con il balcone, l’apertura aeroilluminante di maggior rilievo. Tale coppia, portone e balcone, ha centralità nella facciata, ma non nel largo urbano cui la faccia principale del palazzo si affaccia, si coglie una certa discrasia. È contraddittoria o la disposizione dell’edificio o quella della piccola piazza, ciò non può che essere il frutto di una concezione autonoma urbanistica o, all’opposto, architettonica, non sono state pensate insieme, certamente, la piazzetta e il palazzo.

Poiché di sicuro l’impianto insediativo viene prima temporalmente dell’edificato al contorno è da ritenere che il progettista di quest’ultimo ricercò l’autonomia dal contesto del palazzo da edificarsi, non curandosi così della sua integrazione con la struttura urbanistica, se non che mediante l’allineamento con via S. Rocco (nell’indirizzario cittadino è inserito in questa via). Non è stato, comunque, un grave danno per l’immagine del largo, nella toponomastica civica innominato, il non essere incentrato pienamente sul palazzo Gioia, quella della piazzetta è un’immagine ben definita di per sé; la sua forma a C che racchiude lo spazio circostante è una “figura” conclusa. Addirittura è meglio che non vi sia un fatto dominante nella cortina edilizia al contorno, in modo che lo slargo si configuri quale ambiente a sé stante, l’involucro che lo racchiude non dominato da un episodio emergente. Se così fosse stato la piazzetta sarebbe stata relegata a puro sfondo di questa emergenza, un ruolo ancellare alla stregua di una corte esterna, che nel caso delle chiese, per intenderci, si chiama sagrato. La migliore forma di convivenza è, di norma, l’indipendenza reciproca e con ciò non si vuole dire che non vi sia un vantaggio nello stare insieme per ciascuna delle parti che costituiscono il consorzio: il palazzo con il suo pregevole portone abbellisce il luogo la cui spaziosità lo rende percepibile in modo compiuto.
6 - Il palazzo Gioia-Piccirilli e la diversità dei suoi fronti
In genere un palazzo lo si comincia ad analizzare dalla facciata e invece in questo caso si inizia la lettura con l’osservazione del retro. Ciò non per puro spirito di contraddizione ma perché la sua immagine più riconoscibile è quella posteriore. Il fronte principale ha caratteri ricorrenti in molti altri fabbricati signorili ottocenteschi, mentre le torri, nella faccia manco a dirlo apposta, perché totalmente diversa, lo rendono pressoché unico almeno nel panorama delle residenze delle famiglie dei “galantuomini”, la classe-sociale emergente del XIX secolo cui appartenevano anche i Gioia un esponente dei quali, cui si deve la realizzazione del palazzo, era canonico della Diocesi di Boiano in quel tempo, prestigiosa carica. Le torri rimandano alle opere fortificate, un bisogno quello della fortificazione che ormai non era più attuale, era ormai finita l’epoca delle “congiure dei baroni”. Le torri, dunque, hanno un significato culturale, nessuno scopo utilitaristico se non quello, talvolta, di accogliere il wc che aveva fatto la sua comparsa con l’arrivo nelle case dell’acqua corrente, novità risalente a quel periodo.
Nel contiguo palazzo Tortorelli è ancora visibile lo “stanzino di comodo” ricavato nella torre. Non ci sarebbe stato altro spazio disponibile all’interno dell’alloggio per simile necessità sopraggiunta. Tolto ciò rimane il valore rappresentativo, da un lato vi è la volontà di identificazione dell’abitazione con una dimora nobiliare, similcastello, un’aspirazione aristocratica plausibile di questi homines novi, dall’altro c’è la voglia di seguire la moda apparsa di recente dello stile gotico, o meglio neogotico, la passione per un medioevo sognato più che realmente esistito. Questa seconda teoria risulta credibile pensando al livello culturale del canonico Gioia, il promotore della costruzione del palazzo, il quale fu precettore in casa di una nobile famiglia di Napoli dove si trasferì portando con sé la nipote Rosa Maselli, che colà andò in sposa ad Antonio Manfredi funzionario dell’amministrazione pubblica, per dire delle frequentazioni elevate; al nucleo famigliare del dotto sacerdote apparteneva, poi, Raffaele Gioia il maggior pittore molisano di fine Settecento da cui l’amore per l’arte.
Riprendiamo da dove ci eravamo fermati nella sua descrizione e cioè dalla scala. Nel palazzo Gioia essa è un autentico scalone per la sua monumentalità data dalla articolazione in tre rampe, non le due consuete, articolate secondo lo schema delle scale a T. Tale scala, è evidente, non risponde solo ad esigenze di funzionalità, ma pure di natura estetica, è considerata un’opportunità architettonica per “magnificare” la residenza. Si è detto in precedenza che essa è in fondo all’androne, un maxicorridoio, e con una veduta d’infilata può essere scorta dall’esterno e ammirata, l’androne fungendo da cannocchiale visivo. Un canale prospettico che penetra da un fronte e raggiunge quello opposto partendo dalla piazzetta antistante al portone. La scala è il traguardo degli sguardi che si volgono verso la facciata della “casa palaziata” che è il fondale del predetto slargo, sempre che, come succedeva un tempo, il portone rimanga aperto per gran parte del giorno.

Che le torri del palazzo Gioia non fossero parte di un sistema difensivo urbano, siamo pur sempre al limitare dell’abitato, magari inglobate successivamente nella costruzione in questione, quindi non realizzate ex-novo, è, parimenti all’ipotesi ventilata all’inizio di presidi militari a protezione del palazzo, da scartare. Non si intravede infatti da questo lato del borgo la presenza di un qualche accenno ad una cortina muraria continua turrita. Non si può portare a sostegno della sua esistenza/preesistenza la sussistenza, giocando un po' con le parole lo si ammette, la torretta del vicino palazzo Tortorelli troppo diversa dalle due a corredo del palazzo Gioia sia perché più bassa sia perché svettante al di sopra dell’edificio cui è collegata, le altre sono pressoché a pari, solo un pochino emergenti, del cornicione. C’è un ulteriore dato che ci fa propendere
ad interpretare le torri come manufatti ornamentali ed è la presenza del giardino, esse, il muro cui sono aderenti, sarebbe dovuto essere al confine dell’area urbanizzata ed invece non è così se si includono in quest’ultima pure le pertinenze dell’edificato. A proposito del giardino appena nominato è bene che ci correggiamo subito perché se il terreno il quale è, comunque, in piano come si conviene ad un giardino fosse tale allora, ragionevolmente, si sarebbero dovute aprire ampie finestrature nella residenza per goderne della vista come succede nel prossimo palazzo Selvaggi con le sue logge che affacciano sullo spazio verde ad esso connesso, allineato con quello dei palazzi Gioia e Tortorelli, una fascia di giardini. Il duplice loggiato del palazzo Selvaggi conferisce un carattere di apertura a questo edificio contrastando il senso di chiusura che trasmette la parete compatta del palazzo Gioia.

Se c’è qualcosa che invita ad associare la faccia che volge verso la campagna del palazzo Gioia ad una murazione difensiva, oltre che le torri, è la sua altezza, superiore a quella del prospetto dove è ubicato l’ingresso, perché da questo lato, la costruzione è in pendio, emerge alla vista il piano seminterrato e cioè la sua possanza. Ritornando un attimo alla faccenda del giardino, per completare il discorso, va considerato, ad ogni modo, che non è necessario che si tratti di un “luogo di delizie”, potrebbe essere semplicemente un orto a servizio dell’economia domestica come appare nel caso specifico. Partendo da questo fazzoletto di terra facciamo ora letteralmente un capovolgimento di fronte, passiamo da quello posteriore al fronte anteriore mettendo in rilievo il fatto che il giardinetto si sarebbe potuto trovare invece che dietro davanti al palazzo (ciò
vale anche per i palazzi Selvaggi e Tortorelli e per la casa Silvestri) con un arretramento del medesimo fronte, a parità di estensione del lotto impegnato. Ha prevalso però la regola del fronte a fronte strada, dunque la sottomissione del costruito alle superiori esigenze urbanistiche le quali impongono, di norma, che i fabbricati siano al contorno della rete viaria cittadina, ovvero non distanziati da essa. Il palazzo Gioia, trattandosi il suolo su cui poggia in declivio, lieve, è in piano sul davanti e rialzato sul didietro con il piano, adesso nell’accezione di livello del fabbricato, parzialmente interrato coperto da una serie continua di volte a crociera a formare un ambiente unico punteggiato dalle colonne, quadrate non tonde, che sostengono le predette volte, senza perciò muri divisori per delimitare locali separati, la sua visione è davvero speciale.
7 - Il palazzo Gioia-Piccirilli alcuni aspetti architettonici
Tutto ciò che riguarda questo palazzo sembra avere un valore scolastico, di un’opera di scuola che in quanto tale, cioè per il suo essere replica di un modello di architettura codificata, ha poca aderenza con la realtà locale, in particolare con il sito in cui si ubica. La dimostrazione lampante (o plastica come si dice oggi) di ciò è il suo distanziamento dagli edifici prossimi che è minimo, due strettissimi vicoli che per la loro limitata larghezza non sono in grado di garantire l’illuminazione dei locali del palazzo che vi si affacciano. La ricerca di isolamento che rivela tale tenere a distanza i fabbricati vicini appare espressione di un atteggiamento aristocratico, mentre dal punto di vista pratico, quello di dare luce alle stanze sui fronti laterali, l’effetto è poco significativo e, comunque, l’affaccio non è dei migliori, si guarda un muro, per di più disadorno, e, in aggiunta, vi è un problema di introspezione visiva da parte dei confinanti.
Quello esposto è il primo aspetto che induce a pensare che l’impostazione progettuale del palazzo sia basata su principi teorici non sulla fattualità. La seconda prova rivelatrice della mancanza di concretezza è la facciata e vediamo perché. La facciata di cui stiamo per parlare è quella principale, in verità l’unica in quanto gli altri prospetti non prospettano su alcunché, su delle oscure viuzze come si è detto, sono dunque nascosti, essa è la faccia pubblica. Ebbene questa facciata per la sua fattura rappresentativa meriterebbe di essere fronteggiata da una piazza di una certa nobiltà e, invece, non è così. Innanzitutto è una piazzetta, per altro per un pezzo in pendio, e non una piazza e poi dimensionalmente non è rapportata al palazzo la cui parte adiacente ad essa è più lunga del lato contiguo della piazza. In altri termini, ma è la stessa cosa, la facciata del palazzo sopravanza in lunghezza la porzione del perimetro della piazza che le è a contatto.

Quindi dalla piazza non si ha una visione integrale della facciata guardando frontalmente. D’altro canto non sarebbe potuto essere altrimenti, ad un palazzo grande deve corrispondere una piazza grande; ciò vale pure se quest’ultima viene intesa come corte, come luogo aperto subordinato al palazzo, normalmente è, comunque, il palazzo ad essere sottomesso alla piazza. Conclusasi la dissertazione riguardante il secondo punto ovvero il secondo argomento che avvalla la tesi enunciata all’inizio che l’idea architettonica che presiede la configurazione del palazzo sia, come si conviene ad un’idea, un qualcosa di ideale, non connessa con la situazione effettiva del posto dove esso sorge, passiamo alla terza questione. Facciamo un autentico ribaltamento di fronte perché la trattazione che si va ad effettuare riguarda il, per l’appunto, fronte opposto del fabbricato il quale può essere definito il “retro”. Qui la parete è contornata da due torri e ciò va bene, non è contraddittorio con quanto succede nel “verso”, quello che accade dietro non deve essere necessariamente simile a quello che si verifica davanti. Una facciata di stile sobrio, per così dire classica, espressione del decoro borghese

è appropriata quale controfaccia della dimora di una famiglia del ceto dei “galantuomini” fronteggiante uno slargo peraltro centralissimo dell’abitato, mentre un’immagine neogotica quale quella conferita all’immobile dalle torri angolari si associa con il paesaggio naturale, è solo che nel nostro caso il brano di natura è un giardinetto, in questo aspetto sta la terza contraddittorietà. Lo stabile guardando dalla campagna figura come una fortezza piuttosto che un palazzo. L’altezza che l’edificio raggiunge nel “rovescio” è maggiore, emerge alla vista un piano aggiuntivo, il seminterrato, uno in più di quelli del fronte principale ovvero del “dritto” poiché impostato ad una quota superiore. L’imponenza del setto murario posteriore oltre il fatto che turrito fa pensare ad una struttura castellana. Di regola le opere fortificate sono a immediato contatto con ambienti ostici, preferibilmente scoscesi se non rocciosi, una situazione ambientale difficile è di per sé un presidio difensivo, la morfologia aspra coadiuva “naturalmente” la cinta muraria posta al suo limitare nella protezione dell’insediamento abitativo.
A smentire l’ipotesi che si è al cospetto di un tratto della fortificazione urbica è la circostanza che ai piedi del fronte posteriore del palazzo non vi è alcunché di accidentato, non è una superficie inclinata né un blocco di roccia bensì in fazzoletto di terra in piano, una conformazione morfologica ottenuta, di sicuro, con riporto di terreno. È da aggiungere che tale orto, non è un giardino se si intende quest’ultimo quale luogo di “delizie”, precede la linea di demarcazione dell’agglomerato urbano che coincide con il muro continuo di sostegno della serie di orti tra cui vi è il nostro fiancheggianti una delle strade di accesso al borgo. In definitiva, non ha fondamento la teoria che le torri facessero parte di un bastione medioevale poi inglobato nel palazzo. Non c’è contrasto nell’organizzazione architettonica tra i due lati, la sua monumentalità è data da un lato dalle torri e dall’altro, dall’articolato scalone a T, preceduto da un ampio atrio che si sviluppa in profondità con 3 campate, un vestibolo d’ingresso generoso cui si accede dal fronte principale.

8 - Palazzo Gioia-Piccirilli un palazzo lungo una strada o in una piazza?
Così com’è il palazzo Gioia-Piccirilli, la porzione dello stesso avente colorazione uniforme rimasto di proprietà della famiglia Piccirilli fin quando l’ultima erede lo ha donato alla Chiesa, appare ben proporzionato rispetto alla piazzetta su cui affaccia. La dimensione orizzontale della facciata, la parte di questa di tinteggiatura omogenea, è la medesima di quella di uno dei lati, il più lungo, dello slargo cui è prospiciente. C’è un problema, però, che non consentirebbe di definire equilibrato il rapporto tra la piccola piazza antistante e il fronte del palazzo ed è che il portone dell’edificio risulta decentrato ovvero con al centro del prospetto come si conviene in architetture simili. Vedere la parte del palazzo nella sua interezza, comprensiva quindi anche del pezzo, circa 1/3 del totale, contraddistinto da un diverso colore, non è fattibile stando di fronte al, per l'appunto, fronte, bensì bisogna guardarla di sguincio, con una veduta in diagonale in modo da abbracciare la sezione restante della facciata che si sviluppa quando ormai si è in via S. Rocco.
Non è facile capire se vi sia una intenzionalità in tale impostazione della nostra architettura, in parte, la gran parte, fronteggiante e, perciò, ben visibile dalla piazzetta, e in parte, una parte minore, visibile di scorcio, a una qualche distanza mentre per vederla da vicino ci si deve accingere a inoltrarsi in via S. Rocco. La modalità migliore di osservazione non è lo stare fermi ma il muoversi, non da un punto fisso ma mobile, in definitiva una visione dinamica. Non si tratta di guardare un quadro, la faccia del palazzo, da una prestabilita posizione perché è attraverso una sequenza di punti di vista che si recupera l’immagine globale del prospetto compiutamente. È una sorta di vista fluida e, del resto, tale atteggiamento d’animo, la fluidità, è quello che si richiede di assumere non solo nell’osservare il palazzo ma anche nel visitare, per i concittadini nel vivere la zona dell’agglomerato storico in cui esso ricade, per far propria l’urbanistica dei luoghi. Il cuore dell’antico abitato, dove hanno sede la parrocchia e il municipio,

è formato da due piazze, una grande e una piccina, quest’ultima è la piazzetta in cui è ubicato il palazzo Gioia, che stanno a quote differenti, la prima più in alto della seconda; esse trapassano quasi che non ce ne si accorga l’una dell’altra, a dividerle, per un tratto, vi è un basso gradone. L’esperienza sensoriale nel passaggio fra questi due luoghi, è di dilatazione, prima, la piazza maggiore, e dopo di compressione, quella inferiore pure altimetricamente come vedremo, sentimento spaziale generato dalla diversa ampiezza di tali luoghi, avvertendo, comunque, è una questione di sensibilità, che si tratta di un unico spazio. La fluidità rasenta l’ambiguità se si considera l’andamento del suolo che è in piano nella piazza vera e propria e in declivio nello slargo in cui si pone il palazzo Gioia; quest’ultimo è tanto una piazzetta quanto il segmento di un percorso viario in salita, via S. Rocco è la strada di accesso al paese,
in pendenza perché è parte, la parte terminale della direttrice di collegamento tra il fondovalle e l’altura dove è arroccato il paese. Al palazzo Gioia va bene così, cioè sia stare in una piazzetta su di esso in qualche modo incentrata, sia al fianco di un canale di transito di notevole rilevanza, ambedue fattori localizzativi assai attraenti per l’impianto di un manufatto architettonico di una certa pretesa, vedi le torri che lo adornano sul retro, il magnifico portale senza trascurare la sua imponenza. Ambiguo, di certo, è il significato della piazzetta in cui le quote spianano un poco a contatto con il palazzo ma non tanto, non, comunque, in modo sufficiente da far intendere questo luogo quale corte d’onore del fabbricato, definizione che si addirebbe a questo ambiente urbano se fosse tutto in piano in quanto sostanzialmente chiuso su tre lati, proprio come i cortili esterni delle fabbriche di carattere monumentale.
Nella toponomastica civica, è da precisare, non ha un nome proprio, una denominazione autonoma, viene ricompresa, è il suo termine superiore, in via S. Rocco. È equivoca, si ricorda che innanzi avevamo utilizzato la parola fluido e in seguito ambiguo, vocaboli per certi versi equivalenti, pure la collocazione di questo ripiano, diciamo così se messo in relazione, come fosse il suo punto di partenza, con il nastro stradale, adesso non in via S. Rocco, pressoché rettilineo che nella dipartita, nel suo sviluppo iniziale è tangente a un lato corto della piazza principale, poi ad una fiancata della chiesa-madre e successivamente diventato l’asse primario del nucleo originario dell’insediamento chiamato la “chiazza”. Questa strada, ora andiamo a guardare tale percorrenza all’incontrario, sbuca dalla porzione più remota del borgo all’interno del quale si era infilata e ha quale fondale il palazzo Gioia che, perciò, in quanto ne è il fulcro prospettico, si trova ad appartenere a tale asta viaria, ne è di essa che è la strada-matrice dell’aggregato urbanistico il fulcro percettivo;


nell’ottica di lettura appena proposta risulta residuale per il nostro posto il ruolo di piazzale, piazzetta, spiazzo che introduce all’ingresso del palazzo. L’analisi interpretativa che si è andata effettuando ha voluto mettere in luce oltre al fatto che il fronte sia visibile per ¾ se si sta faccia a faccia, alla facciata, e nell’interezza in quella obliqua, anche la sua caratteristica precipua di essere un’emergenza culturale di forte impatto nel panorama urbano. Lo stato di abbandono funzionale in cui versa e la mancata riqualificazione nonostante l’intervento di restauro effettuato hanno compromesso l’immagine non solo dell’edificio, ma pure dell’ambito focale dell’insediamento di cui è un episodio architettonico primario, un fantasma si aggira per S. Massimo.
9 - Un aggregato edilizio fuori porta a S. Massimo

Si tratta di un complesso, nel senso di complicato, di edifici quello posto alle “porte” di S. Massimo lungo la strada di collegamento al paese, che, però, date le sue limitate dimensioni e nonostante la presenza di una cappella ormai sconsacrata non può essere letto come una contrada. Quello che ci interessa non è, però, l’insieme, ma un piccolo “grumo” di case all’interno di esso che, in quanto tale, sotto l’aspetto visuale costituisce un’unità. È un addensamento, limitato, di costruzioni che si distingue rispetto al resto del nucleo abitativo “fuori porta” di cui fa parte perché non ha un’unica, in qualche modo, dimensione, la lineare, allineato, appunto, all’arteria viaria, allineamento che è la regola costitutiva dell’appendice urbana in questione, bensì ha anche un’altra dimensione, la profondità. Nel pezzettino di edificato che ci riguarda i manufatti sono disposti su due file, con il “posto in prima fila” rappresentato dall’affaccio sul percorso stradale.
La distanza che separa dalla strada il corpo posteriore è la misura di quanto è profondo questo blocco edilizio. Se si legge una certa sincronia tra i volumi posti lungo la via, da ambo i lati, vi è, sicuramente, uno sfalsamento temporale tra le due entità volumetriche che compongono il grumo di cui sopra. Non solo per il fatto che non sono state costruite contemporaneamente esse appaiono accostate fra di loro piuttosto casualmente o meglio spontaneamente usando un termine che si usa spesso nella descrizione dell’architettura tradizionale. Abbiamo, così, una tipologia di pendio che si addice agli edifici isolati, e questo non lo è, spalla a spalla con un fabbricato con scala esterna, la quale è ricorrente specialmente nelle case che hanno la base in piano. Vedere le cose, le case, tipologicamente di certo, è un’operazione che porta ad astrarsi dall’oggetto concreto, astrazione versus concretezza, per ricondurlo ad un modello ideale che, forse, non è mai esistito; bisogna, poi,
considerare che nel tempo le fabbriche si sono andate, è evidente, modificando e ciò, in particolare, è avvenuto nel suolo rurale dove non vi sono i vincoli dati dai rapporti con le strutture contermini, dalla viabilità, ecc. che invece sono forti in un agglomerato insediativo. Tra i fattori che influenzano l’ubicazione, la dimensione, il numero dei vani abitativi, l’esistenza degli annessi, delle costruzioni vi è, e forse è quello preponderante, l’indirizzo colturale dell’appezzamento agricolo, se coltivazioni estensive o intensive, congiuntamente alle modalità di gestione della terra, se in mezzadria, in affitto o in proprietà, fatti che, tra l’altro, spingono o meno la famiglia coltivatrice a risiedere sui campi. In relazione al mutamento delle esigenze agronomiche capita che i fabbricati si ingrandiscano, che aumentino i locali di deposito, che si realizzino stalle, tutte opere che si accostano al corpo originario, rendendolo, tante volte, irriconoscibile. Quindi, con tali premesse,
procediamo alla lettura dei singoli elementi del costruito rinunciando alla ricerca di una sua rispondenza ad una pretesa tipologia architettonica. Innanzitutto si rileva che, ora l’attenzione è interamente per il fabbricato che è in secondo piano rispetto alla strada, esso è rispondente all’idealtipo di weberiana memoria della casa in pendio per via dell’ingresso che è a monte ed è posto sul lato corto. L’accesso, invece, del fabbricato adiacente al tracciato viario che ha la scala esterna, è bene notarlo per far risaltare una peculiarità significativa del tipo su pendio, sta nel lato lungo; è da evidenziare inoltre che nell’edificio defilato, per così dire, dal percorso stradale vi è un embrione di scala esterna, questa a due rampe e non una sola, che lo affianca su due pareti, distinguendosi dalla consueta scala esterna anche per il suo non essere in muratura in quanto i gradini poggiano direttamente sul terreno.
Manca qui il pianerottolo di smonto mentre al termine della classica scala esterna vi è sempre il ballatoio. Il tetto in entrambi gli episodi edilizi è ad una falda, con le falde contrapposte fra di esse seppure non congiungentesi in un colmo a causa della loro differenza di altezza, altro indizio di un affiancamento casuale. Lo sviluppo longitudinale delle costruzioni, vi è in tutt’e due un asse prevalente, è in direzioni opposte diametralmente, in quello in pendio è scontato che segua la pendenza del suolo. Vi è, in definitiva, un disordine edilizio estremo, i due corpi così vicini sono così distanti formalmente. Sembra di stare di fronte a due iniziative costruttive che si sono susseguite se si vuole, dal punto di vista figurativo, inseguite, l’una con l’altra senza mai riuscire a fondersi realmente. Ognuna ha una storia propria, come quella di un clan familiare che, nelle società patriarcali, nel crescere tende ad incrementare gli spazi di vita. Pure gli orizzonti esistenziali di chi abita tali manufatti sono agli antipodi, l’una partecipando della via carrabile è in
contatto con la realtà insediativa, l’altra è calata fino al collo nella campagna; il tipo edilizio in pendio è esclusivo delle superfici coltivate, mentre la tipologia di casa con scala esterna la si ritrova anche negli insiemi urbanistici. Bisogna ciononostante rilevare che hanno in comune un valore importante che è la loro storicità poiché i tipi edilizi in pendio e con scala esterna risalgono a epoche lontane soppiantati in seguito dal tipo con scala interna che ormai è universalmente usato in ogni costruzione; d’altro canto occorre precisare che non siamo di fronte a esempi compiuti di tali tipologie, essendo lungo e stretto, cioè a “corpo semplice” non “doppio” come è conveniente che sia perché più efficiente funzionalmente, l’esemplare di tipo in pendio e con stanze prive di affaccio l’altro.