A PROPOSITO DI ARCHEOLOGIA
1 - L'archeologia

L’archeologia è un campo estremamente vario, sia per la datazione delle testimonianze sia per la loro diversità, diciamo così, tipologica. Per spiegare meglio questo secondo concetto si prenda il caso limite dell’impianto urbanistico il quale di per sé, cioè al di là dell’edificato, costituisce una memoria della civiltà che lo ha prodotto; ciò è valido specialmente per i centri di origine romana i quali sono il frutto di una precisa pianificazione. Per giungere subito ad una conclusione o meglio per esplicitare dove si intende giungere si invita a riflettere sulle due città romane di Boiano e di Altilia, l’una in cui sopravvive solo lo schema viario, l’altra nella quale la rete stradale si è conservata insieme agli isolati abitativi e alle attrezzature pubbliche, ovvio allo stato di rudere, che essa era destinata a servire: nella cittadina matesina occorre tutelare la viabilità della parte antica, anche se in verità non vi sono minacce di una sua alterazione. Quella di Boiano è una pianta di tipo ippodameo davvero rara di cui il precedente più noto è la greca Priene, perché impostata su un pendio accostato al versante del colle di Civita S. e non in una superficie pianeggiante, mentre ad Altilia la maglia ad assi ortogonali, caratteristica di tutte le città coloniali e Saepinum è una colonia di Roma, che è per sua natura indifferenziata nel tempo si è avuta la formazione di una gerarchia tra il decumano, il quale diventa il percorso principale, e il cardo.

Terventum, secondo Matteini Chiari, è ancora più singolare perché avrebbe il decumano, l’odierna via Roma, in pendenza. I tracciati viari dei quali va preservato il disegno, piuttosto che la pavimentazione originaria la quale spesso non c’è più, rappresentano qualcosa a confine tra patrimonio “materiale” e “immateriale”; immateriale è sicuramente la toponomastica per cui la perdita del toponimo « ponte dei liguri », anche a causa dell’eliminazione del cartello segnalatore del ponte ferroviario presso il bivio di S. Polo, è la perdita di un pezzo di patrimonio culturale. A seguito delle guerre civili tra il 44 e il 31 a.C. che sconvolgono lo stato romano e che portano distruzione nel Sannio si ha con Augusto l’assegnazione delle nostre terre a gente proveniente dalla Liguria che, secondo alcuni storici, è composta da deportati dalla città di Luni la quale si era ribellata a Roma e, per altri, di veterani della undicesima legione (da cui Bovianum Undecanorum) ai quali per ricompensa delle campagne belliche veniva dato terreno da coltivare, anch’essi liguri come quelli della Lunigiana. Si è avuta in quell’epoca una trasformazione radicale del territorio molisano della quale la denominazione ponte dei liguri costituisce un ricordo.


Continuando ad esaminare casi particolari di tutela archeologica si passa agli inserti di pezzi lapidei antichi nelle facciate di edifici prevalentemente ottocenteschi e qui il campionario si fa molto esteso; vi sono poi le collocazioni di reperti, specie quelli di carattere monumentale, in spazi pubblici a scopo ornamentale se non scenografico come la testa del Dio Oceano in una fontana all’ingresso di Sepino, un’ara nell’area a verde prossima al tribunale di Isernia, rocchi di colonne nel giardino sottostante al municipio di Boiano. Passiamo adesso al bene archeologico che possiamo definire normale e per far ciò è utile introdurre alcune categorie: nel Molise vi sono le condizioni per la creazione di un parco archeologico ad Altilia (ci si è provato negli anni ’90 con i fondi FIO) e il riconoscimento di un complesso storico-monumentale a S. Vincenzo al Volturno, ambedue istituti previsti dal Codice dei beni culturali. Nella nostra regione ci sono pure gli estremi, sulla base degli studi del prof. Quilici, per identificare un paesaggio culturale e ciò avviene tra Casacalenda e Montorio dove c’è l’antica Gerione. Il patrimonio archeologico regionale è molto vario sia per datazione sia dal punto di vista della natura del bene; abbiamo così recinti fortificati realizzati dai sanniti, una città romana, santuari italici, ville rustiche di età imperiale, torri (quella sopra m. S. Nicola a Pescopennataro), sponde superstiti di ponti romani (a Limosano sul Biferno e il ponte Latrona a Monteroduni), anfiteatri voluti dai romani (a Larino e il Verlasce di Venafro), lastricati viari (quello di Boiano con grandi blocchi lapidei poligonali) sempre dovuti ai romani, acquedotti realizzati dai romani dei quali se ne sono conservate le tracce sotterranee di uno a Rocchetta al V. e a Venafro che trasportava le acque di Capo Volturno, il porto della mitica Buca al largo di Termoli che forse, però, è una fortificazione aragonese. Vi sono, inoltre, risalenti a fasi della nostra storia antichissima le costruzioni con tetto in pietra, una tecnica che si può definire senza tempo, sopravvissute nell’agnonese dove si utilizzava l’arenaria e nei comuni intorno alla Montagnola in cui il materiale lapideo è il calcare scistoso e le chiese rupestri, quella di S. Angelo in Grotte, prima probabilmente sede di qualche culto pagano.


Vi è un campionario vasto di sepolture che va dalle autentiche necropoli di Campochiaro e di Guasto di Castelpetroso risalenti alla preistoria, alle tombe scavate nel travertino il quale ha favorito per la sua lavorabilità la creazione di sepolcri a S. Vincenzo al V., anche a più piani, ad una necropoli lineare, non più areale come quella citata sopra allineata alla via Minucia all’uscita di porta Boiano di Altilia, località in cui sono presenti pure alcuni mausolei monumentali, ad un masso roccioso trasformato in sarcofago, di Ovio Piaccio, a Belmonte del Sannio. La rete tratturale è diventata dal punto di vista legale bene archeologico nel 1976 in base a notifica sopraintendile. Negli ultimi tempi si è avuta una vera e propria proliferazione di ritrovamenti archeologici sia perché si è esteso l’interesse ai manufatti minori sia perché fino agli anni ’90 la legge non imponeva la presenza di un archeologo nei cantieri. Dalla esecuzione dei lavori del metanodotto Campochiaro-Biccari sono emerse opere interrate. Si tratta di archeologia preventiva che evita interventi emergenziali di salvataggio. L’esperienza dei campi eolici ha portato alla scoperta di comprensori archeologici finora poco indagati il cui perimetro ed entità degli oggetti non sono ben definiti. Mentre in passato, a partire dall’Inchiesta Murattiana che risale ai primordi dell’interesse per l’antichità, si andava alla ricerca di eventuali opere d’arte più che allo studio delle civiltà che ci hanno preceduto ora il campo di indagine si è ampliato giungendo perfino all’utensileria minuta. Si è affermata, poi, la ricerca stratigrafica della quale, in verità, non si è tenuto conto nel portare alla luce il tratto di strada consolare a Boiano.

2 - Il patrimonio archeologico

Il patrimonio archeologico molisano e l’ambiente, un rapporto difficile, sia che si tratti di quello sannita sia di quello romano. Quella di Roma, partiamo da questa, è una civiltà di pianura e alcuni centri di tale epoca sorti in aree pianeggianti, una volta terminata l’età imperiale, hanno subito una fase di decadenza, Saepiunum addirittura scompare, a causa delle divagazioni dei corsi d’acqua, si sa che l’alluvionamento è tipico delle piane, non più regimentati. Se ciò è stata la causa della morte, nel senso di città morte, prive di abitanti, di questi centri esso ha però, in qualche modo, pure permesso la conservazione delle antiche strutture. Nel secondo dopoguerra il Soprintendente Cianfarani fu impegnato in una grande opera di sterro del foro e della basilica di Altilia, mentre è di appena 20 anni fa la messa in luce del decumano di Boiano prossimo all’alveo del Calderari sepolto da una spessa coltre di depositi alluvionali; a Venafro il rio S. Bartolomeo non è stato capace, in quanto opera troppo consistente in elevazione, a nascondere con i detriti da esso trasportati il Verlasce, l’anfiteatro costruito probabilmente durante il regno di Augusto, il quale si è preservato adattandosi ad ospitare un insieme di magazzini agricoli.

Facciamo ora un passo indietro e andiamo nel Sannio pre-romano dove si prediligono le alture nelle scelte insediative in cui il problema, com’è noto, non sono le inondazioni, bensì i fenomeni franosi. In verità, gli scoscendimenti interessano i versanti e non la sommità dei rilievi e dunque i santuari e non i recinti fortificati, le due tipologie di interventi costruttivi caratteristici di questa popolazione italica (dell’altra, che poi è quello che oggi chiameremo il quartiere residenziale, i vici, non sono rimaste tracce in quanto le case dovevano essere fatte di materie povere, alla stregua delle capanne). Nel complesso teatro-templio di località Calcatello a Pietrabbondante gli archeologi hanno accertato la presenza di movimenti del suolo che nell’antichità dovettero portare all’esecuzione di muri di rinforzo. A Schiavi d’Abruzzo si dovette staccare parte del costone che sovrasta l’area templare che così fu seppellita. Le cinte difensive, invece, poste come sono sulla cima delle emergenze montuose, stanno in luoghi stabili, prendi quella su monte Saraceno a Cercemaggiore oppure quella sulla montagna di Gildone; il pericolo, trattandosi di zone montane, sarebbe potuto essere quello dell’incendio dei boschi circostanti, non, va precisato, nell’ambito interno alla murazione la quale doveva essere libera per ospitare la popolazione che qui si rifugiava nei momenti di pericolo. Va fatta, a questo proposito, un’ulteriore precisazione rilevando la numerosità di questi presidi murati nel nostro territorio rivelatrice della bellicosità di questi antenati impegnati in continue guerre, ben tre contro Roma. Dal punto di vista della conservazione il fuoco preoccupa poco poiché non ci sono rivestimenti musivi, statue, decorazioni che rischiano di essere compromesse dalle fiamme, ma solo grandi blocchi lapidei accostati a secco, cioè senza calce la quale è sensibile al calore. In verità, vi è un’eccezione rappresentata da Montevairano il cui perimetro murario assai lungo lascia intendere che esso è nato non per raccogliervi dentro saltuariamente le persone minacciate da forze ostili, quanto piuttosto per proteggere un autentico insediamento urbano come confermano le tracce emerse in diverse campagne di scavo; la sua datazione che è il IV secolo a.C. è successiva a quella dell’incontro, con la conquista di Capua, con la Magnagrecia dalla quale si è appresa l’idea di polis, antitetica al sistema vicano che aveva informato fino ad allora l’organizzazione territoriale dei sanniti. Non vanno omessi fra le cause che hanno determinato la scomparsa di tante testimonianze di questa popolazione (insieme agli accadimenti militari che hanno visto trionfare i romani ed appunto, ben 25 furono i “trionfi” che vennero esibiti da Silla nel foro della capitale della potenza nemica) gli eventi tellurici, frequenti in questa terra altamente sismica. Il terremoto rappresenta una minaccia per l’integrità di quello che resta, dalle colonne della basilica di Altilia ai brandelli di muratura autentici “mozziconi” alti diversi metri dell’anfiteatro di Larino, elementi verticali rimasti, poiché senza collegamenti con altre strutture, isolati, particolarmente, perciò, vulnerabili alle oscillazioni del terremoto.

Vi è, infine, un fattore ambientale, tornato ai primi posti oggi dell’attenzione della collettività, che è quello dei cambiamenti climatici il quale è capace di incidere, significativamente, pure sul patrimonio culturale. Esso può aver giocato un ruolo nella scomparsa dei probabili nuclei abitativi che Roma doveva aver fondato sulla costa, che essendo una fascia pianeggiante era un ambito da essa prediletto, lo si è detto all’inizio, per la costruzione di proprie colonie in cui, magari, trasferire, per controllarle, le tribù frentane. Il mito di Buca, un municipio romano ricoperto dalle acque dell’Adriatico ha pertanto qualche credibilità: il livello del mare, a seguito del riscaldamento del clima al termine di una delle fasi di glaciazione del pianeta, l’ultima delle quali è la “piccola glaciazione” del XV-XVI secolo, è possibile si sia innalzato sommergendo un tratto della linea costiera. Nel discutere sulla preservazione dei beni archeologici bisogna pensare poi che esiste una sostanziale differenza tra gli stessi: vi sono oggetti naturalmente deperibili, ad esempio quelli in legno, destinati alla vita quotidiana e gli attrezzi da lavoro, e manufatti, anche edilizi, creati per i posteri, quali i monumenti celebrativi, i templi, ecc.. I messaggi che si voleva fossero tramandati alle generazioni future, o testi di tipo votivo, erano affidati a materiali perenni come il bronzo, la Tavola Osca, o alle epigrafi trascritte e interpretate per primo, nella seconda metà del XIX secolo dal Mommsen, quando si avviano gli scavi di principali siti archeologici che congiuntamente alle poche pagine di autori latini tra cui Livio, per la volatilità insita nel supporto per la scrittura utilizzato, la pelle di pecora con cui sono fatte le pergamene, giunte a noi ci hanno permesso di conoscere il popolo sannita. Di qui una storia consegnataci dalla classe dominante e anche il contenuto, quasi obbligato, delle collezioni museali, il Sannitico a Campobasso e specialmente l’antiquarium del capoluogo pentro, composto da reperti di pregio o opere artistiche e non da documentazioni sulle famiglie e sul lavoro come avverrà in seguito (non perché umile).
3 - Il santuario di Pietrabbondante

I santuari molisani sono luoghi di culto legati alla presenza di qualche fatto singolare dell’ambiente. Collegato ad una fonte è quello, il più recente, di Castelpetroso, o almeno la sede originaria, la Cappella delle Apparizioni. A S. Angelo in Grotte è, appunto, una grotta ad avere ispirato il sentimento religioso e ciò ha avuto inizio fin dal principio dell’era cristiana perché S. Michele era il protettore dei longobardi. Pure nell’antichità si doveva essere verificato qualcosa di simile, prendi lo scomparso bosco sacro di Fonte del Romito tra Agnone e Capracotta; qui venne trovata la Tavola Osca in cui sono enumerate varie divinità (in verità, sempre la stessa Cerere, mediante vari appellativi) ad ognuna delle quali corrispondeva un albero con adiacente altare e il rito prevedeva un circuito che li connetteva. Distesa boschiva era anche quella alle pendici del Matese dove sorge il tempio di Ercole Curino, ci troviamo a Campochiaro (è tuttora presente la copertura arborea) e boscoso era sicuramente il sito del tempietto di S. Giovanni in Galdo adesso superficie agricola. Presso una sorgente sta il tempietto di Vastogirardi nella località Piana dell’Angelo. È la natura, specie quella dove emergono con forza elementi primari, cioè foresta, cavità, roccia e emergenza sorgentizia, a conferire sacralità ad una certa parte del territorio e ciò venne confermato in alcune occasioni quando si ebbe il processo di cristianizzazione: almeno in tre casi si è avuta la sovrapposizione di una chiesa cattolica su di un tempio pagano e sono le cattedrali di Isernia e di Trivento le quali, però, sono intramurarie quindi non in rapporto con fattori naturali e il tempietto di Vastogirardi. L’agro è sicuramente meno controllato dall’uomo di un centro urbano e, proprio per questo, abbastanza misterioso mentre i posti abitualmente frequentati sono privi, in quanto ben conosciuti, di qualunque carica esoterica, di richiamo all’extraterreno, a cominciare dagli insediamenti abitativi.

A meno che non si voglia aderire alla tesi che Pietrabbondante sia Bovianum Vetus come propugnato, per primo, da Mommsen oppure Cominium per altri autori, il santuario situato nella zona chiamata Calcatello è anch’esso rurale. L’edificio culturale è dedicato alla dea Vittoria e tale dedicazione qualche legame lo deve aver avuto con l’esito vittorioso di una fase delle “guerre sannitiche” da parte delle popolazioni italiche. Questo era il posto dove si radunavano le diverse tribù che formavano il Sannio per assumere le principali decisioni relative alla nazione specie in materia bellica. Qui, sembra coglierlo in un passo di Tito Livio, avvenne il giuramento della legio linteata ovvero “l’ultima legione”, mutuando questa espressione dal titolo di un noto film, che combatté, perdendo, contro Roma; Annibale prima di raggiungere Canne intese distruggerlo identificando nel santuario la capitale di questa terra ormai assoggettata all’Urbe dove il fenomeno urbano non si era ancora affermato. La devozione a Vittoria appare di comodo e comprensibile se inserita nel quadro delle vicende militari che per un lungo periodo segnarono la vita di quel popolo, ma è apparsa di recente una teoria, ritenuta plausibile dal Soprintendente ai Beni Archeologici del Molise di 15 anni fa, dott. Mario Pagano, secondo la quale la divinità originaria venerata nel santuario era Mefite, soppiantata poi da Vittoria. Mefite era una dea presente in quest’area come dimostra il tempio di S. Pietro in Cantoni vicino Sepino ad essa consacrato; nel caso in questione le terme alle quali tale divinità è preposta sono, però, lontane da Altilia e ciò permette, con qualche probabilità, di ritenerla la protettrice non solo delle acque termali, bensì pure di tutte quelle superfici dal cui sottosuolo provengono intensi odori. Magari perché ricche di tartufo il quale deve la sua fortuna in cucina alle sue emanazioni odorigene. In verità apprezzate oggi e non nell’antichità.

È una semplice ipotesi, non supportata da alcuna documentazione storica, non suffragata da alcun studioso e, lo si ammette, un po’ spinta (l’archeologia in quanto scienza prevede una tesi che poi va dimostrata) e, però, ci piace metterla in campo anche perché ci consente di spiegare la sacralità dell’angolo territoriale in cui ricade il santuario di Pietrabbondante, battuto spesso dai cercatori del prezioso tubero. Una interpretazione conformemente a quella adottata per Campochiaro, che porta a supporre che il senso del divino provenga dalla copertura forestale di questa fascia alto-collinare la quale se, da un lato, sarebbe utile per prevenire le frane delle quali ci sono tracce nel sito templare, dall’altro impedirebbe e, soprattutto, avrebbe impedito all’epoca, di percepire in un raggio di distanza considerevole il santuario. Per la sua imponenza non si può proprio pensare che si volesse che le piante lo occultassero. Esso oggi come ieri e più ieri quando l’ambito era privo di segni antropici l’area culturale doveva costituire un autentico Landmark, un punto di riferimento territoriale, nucleo focale di un grande ambito. Infine, si propone quale spiegazione della devozione lo stesso ambiente in cui è ricompreso, la cui maestosità è indubitabile per la vastità dello scenario che va dalla vallata del Verrino fin dove questo si congiunge con il Trigno e arriva alla cima di monte Saraceno; non è la bellezza paesaggistica a colpire gli antichi quanto la evidenza delle forze naturali, compresenti in tale territorio che abbraccia tanto la montagna quanto il piano. È la visione definibile di carattere panteistico in cui natura e divinità sono fusi insieme. I modi di sentire ancestrali erano superati quando i Sanniti costruirono il santuario essendo già entrati in contatto con la cultura greca che attribuiva una grande importanza alla razionalità e quindi alla geometria ricercando le proporzioni armoniche nella lettura del mondo così come nell’arte. La religione ha ormai abbandonato l’animismo di qualsiasi forma. Vi è un asse che lega il tempio al sottostante teatro, giusto al centro della valle, allineamento che (quasi a volerci insegnare a come leggere il paesaggio) prosegue in alto verso il colmo di m. Saraceno delimitato da una cinta muraria a scopo difensivo e in basso in direzione del corso del Verrino. Vi sono due manufatti, il tempio (B) e il teatro, lo si ripete, perfettamente allineati fra loro (e coerenti con l’andamento del pendio) costituenti un corpo unitario ed aventi sezione analoga.

È, di certo, un intervento pianificato perché sono coevi; gli dei sono ora confinati nell’Olimpo, non più in terra che è nostra. Il tempietto precedente di un periodo antecedente detto tempio A è laterale, ma esso è, comunque, in linea trasversalmente, pressoché orizzontalmente, con il teatro posizionati come sono su un’unica terrazza, specifichiamo virtuale, mentre il tempio B poggia, anch’esso in maniera ideale, sul terrazzamento in cui è appoggiata pure la domus pubblica che è, seppur traslata altitudinalmente, su lato opposto a quello del tempio A rispetto alla direttrice longitudinale (sottolineando, lo si ripete, volutamente la direzionalità nella morfologia dell’area) che passa al centro del tempio B e del teatro: vi è, dunque, oltre all’assialità, la simmetria tra gli elementi che hanno larghezza identica o, se si vuole, vi è bilanciamento dei pesi visivi, anche rispetto al baricentro della valle. Niente di più classicista, o meglio di ellenistico per quella volontà di effetti drammatici rivelata dalla veduta del santuario per cui entrando dal tratturello che era la via di accesso con un solo colpo d’occhio si sarebbe visto sia il teatro e sia il tempio che lo domina.
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Le sorprese archeologiche
Si può pianificare quanto si vuole per conservare il paesaggio, ma poi accade qualcosa che è capace di far saltare ogni piano. Il piano paesistico di un certo comprensorio dispone magari l’edificabilità di un’area e poi si scopre, proprio quando stanno per iniziare i lavori di edificazione di un qualche manufatto, che quel sito è di interesse archeologico per la riemersione durante lo scavo di un reperto antico. È raro che si facciano scoperte eccezionali, vi è una casistica molto limitata. Il più remoto ritrovamento è la Tavola Osca di Agnone il quale è avvenuto nel XIX secolo, fortuitamente venuta alla luce durante l’esecuzione di una lavorazione agricola; non c’entra con l’archeologia perché è un oggetto di età cristiana ma lo si segnala in quanto è anch’esso riemerso durante l’aratura di un campo a Cercemaggiore il ritrovamento della statua della Madonna della Libera fu altrettanto casuale.

Casi eclatanti per la bellezza dei rinvenimenti sono stati la “scoperta” del Cavaliere di S. Biase e della Minerva di Roccaspromonte, ambedue oggetti autenticamente d’arte; in entrambe le circostanze le ricerche archeologiche furono circoscritte ad un ambito limitato e, peraltro, di breve durata per cui non conosciamo bene il contesto insediativo cui appartenevano. È addirittura clamoroso lo “scoperchiamento”, proprio così poiché si tratta di sepolture, delle tombe bulgare, un intero sepolcreto dove i cavalieri venivano seppelliti con il proprio cavallo nella piana di Campochiaro: è stato l’approntamento di un cantiere per l’estrazione di inerti a portare al riconoscimento di tale ancestrale cimitero. Si tratta di testimonianze antiche che stanno appena a qualche metro dal livello del suolo, situazione topografica che si ripete più volte nell’esecuzione delle trincee per l’alloggiamento dei metanodotti. Durante uno dei lavori di realizzazione di queste condotte ci si è imbattuti in una villa rustica di età tardo imperiale di cui sono rimaste significative evidenze, nell’agro di S. Pietro Avellana. Per quest’ultima, i suoi resti, si è deciso la conservazione in situ, mentre le tombe di Campochiaro sono state svuotate e il loro contenuto è stato trasportato nel Museo Sannitico, trattando il corredo funerario quale “bene mobile” e, però,
non l’area cimiteriale quale “bene immobile” come forse sarebbe stato opportuno fare. È da dire che se in passato il pericolo di danneggiamento dei beni interrati era rappresentato dalla vanga del contadino ora, per via del progresso tecnico, la minaccia è maggiore, sono le escavatrici. Finora abbiamo parlato di “disseppellimenti” di cose storiche che hanno riguardato la campagna, non è detto, comunque, che anche in città non se ne possano avere nonostante che questa per la sua intensa frequentazione antropica appaia un luogo completamente esplorato. In definitiva, anche negli agglomerati urbani si possono fare incontri inaspettati: è successo a Boiano dove durante la sistemazione dell’alveo del Calderari ci si è imbattuti nel decumano di Bovianum (Undecanorum o Vetus? o entrambi?). Appena “fuori porta” ad Isernia nel mentre che si costruiva la tangenziale all’abitato ci si è trovati di fronte, o meglio sotto i piedi, ad un giacimento paleolitico con tracce (un dentino) della presenza umana, è scontato che nessuno sapesse niente, non avesse sentore di nulla, non vi sono, di certo, fonti scritte o epigrafiche né evidenze di qualsiasi altro tipo delle quali avvalersi per lo studio di fasi tanto lontane da noi, siamo ai primordi della storia dell’umanità.

In genere, comunque, del patrimonio archeologico abbiamo pochi dati conoscitivi, c’è del sommerso sottoterra, magari non proprio favolosi tesori come si potrebbe vagheggiare. L’estemporaneità delle esplorazioni del sottosuolo, l’archeologia di emergenza, le sorprese archeologiche sono le parole chiave dell’attività archeologica nostrana, le campagne di scavo sistematiche sono rare. L’urgenza può spingere a fare rilevamenti frettolosi e ciò succede durante eventi bellici, di ciò si occupa la Società Italiana Protezione Beni Culturali che a Campobasso fa capo a Isabella Astore, e in previsione dell’innesco di un evento franoso su un pendio. Abbiamo detto prima che sono rare e, però, non del tutto assenti le indagini condotte con sistematicità su alcuni siti archeologici molisani sempre condotti da istituti accademici, il Suor Orsola Benincasa a S. Vincenzo al Volturno e l’Università di Perugia a S. Pietro in Cantoni.
L’orizzonte temporale di queste ricerche è pluriennale, invece è all’istante la segnalazione di una “resurrezione” di un bene culturale giacente nel sottosuolo da parte dell’archeologo preposto alla sorveglianza dei lavori pubblici nel momento in cui la loro effettuazione richieda che vengano eseguite escavazioni. Da circa 2 decenni è in vigore una normativa che obbliga alla presenza in sede di realizzazione di fondazioni, di sbancamenti, di massicciate stradali, di palificazioni interrate della figura dell’esperto in archeologia. Gli organi periferici del ministero della cultura non sono organizzati per assolvere a un compito del genere così come allo studio programmato di areali di valore archeologico, per cui sono affiancati da professionisti del ramo nel primo caso e da dipartimenti universitari nel secondo.
Il paesaggio archeologico è un paesaggio contemporaneo
Il primo paesaggio moderno nel Molise è stato il paesaggio archeologico. Può apparire paradossale associare a moderno archeologico eppure è così. Non esisteva prima dell’avvento della modernità un riconoscimento delle peculiarità e con esso una consacrazione, se così si può dire, nell’immaginario collettivo dei luoghi connotati dalla presenza di resti dell’antichità e, d’altro canto, campagne di scavo sistematiche tramite le quali ritrovamenti di epoca sannita e romana sono venuti fuori in gran numero sono state condotte proprio agli albori dell’età contemporanea. Così come si può parlare dei classici paesaggi montano, collinare e fluviale è legittimo parlare anche di paesaggio archeologico nella nostra regione, categoria rappresentata dall’area di Altilia, la borgata di Sepino in cui è ricompreso Saepinum. Sembrerebbe una spiegazione non richiesta perché è un’affermazione indiscutibile, ma la si fa lo stesso: Il paesaggio, per statuto suo proprio, consiste per essere tale in un areale esteso, ragion per cui non può essere considerato paesaggio archeologico quello di Pietrabbondante in quanto si tratta di un luogo, località Calcatello dove è stato rinvenuto il complesso teatro-templio e ora pure la domus pubblica, di grandezza abbastanza limitata.

Qui si è di fronte ad un episodio, di grandissimo valore s’intende, monumentale ma pur sempre episodio. La Sepino romana invece è una città, ben più ampia è l’estensione di territorio che occupa congiuntamente alla fascia periurbana ad essa legata in modo stretto. Va bene, è ciò che si è fatto fino ad adesso nel nostro intervento, tipicizzare i paesaggi e, però, non bisogna dimenticarsi che il paesaggio è un’espressione culturale, il frutto di una cultura, non una mera espressione geografica per citare la frase di Metternich al Congresso di Vienna riferita all’Italia. Il paesaggio, saltando alcuni passaggi logici necessari per dimostrare questo assunto, ma li si da per scontati, si sottolinea solo il fatto che esso è in dipendenza della cultura di chi lo osserva, è un unicum; non esiste un paesaggio, se è veramente tale, uguale ad un altro, non fosse altro, lo si ripete, che sono molteplici i modi in cui viene percepito. Non si può, seppure noi qui lo abbiamo fatto, parlare in astratto di paesaggio archeologico, tentare di omologare situazioni differenti. Si prenda il caso di Pompei riemersa alla luce dopo quasi 2 millenni messo a confronto con Sepino che invece ha avuto una certa continuità di frequentazione antropica per cui ai resti del vecchio municipium si sono sovrapposte, in maniera random, alcune costruzioni di ridotte dimensioni successivamente con un’intensificazione a partire dal XVII secolo.
Ogni paesaggio archeologico, così come del resto qualsiasi paesaggio, ha un suo distinto carattere che a Sepino è quello determinato dall’atteggiamento della società contadina al riadattamento o meglio all’adattamento sapiente dell’eredità delle civiltà precedenti, per dirla in breve e in maniera concreta, degli imponenti ruderi di questa colonia dell’Urbe alle proprie necessità. Ci vuole abilità, e i nostri contadini hanno mostrato di averla, a coesistere con i lacerti dell’antico castrum, a sfruttare i resti per le loro esigenze, a sapersi muovere fra i rimasugli, in verità cospicui, di quella che fu una “filiazione” di Roma la quale “la creò a sua immagine e somiglianza”, lo si dice scherzosamente. È suggestiva e perciò la si propone l’immagine della sovrapposizione tra le due civilizzazioni, peraltro, quella romana, urbano centrica e quella che definiamo tradizionale, all’opposto, con un neologismo, ruralcentrica. Convivono fianco a fianco, o meglio strato dopo strato. I Romani non avrebbero mai ammesso la presenza di stalle nell’agglomerato urbanistico che è quanto è avvenuto dopo e così, viceversa, le famiglie che hanno ricolonizzato Altilia non sapevano che farsene del teatro per qui questo progressivamente si interrò e il piano che venne a determinarsi alla quota dell’appunto piano di campagna al posto dell’orchestra diventò un’aia per animali da cortile (ha pur sempre la forma di corte l’emiciclo teatrale).

Per i “puristi” dell’archeologia occorreva che il sito fosse “liberato” non solo dalla terra ma anche dalle strutture edilizie che vi si erano impiantate sopra. In altri termini la città morta e sepolta doveva essere disseppellita. Il Soprintendente dell’epoca decise che la casa soprastante al tetrapilo di ingresso alla cavea doveva essere demolita per rimetterlo in vista, mentre forse sarebbe stato meglio rimetterlo in evidenza alla stessa maniera, cioè invece di abbattere il volume sovrapposto svuotare quello sottoposto, di come si è fatto con il suo gemello che sta all’entrata opposta. Dilemma a parte, se mettere al primo posto le esigenze dell’archeologia oppure lasciare lo status quo, la stratificazione successiva, è da dire che, comunque, le testimonianze ultramillenarie sono di un notevole fascino. Esse ci fanno immergere sentimentalmente in un’era remotissima. La nostra sensibilità verso il passato, va evidenziato, stiamo parlando per l'appunto di sentimenti, si è modificata nel passaggio dal Neoclassicismo in cui si sviluppò l’entusiasmo per l’età classica, il mondo greco-romano, dunque prevale l’interesse archeologico, al Romanticismo quando le raffigurazioni artistiche più ricercate erano quelle delle pecore con pastore a brucare tra “gli archi e le colonne” di leopardiana memoria, quindi l’interesse per il mondo contadino, per il pittoresco, magari greggi in transumanza che hanno sostato in questo luogo sede di commercio e di rifornimento idrico, fin da fasi ancestrali della nostra storia, immagine ricorrente anche nelle rappresentazioni del presepe napoletano.
Quale fase storica mettere in evidenza in un monumento stratificato

Gli atteggiamenti verso i beni storici e, in particolare, verso il restauro sono variegati. Nel dibattito in questo campo vi è sempre stata una differenziazione tra chi sostiene che bisogna privilegiare la salvaguardia, ci stiamo riferendo a immobili stratificati nei quali cioè si colgono più fasi costruttive, di ciò che è più antico eliminando le sovrapposizioni successive e chi, invece, vorrebbe che venisse conservata la sequenza delle fasi ovvero degli strati di quel manufatto. La prima tesi è basata sul convincimento che abbia maggior valore l’antichità in sé per sé, più è remota nel tempo un’opera più è meritevole di tutela per cui vanno eliminate le modifiche che ha subito in seguito per far venire alla luce la configurazione originaria. Il caso che piace citare al proposito è la distruzione della casa che inglobava il tetrapilo che è all’ingresso del teatro di Altilia per far uscire fuori, restituire alla vista quest’ultimo.
Un secondo esempio il quale non rientra nell’archeologia in senso classico semmai nell’archeologia medievale è quello della chiesa di S. Mercurio a Campobasso la quale, illustre esempio di romanico molisano, venne “liberata” 50 anni fa dalla costruzione che le si era addossata, che le stava letteralmente addosso, sopra, un’azione non condivisibile. Estendendo il discorso, portandolo al livello urbanistico è forte il dilemma dei restauratori di fronte alla scelta se conservare l’edificato tradizionale oppure procedere alla sua demolizione e alla escavazione per far emergere integralmente la Sepino romana. Quale Sepino romana poi? Il dubbio è su quale livello occorre raggiungere con lo scavo perché Altilia ha vissuto più periodi storici coincidenti con quelli della storia di Roma la quale è la sua “genitrice”, se quello repubblicano oppure quello augusteo o quello tardoimperiale. In quest’ultima epoca comincia la disarticolazione dell’immagine urbana scissa in gruppuscoli distinti di case separati da superfici adesso agricole ma in precedenza occupate da costruzioni, private o pubbliche, o mai utilizzate a fini edificativi perché destinate a futuri ampliamenti della città; è il settore nord-est individuato come regio IV
che stando appartato com’è, situato in un angolo non partecipa alle evoluzioni urbanistiche della città, pur incluso nella cinta muraria. Verso la fine dell’Impero Saepinum subisce una decadenza a cominciare dal suo centro rappresentativo dove troviamo, risalenti a questo momento della sua vita, ubicate attività produttive, il mulino ad acqua presso la Fonte del Grifo e le fosse coniche destinate a contenere anfore con derrate alimentari, e tombe, cose non proprio consone con il ruolo di rappresentanza che dovrebbe avere il foro, le quali sono solitamente ubicate nelle zone suburbane, non nell’area forense. È indubbio che ci sia più di un dubbio per quanto riguarda quale periodo storico far riemergere ad Altilia, si fu meno dubbiosi a Pietrabbondante la quale non essendo una città come l’altro sito, bensì un santuario perse la sua ragion d’essere divenuti con la romanizzazione obsoleti i culti delle divinità sannite per cui il luogo non fu più utilizzato. È stato l’abbandono connesso alla fine della funzione religiosa e magari, qualche smottamento dovuto alla fragilità idrogeologica che contraddistingue il territorio in cui è situato, il bacino del Verrino, e le scorrerie barbariche, siamo ai piedi di monte Saraceno, ad aver determinato la sua scomparsa, financo dalla memoria.

Quello di Pietrabbondante che ci hanno restituito le ricerche archeologiche iniziate da Borboni è un paesaggio antico, un’antichità assoluta non contaminata da segni antropici successivi. È come se il tempo qui si fosse cristallizzato, una situazione ben diversa quindi da quella di Altilia. Con un brusco capovolgimento di fronte lasciamo le cose grandi, spazialmente parlando, e passiamo a quelle piccole, a fatti singoli. Parliamo ora di elementi lapidei decorati appartenenti a manufatti antichi reimpiegati in brani murari più recenti. Sicuramente tale reimpiego c’entra con il gusto antiquario e con il desiderio, ma è la stessa cosa, di abbellire la facciata della propria dimora incastrando iscrizioni, fregi, ecc. lapidei nella tessitura in filari di pietra della parete. Seppure si volesse non sarebbe possibile, non sarebbe assolutamente facile estrarre dal muro questi blocchi, o blocchetti che siano, calcarei aventi valenze artistiche per ricollocarle, mettiamo, in un antiquarium.
È un fenomeno diffuso quello dell’appropriazione di pezzi lapidei appartenenti a fabbricati di età remota ridotti a rudere per inserirli in nuove strutture architettoniche a scopo adornativo o anche usarli come materiali da costruzione. Tale tendenza al riuso di componenti di stabili di ere remote ovviamente non è limitata solo ad Altilia, ma la si coglie pure a Boiano, Isernia, Venafro, cioè in tutti gli ex-municipia. Va segnalata a tale proposito la difficoltà se non la temerarietà di una simile operazione allorché, e succede spesso, i conci di recupero vengono messi nei cantonali, diventano pietre angolari, oppure utilizzati come chiave di volta. Infine, rimanendo nel tema si ricorda che la Fontana Fraterna, simbolo di Isernia, un’autentica icona regionale è stata realizzata mediante l’assemblaggio, atto che è preceduto dallo smontaggio e che equivale al rimontaggio di frammenti di monumenti antichissimi, un collage davvero riuscito che, peraltro, testimonia della passione per l’antico che ci ha sempre coinvolto.