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IL PATRIMONIO CULTURALE PUBBLICO

Le opere di interesse culturale di proprietà pubblica non sono poi tanto poche. Poche sono quelle in mano alla Soprintendenza la quale destina una quota rilevante dei propri fondi alle azioni di conservazione di queste che in effetti, si riducono a due, il castello di Gambatesa e quello di Venafro, ambedue autentici monumenti architettonicamente superiori a tutti gli altri edifici del demanio statale, non fosse altro che per i loro affreschi. Lo Stato oltre quelli in carico all’organo periferico del ministero della cultura ha altri beni significativi dal punto di vista architettonico tra i quali si segnala la sede del tribunale a Campobasso le cui facciate sono ripartite da colonne di puro stile dorico alla manutenzione del quale è preposto il ministero delle infrastrutture. È demaniale ma regionale il palazzo ex GIL, una delle rare testimonianze di architettura razionalista presenti nel Molise, mentre in quello provinciale vi è il palazzo Mazzarotta che ospita il museo sannitico all’origine in capo alla provincia e ora diventato museo archeologico nazionale. Vi è pure il demanio comunale nel quale rientra, rimanendo sempre a Campobasso, il celebrato castello Monforte.

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Del comune, non più di quello del capoluogo di regione, bensì di quello di Isernia e di quello di Larino sono ulteriori due fabbricati monumentali, rispettivamente il convento di San Francesco e il palazzo ducale che ospitano entrambi il municipio. Occorre mettere in evidenza che tutti i manufatti edilizi citati sono costruzioni di notevole grandezza i quali difficilmente troverebbero un privato, nonostante le loro qualità artistiche, interessato a entrarne in possesso e ciò, oltre a ragioni distributive e funzionali, perché data l’imponente volumetria è troppo dispendioso il riscaldamento dei locali tanto per abitazioni quanto per uffici e per rappresentanza. Le strutture edilizie a carico per la manutenzione del bilancio statale, se immobili iscritti tra quelli dello Stato o oggetto di finanziamento per la medesima finalità da parte dello stesso pur non rientrando nel suo patrimonio sono molteplici. Sono tanti gli stabili di valenza storico-artistica il cui mantenimento in efficienza è di competenza diretta o indiretta dell’autorità centrale le cui diramazioni sono i ministeri. Si sono citati sopra quello della cultura e quello ex Lavori pubblici e ora si aggiunge quello dell’istruzione.

Vi sono scuole in stabili storici tra i quali primeggia il convitto con annesso liceo Mario Pagano appunto nazionale; tale gruppo comprende edifici, pochi sono quelli in cui la scuola è ancora in essere, dove fino a poco tempo fa era allocata la scuola dell’obbligo a Sepino, palazzo Giacchi, e a Cantalupo, in verità un bel po’ di tempo fa, palazzo Petrecca. Come si vede l’intervento finanziario del governo centrale seppure con finalità diverse da quella della difesa delle emergenze culturali ha spesso ricadute su queste ultime e allora, sarebbe opportuno un coordinamento tra vari capitoli di spesa del bilancio statale in modo da rendere maggiormente efficace l’investimento anche in termini di riflessi sull’asset patrimoniale di valore storico del comparto pubblico. Lo Stato si occupa/preoccupa degli edifici quando sono sede di uffici statali, con il cambio di destinazione d’uso si ha la dismissione dell’immobile, non può più intervenire nonostante sia una “cosa di interesse storico”; per capirci lo Stato che oggi provvede all’efficienza del bel carcere borbonico della “capitale del Molise” non ha titolo qualora venga riconvertito in un centro polifunzionale come auspica la cittadinanza da tempo ad occuparsi della sua manutenzione, poiché non ne sarebbe più in possesso.

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Le autonomie locali nell’ottica della valorizzazione dei beni culturali, la tutela è esclusiva della Soprintendenza, possono o con fondi propri o, più di frequente, con l’assegnazione di contributi europei investire nel recupero di testimonianze antiche a rudere quali lacerti di castelli, prendi quello di Longano, o di murazioni, prendi le “mura saracene” nel medesimo comune. Niente è precluso se concorre alla messa in valore della realtà locale producendo il restauro dei “segni” del passato effetti positivi sull’attrattività turistica. È pur sempre un bene culturale seppure ne restano pochi, appunto, resti, un bene patrimoniale che in quanto tale non può rimanere improduttivo. Si dà una mano alla salvaguardia anche in maniera indiretta magari utilizzando un immobile vincolato quale sede municipale (Isernia, Larino, S. Giuliano del Sannio, Forlì del Sannio, Capracotta e così via). Ci si provò a Tufara ma il relativo progetto di riconversione del maniero longobardo in casa comunale venne giudicato troppo invasivo dal ministero perché prevedeva la costruzione ex-novo di un volume da adibire alle attività amministrative sugli spalti della struttura castellana senza, peraltro, tentare una mimetizzazione del corpo di fabbrica rendendolo, mettiamo, assomigliante ad un torrione, una sorta di ricostruzione in stile.

IL PATRIMONIO CULTURALE PRIVATO

Di castelli che sono diventati abitazioni private nel Molise ve ne sono molti, da quello di Pettoranello a quella di S. Agapito, da quello di Trivento a quello di Torella, da quello di Cercepiccola a quello di Bonefro, da quello di Casacalenda a quello di Macchia d’Isernia e l’elencazione potrebbe continuare a lungo. Solitamente appartengono a più proprietari, vedi quello di Limosano, ma vi sono casi, quello di Cerro al Volturno, in cui la proprietà è di un’unica famiglia. Diversamente da quanto ci sarebbe da aspettarsi rare sono le strutture castellane in possesso dei Comuni, i più importanti sono quelli di Campobasso e di Monteroduni, quest’ultimo un’acquisizione recente.

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I castelli sono notoriamente “cose di interesse storico” per cui sono vincolati ope legis qualora siano di enti pubblici, mentre se privati occorre la procedura di notifica del vincolo per portare a conoscenza dei possessori dell’iscrizione del loro immobile nell’elenco dei beni tutelati. Dal momento dell’avvenuto riconoscimento del valore culturale da parte della soprintendenza scattano oneri e onori. Tra i secondi vi è innanzitutto la possibilità, un sostegno “diretto”, di ricevere un contributo statale per i lavori da eseguirsi e un sostegno “indiretto” che consiste in benefici fiscali quale quello dell’esenzione di alcune imposte nelle operazioni di mantenimento del manufatto.

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Tra i primi vi sono l’obbligo di sottoporre al parere soprintendile qualsiasi modifica che si intende apportare all’organismo architettonico e, ma adesso il verso essere va coniugato non più all’indicativo bensì al condizionale perché è di una condizione quello che si sta per esporre, la stipula di una convenzione con l’organo ministeriale preposta che si sarebbe tenuti ad accettare per permettere l’accesso di visitatori all’interno del maniero, un fastidio non da poco. Ritornando ai vantaggi economici tra i quali vi è l’abolizione dell’IVA per i lavori di restauro da eseguirsi è bene segnalare il pericolo, che però qui da noi non si è mai corso, che il proprietario rinunzi a fare la manutenzione ordinaria in quanto solo per quella straordinaria la quale viene assimilata al restauro non occorre corrispondere l’IVA. Oltre ai castelli sono compresi nel patrimonio culturale di proprietà privati tutelati anche numerosi palazzotti signorili ottocenteschi come il palazzo Volpe a Boiano o il palazzo Selvaggi a Vastogirardi, il palazzo Gioia a S. Massimo è invece della parrocchia; mancano nel Molise invece i locali commerciali d’epoca, le botteghe di artigianato tradizionale o gli studi d’artisti (dello studio d’arte di Emilio Labbate scultore carovillense del XIX secolo si sa il vano in cui era ubicato dove, però, non ci sono più gli attrezzi adoperati dal maestro).

L’ammodernamento dei negozi, delle barberie, delle sartorie, dei laboratori artigianali ha portato alla cancellazione dei vecchi arredi e per gli ultimi degli strumenti di lavoro di un tempo. Concorre alla perdita delle tipiche attività del passato la trasformazione dell’economia, prendi il commercio minuto sopraffatto dalla grande distribuzione. Le farmacie, rimaste intatte come arredamento, del tempo che fu sono soggette a furti del mobilio e del vasellame di pregio che conteneva i farmaci. Sono in mano privata evidentemente i mulini tipici che numerosi costellano i corsi d’acqua i quali al giorno d’oggi non producono alcuna utilità economica per cui non vi sono incentivi che tengano capaci di invogliare alla loro conservazione, l’unica via da perseguire è, pertanto perlomeno degli esemplari più significativi, si pensi al mulino Corona a Baranello, l’acquisizione da parte di qualche ente.

Il mulino Giacchi a Sepino con il lungo canale di adduzione dell’acqua sorretto da arcate in pietra a mo’ di acquedotto romano per un periodo, limitato, è stato riattivato da un mugnaio di Matrice a scopo dimostrativo dell’industria molitoria antica, senza avere la pretesa di produrre reddito dallo stesso. Vi è, poi, il capitolo dell’archeologia industriale con gli opifici, ovviamente privati, ormai abbondantemente obsoleti, che sono destinati ad andare in malore come è avvenuto purtroppo per il lanificio Martino a Sepino. Unicamente l’ente pubblico si può accollare le spese per il recupero degli stabilimenti della protoindustria e, del resto, le società paleoindustriali che li gestivano sono ormai disciolte: a Cantalupo la regione ha finanziato la “ricostruzione” di una bellissima fabbrica di laterizi. Privati, si avverte stiamo per parlare di grandi compagnie private nate come tali o in corso di privatizzazione, sono inoltre il palazzo delle Poste nel centro del capoluogo regionale

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la cui architettura è informata agli stilemi dell’ecclettismo storicistico e la sede di Banca Intesa già Banco di Napoli, anch’esso centrale a Campobasso la quale è in stile razionalista; queste società private hanno i mezzi finanziari per garantire la conservazione ai propri stabili. Si è appena nominata la parola banca e allora vengono in mente le meritorie iniziative della Banca Popolare del Molise a sostegno della divulgazione culturale con la stampa del volume di A. Trombetta sull’Arte Medievale nostrana, rilevando altresì che per i propri uffici aveva optato non per un immobile antico bensì su un edificio moderno progettato da P. Portoghesi.

LE INTEGRAZIONI ALLE OPERE MONUMENTALI

Esistono diversi generi di restauro, qui ci occupiamo prevalentemente del restauro degli edifici allo stato di rudere. Cominciamo subito con la categoria di intervento chiamata del “minimo intervento” la quale, a volte, è equivalente a “nessun intervento” per esplicitare la quale ci avvarremo come esemplificazione delle mura urbiche di Altilia, il quadrante del quadrilatero murario che ci interessa è quello sud-est. Quel che rimane qui della murazione originaria è la sua parte inferiore per cui essa si presenta bassa, e ciò a causa del crollo della sua parte superiore e nel contempo inclinata, la causa di entrambe le cose, la ridotta altezza e la sua inclinazione, forse è stata un terremoto. È un’immagine che si è consolidata nel tempo e costituisce qualcosa d’effetto, una visione singolare; non si capisce il perché della costruzione a lato di quello preesistente di un muro ex-novo con le medesime caratteristiche formali dell’antico il quale per fortuna non è stato rimosso. Il nuovo muro ha la medesima altezza di quello sopravvissuto ed è raddrizzato rispetto a questo e non si capisce il perché, tanto valeva visto che è un’operazione di sostituzione edilizia non di restauro rifarlo integralmente, identico ai tratti di muratura, quello in prossimità di Porta Boiano, pervenutici intatti.

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Tutto quello che si era fatto in passato sulla muratura rimasta pendente è stato ben poco, in verità poco quanto basta; l’operato consiste nella protezione della sommità dell’opera muraria pervenutaci con materiale simile al cocciopesto e un telo di tenuta per evitare la penetrazione dell’acqua piovana al suo interno, nella sua “carne viva”, né più né meno. Una seconda categoria è quella della “reintegrazione”, una tipologia di azione restaurativa che vediamo attuata, in modo significativo, nella Porta Benevento. Qui ciò che è stato reintegrato è assolutamente preponderante rispetto a quanto c’è di superstite. La predetta porta urbica appare essere un modello, in cemento, a scala 1:1, una specie di replica della Porta Boiano, della porta-tipo di Altilia le cui porte sono uguali fra loro. La Porta Benevento manca del frontone (e lì a terra e in attesa di essere ricollocato in cima all’arco) e vi sono inseriti pochissimi, appunto, inserti, rimasugli della porta che vi doveva essere in origine.

Una terza categoria è la “ricomposizione” che è quella, la si cita quale esempio, che si potrebbe eseguire dei ruderi della chiesa di S. Maria di Guglieto a Monteverde fra Vinchiaturo e Mirabello. Non la si è tentata finora, salvo un tentativo fatto nella zona absidale, e, però, sarebbe opportuno tentarlo perché la sua riduzione in frammenti sparsi non consente la benché minima comprensione delle fattezze che essa doveva avere; da ricordarsi che il restauro ha come obiettivo anche quello della leggibilità del bene, del rendere facile la sua lettura, non ci spinge a dire che è anche quello di permettere il godimento dei valori artistici che è un’altra cosa, una faccenda più complessa, non lo si può pretendere da un intervento di mera ricomposizione. La scelta di non ricomporre alcunché, neanche ciò che sarebbe assai facile rimettere su sembra dettata da una concezione estetizzante dell’approccio all’antico. L’ottica preromantica del Foscolo con i suoi Sepolcri vedrebbe un campo di rovine come un camposanto.

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Secondo le teorie rigoriste del restauro architettonico è apprezzabile in sé la rovina rimandando essa al disfacimento delle opere dell’uomo dovuto al trascorrere del tempo. Di categorie ce ne sarebbero di ulteriori ma si ritiene di non dover proseguire nella loro elencazione la quale ha il sapore, per l'appunto, di categorizzazione del restauro e passare all’esame di alcuni temi connessi alla conservazione del patrimonio storico allo stato ruderale; per ogni caso si dovrà individuare il più opportuno criterio o categoria (guarda un po') di restauro. Un primo caso è quello di rovine in stato di abbandono, rovine in rovina per così dire, le quali si dividono in due gruppi. Il gruppo numero 1 è quello di vecchi scavi abbandonati e l’esempio è la villa romana di Matrice nei pressi di S. Maria della Strada la cui escavazione venne iniziata alcuni decenni fa da archeologi inglesi e mai completata per cui ora ciò che era riemerso dalla terra è ricoperto nuovamente da terra oltre che da vegetazione spontanea.

Il gruppo numero 2 è quello delle evidenze archeologiche mai indagate, né a fondo né in superficie, come quel che resta in vista, una piccola abside, del monastero di San Nicola sul Matese in località giustappunto Fonti di S. Nicola. Sta in effetti in un vallone impervio ma è raggiungibile con un sentiero comodo e oggi che tanto si punta sull’escursionismo sarebbe un’emergenza culturale da valorizzare per promuovere possibili itinerari montani. Nei punti visitati dai turisti, si pensi alla cinta fortificata sannitica che è in collegamento con il santuario di Pietrabbondante oppure a Casalpiano con ciò che rimane di una villa appartenente ad una matrona romana affiancata alle consistenti tracce, assai imponenti di una chiesa medioevale oltre che a un bell’edificio di culto romanico le testimonianze dell’antichità stanno lì linde e pinte, ben curate, mentre altrove sono ignorate o addirittura invisibili, a rischio di deperimento, “figlie di un Dio minore”. C’è poi l’archeologia industriale quale nuova frontiera dell’interesse archeologico, ma è tutta un’altra storia, un problema più di economia forse che di cultura, anche se spettacolari sono alcuni manufatti della paleoindustria come la Cartiera di Sepino.

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IL REQUISITO DELLA VERTICALITA' PER IL RESTAURATORE, NON SOLO DELLA SPECIALIZZAZIONE

Il lavoro del restauratore richiede una certa versatilità tante sono le situazioni in cui si può imbattere. Una di queste, in verità inconsueta, è quella di opere in cui la pittura, manuale, e l’architettura sono strettamente legate fra loro. Si prenda la celeberrima Cripta dell’Abate Epifanio dove il ciclo di affreschi avvolge l’ambiente voltato, cioè il dipinto copre tanto le pareti che le volte. A Roccamandolfi l’insieme croce viaria-basamento, posta in un vano semiaperto delimitato da un arcone, è sotto-posto ad una abitazione, qui il rapporto è tra architettura e scultura. Salvare l’una, l’architettura, senza salvare l’altra, sia essa scultura o pittura, non ha senso. Sono in relazione fra loro anche l’architettura, l’alzato, e il pavimento, la pianta, specie se è a mosaico, un’altra espressione artistica, il quale acquista maggiore significatività se letto insieme al volume architettonico che lo contiene. L’arte musiva applicata ai piani di calpestio la si ritrova quando si tratta di pavimentazioni di stanze di rappresentanza e allora sarebbe opportuno ricostruire la sagoma dell’ambiente cui apparteneva; perciò al posto della solita tettoia a protezione degli scavi, in corrispondenza del lacerto di impiantito mosaicato della villa rustica di Canneto sarebbe opportuna una ricostruzione “stilizzata” del vano in cui era inserito completo di copertura.

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Il caso della cattedrale di Boiano è un po' particolare pur rientrando nella medesima tematica, quella della compenetrazione tra “scatola” edilizia e apparato decorativo sia esso di tipo pittorico sia in stucco cioè le modanature architettoniche, dai fregi alle lesene ai capitelli e così via; è una situazione speciale perché il danneggiamento che ha subito è la perdita irreversibile di parte delle decorazioni, reversibili invece sono i danni all’architettura. In altri termini, contrariamente, l’esatto contrario, alla casistica descritta prima, il contenuto è parzialmente compromesso, mentre il contenitore è salvabile. Al crollo durante il II conflitto mondiale di un pezzo del tetto si può rimediare, rifarlo con la medesima forma di quello originario, è un’impresa relativamente facile, si è trattato di riprodurre delle cose geometriche e la geometria, lo si sa, è una branca della matematica. Per i dipinti sulle pareti interne è diverso, se non si sono conservate immagini fotografiche accurate degli stessi è difficile persino farne delle copie; da qualche decennio le superfici dei muri all’interno lasciate nude nel dopoguerra sono state rivestite, a tratti, da affreschi i quali sostituiscono le pitture murali del Musa andate perse con la guerra.

La facciata della cattedrale è stata rivestita con lastre di travertino, una stesa uniforme, mentre prima era ripartita da una sorta di marcapiano posto a metà della stessa. Con la chiesa cattedrale di Boiano contemporaneamente chiudiamo il capitolo della congiunzione fra le varie arti visive, architettura, pittura e scultura e apriamo quello della rimessa in piedi di monumenti distrutti in un sol colpo, all’improvviso a causa di bombe, terremoti, frane, incendi. Gli immobili storici come del resto il resto degli immobili sono oggetto di deterioramento dovuto ad azioni prolungate nel tempo, come la comparsa di una lesione sulla muratura che man mano si allarga favorendo l’ingresso nel corpo del muro di acqua piovana per dirne una. Sul processo progressivo di degrado si può intervenire, sui fenomeni distruttivi repentini si può poco. La cattedrale boianese è esemplificativa di un’ulteriore questione che si aggiunge alle due elencate sopra che è la seguente: essendo, in condivisione con Campobasso, cattedra vescovile occorreva che non si interrompesse per lungo tempo lo svolgimento di riti religiosi, ne andava della vita della diocesi, per cui si provvide subito, ritornata la pace, a garantirne la funzionalità.

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Ciò pur con i limiti descritti sopra del mancato restauro “stilistico” ovvero in stile assumendo quali caratteri artistici quelli desunti da analoghe architetture essendo impossibile applicare i criteri del restauro “filologico” in quanto erano carenti le conoscenze su questa specifica architettura. La subitaneità della riattazione della cattedrale del centro matesino è in contrasto con i lavori di restauro della chiesa di S. Maria delle Monache a Isernia i quali si protraggono ancora oggi nonostante siano trascorsi ottanta anni dalla fine della guerra ed è perché non c’è un’urgenza legata alla pratica del culto in tale spazio sacro. Non è detto, comunque, che sempre si sente il bisogno di rimettere in sesto edifici malridotti a causa di qualche evento traumatico accaduto all’improvviso. Il tragico terremoto del 2002 ha prodotto il venir giù della scuola di S. Giuliano di Puglia con la morte degli alunni di una classe: il dolore per la perdita della scolaresca non lo si può risarcire in alcun modo tanto meno risarcendo l’edificio scolastico. Così si è deciso di non riedificare la scuola e in quel sito realizzare il “parco della memoria”, qualcosa che assomiglia a quanto si è fatto a New York nel sedime delle Torri Gemelle.

NEL RESTAURO POSSONO ESSERE PREVISTE

INTEGRAZIONI AL BENE CULTURALE

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Le tematiche del restauro sono tante, qui ci limitiamo a vederne alcune. La prima è quella dell’aggiunta o, viceversa, della sottrazione di parti al bene architettonico. È aggiungere quello che si fa quando si affiancano all’immobile scale metalliche ai fini della prevenzione incendi; ciò è quanto si intendeva fare in un fronte secondario che volge sul giardino al Museo della Fauna Appenninica di Castelsanvincenzo, un edificio tradizionale, e poi non è stato fatto. È un corpo, anche se minimo, aggiunto la rampa che si deve affiancare al supermercato allorché esso sia rialzato da terra per il superamento delle barriere architettoniche, un’altra normativa recente come quella sull’antincendio; ben riuscito è lo “scivolo” realizzato all’entrata del Tribunale di Campobasso con la sua bella balaustra in pietra istoriata. Sono disposizioni cogenti entrambe al cui rispetto si devono piegare le esigenze di conservazione dell’integrità dell’architettura e anche del paesaggio urbano a volte, qualora non si riesca a minimizzarne la visibilità, collocando rampe o scalinate sul retro dello stabile. Va, comunque, considerato per tranquillizzare i “puristi” della tutela che si tratta, di nuovo rampe o scalinate, di manufatti facilmente rimovibili e la possibilità di rimozione è uno dei principi del restauro.

Di minore impatto ma di una certa difficoltà di gestione trattandosi di un macchinario è il servoscala apposto all’esterno della sala convegni ricavata nel sottotetto della chiesa del Beato Stefano a Riccia per superare i gradini di una gradinata urbana. Una simile attrezzatura è ricoverata, quando non è in funzione, in uno stipo ricavato nel basamento della chiesa di S. Leonardo di Campobasso. Quando è stato possibile, è il caso della chiesa di S. Silvestro a Civitanova, si è installato un ascensore in un vano del piano terraneo che permette ai disabili di raggiungere dalla strada il piano della chiesa. È bene precisare che se gli ausili per i portatori di handicap possono essere collocati all’interno di un fabbricato le scale antincendio devono stare necessariamente all’esterno. Un diverso tipo di aggiunta è quello connesso al bisogno di ingrandimento del volume esistente che può verificarsi in un edificio a uso pubblico; nel capoluogo regionale ne sono stati interessati il Municipio con un allargamento in pianta per ciascuno dei suoi livelli e il Presidio Ospedaliero con una sopraelevazione.

È da dire per quanto riguarda la sede municipale che in seguito con l’emersione di nuovo bisogno di superficie le attività amministrative si è optato invece che ad un nuovo ampliamento del palazzo comunale alla dislocazione altrove, prendi l’Anagrafe a corso Umberto, di reparti che erano in sofferenza di spazi idonei. A proposito adesso dell’ex Cardarelli che si è trovato a ospitare l’Arpa si segnala che mentre la Direzione di quest’ultima è rimasta in centro, a via Petrella, per i suoi laboratori d’analisi è stata costruita a Selvapiana una struttura adeguata a tale funzione. È chiaro che con queste autentiche protesi si è modificata in maniera forte l’immagine di queste architetture peraltro entrambe di notevole valenza estetica poiché espressioni dello stile dell’ecclettismo storicistico affermatosi nel XIX secolo. La scelta compositiva che adottarono i progettisti di tali espansioni dei manufatti architettonici storici fu quella di differenziare in modo drastico in vecchio dal nuovo, forse pure eccessivamente perché il risultato ottenuto è quello di una dissonanza accentuata.

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Da un lato è giusto, secondo le regole del restauro, distinguere l’antico dal moderno, ma dall’altro lato, sempre sulla base dei decaloghi del restauro, è opportuno che non vi sia una contrapposizione troppo stridente. Ambedue i corpi di fabbrica che si accostano fra loro, l’originario e l’integrazione, devono, ulteriore principio del restauro, essere testimonianze del proprio tempo, per la seconda allo scopo di denunciarne la modernità, tanto nel Municipio quanto nel Presidio Ospedaliero, si è puntato su materiali, vetro e metallo, innovativi. Finora si è parlato di aggiunte e ora, invece, tocca alle sottrazioni le quali sono in numero più limitato, di seguito ne citeremo due solamente. La prima è la demolizione del serbatoio idrico che si sovrapponeva ad un pezzo del castello di Vastogirardi la cui forma rimandava alla Torre Velasca di Milano; esso era diventato un “segno” caratteristico di questo centro altomolisano. La seconda è quella della cosiddetta liberazione di un monumento il quale, nel caso in ispecie, è la campobassana chiesa di S. Mercurio con la rimozione del volume soprastante; l’intervento allo stato attuale risulta monco in quanto la copertura dello spazio sacro è ancora allo stadio di opera provvisoria. 

Rientra nelle sottrazioni l’abbattimento di case effettuato nel centro storico di Campodipietra, l’eliminazione della schiera edilizia fronteggiante la chiesa parrocchiale per metterne in evidenza la facciata baroccheggiante; effetto secondario di questa demolizione del fronte edificato è stato quello di far emergere alla vista il “vuoto” dentro l’isolato antistante la struttura religiosa, che da corte è diventato una specie di piazza. Una sottrazione che si potrebbe definire a fin di bene e che, però, ha alterato la visione della “faccia” dell’architettura ecclesiastica, molto mossa con le sue sporgenze e rientranze le quali danno vita ad effetti chiaroscurali che si apprezzano meglio con una visione “radente”, quella cui obbligava lo stretto vicolo preesistente e che invece si appiattiscono guardandola frontalmente, dallo slargo che si è venuto a determinare. Rientra tra le sottrazioni, infine, un episodio doloroso, non di certo esito di una volontà progettata il “buco” di piazza X Settembre nel nucleo antico di Isernia causato dai bombardamenti del 1944.

IL COMPLETAMENTO DI MONUMENTI NON FINITI

La conservazione dei beni culturali è un’attività dalle molteplici sfaccettature. Proviamo a vederne alcune, in verità solo a sbirciare. Iniziamo con l’argomento archeologia industriale, un campo di operatività per gli addetti alla salvaguardia che nel Molise è poco sviluppato, da un lato per il ridotto numero di industrie che ha da sempre caratterizzato la nostra regione e dall’altro lato per l’elevata sismicità di questo territorio la quale impone che la struttura sia compatta, non a maglie larghe come invece richiedono gli ambienti per la produzione necessitando di spazi liberi da pilastrature ampi. È ovvio che la pericolosità è limitata per gli stabili piccoli i quali però potranno diventare tutt’al più musei di sé stessi.

Altrove i vecchi fabbricati produttivi vengono trasformati tranquillamente in musei o auditorium o in altre destinazioni d’uso socio-culturali, una domanda crescente; da noi invece tali capannoni datati, cioè costruiti antecedentemente alla classificazione sismica del territorio non possono essere riutilizzati a nuovi fini se non che con costosi interventi di consolidamento antisismico per cui tanto varrebbe a volte demolirli e ricostruirli. Il supermercato di via Gazzani a Campobasso è una “replica” esatta del Magazzino Enel andato giù, un rifacimento fedele del preesistente edificio, la cui organizzazione strutturale è, però, rinnovata in linea con le vigenti disposizioni per la difesa delle scosse telluriche.

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Si ritiene, comunque, che sia stato un adattamento forzato quello dello spazio in origine deposito dei mezzi della società elettrica per soddisfare le esigenze di un supermarket, si pensi solo al passo del telaio portante con la distanza dei pilastri che non è detto sia quella idonea alla collocazione degli scaffali, due misure diverse. Tolte le chiese che sono dei volumi grandi, non è dato trovare all’interno dell’eredità architettonica molisana se si esclude la paleoindustria, a prescindere dalla tematica del pericolo terremoto, opere in grado di riconvertirsi in sale teatrali, locali per mostre, ma anche palestre, mercati coperti, ecc. In definitiva, qui da noi il recupero di questi fabbricati è un tema secondario. È anch’essa una faccenda minore perché si tratta di casi rari quella del completamento di opere di valenza storico-artistica lasciate incompiute. Abbiamo una situazione di questo tipo nel centro storico di Salcito, l’altra sarà quella di Sepino completamente diversa, con una chiesa di impianto rinascimentale la cui copertura è stata realizzata di recente dalla Soprintendenza alle Belle Arti.

È ancora un senzatetto, è un luogo di eremitaggio che rimanda al precetto sulla povertà di S. Francesco, il Conventino di Sepino il quale non ha ancora il tetto un manufatto religioso di proprietà privata la cui realizzazione, incompleta, è ottonovecentesca seppure in stile medievale. La problematica alla quale rimanda è piuttosto che quella del terminare una costruzione non finita quella della preservazione di una fabbrica allo stato di rudere seppure si tratti di resti non molto antichi, ma per troppo tempo è rimasta scoperchiata; le rovine, che rovine non sono in quanto non vi è il crollo peraltro sono molto suggestive sia perché medievaleggianti sia per la loro collocazione in un contesto naturale integro, un’atmosfera da letteratura “gotica”. Una tematica aggiuntiva che il Conventino solleva è quella della prevenzione che dovrebbe essere collocata al primo posto, prima del restauro e della manutenzione,

tra le azioni da effettuarsi da parte dell’organo di tutela, la quale nel caso specifico consisterebbe nella eliminazione della vegetazione infestante che essendo penetrate all’interno di questo spazio di culto si avvinghia ai maschi murari e, prima o poi, così ci sarà quel crollo di cui sopra. Non è finita qui con il Conventino perché esso mette in campo un ulteriore aspetto della preservazione, quella della identificazione sicura del proprietario del bene. È ricorrente, infatti, per tantissimi organismi edilizi abbandonati la difficoltà di riconoscere il possessore e ciò in quanto potrebbe essere qualcuno che è ormai emigrato. È diffuso il problema di coloro che hanno mulini, fienili, stalle, ecc. strutture che hanno perso qualsiasi funzionalità ai quali si dovrebbe imporre la riparazione e che magari non hanno soldi per farlo.

Oltre che per la salvaguardia del patrimonio culturale l’obbligo perlomeno della messa in sicurezza dell’oggetto architettonico è indispensabile per evitare che la sua caduta provochi danni a cose o persone che stanno all’intorno. È un pericolo concreto se tale architettura sta nel nucleo urbano meno, ovviamente, se è isolata in campagna. Sarà per questo che l’autorità ecclesiastica la quale ne è in possesso non provvede al consolidamento della chiesetta di S. Maria delle Fratte a S. Massimo il cui attributo, delle Fratte, indica l’ubicazione nell’agro. A dire il vero è della Chiesa anche il palazzo Gioia, una donazione, che è nel cuore del paese, sempre S. Massimo. C’è il rischio che questa “casa palaziata” vada in rovina perché inutilizzata, ma già ora per il degrado della facciata rappresenta un autentico fattore di depauperamento dell’immagine del borgo; ciò fa il paio con l’effetto di impoverimento della qualità paesaggistica dell’omonima collina che si trova di fronte alla Cappella ovvero chiesa di S. Maria delle Fratte la cui conservazione è minacciata da una lesione sul prospetto. Il palazzo Gioia, le sue condizioni attuali, ci sollecita ad affrontare anche la questione del restauro del restauro dovendosi procedere per questo immobile a correggere alcune lavorazioni eseguite nel precedente intervento di restaurazione, forse ad integrare i presidi statici già messi in opera come l’aggiunta di catene metalliche che non fanno mai male.

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GRANDI PROGETTI NON PER GRANDI MONUMENTI 

MA PER UN INSIEME DI PICCOLI MONUMENTI

Fino a qualche tempo fa era sembrato che i finanziamenti per il restauro dovessero essere legati a grandi progetti. Attenzione, si è detto grandi progetti non grandi monumenti, grandi nel senso proprio delle dimensioni. Tutto ciò da quando, eravamo agli inizi dell’ultimo decennio del secolo scorso, il principale canale di finanziamento per il recupero del patrimonio storico divenne il FIO per accedere ai cui fondi era necessario che la taglia minima dell’importo progettuale fosse 15 miliardi di lire. Nel Molise l’unica emergenza culturale che è stata candidata per l’assegnazione di questo stanziamento economico è stato il sito archeologico di Altilia. Quando è stato Ministro per la Cultura Franceschini ritornò in auge l’idea di assegnare risorse finanziarie consistenti a pochi episodi individuando nei borghi il soggetto della spesa, da noi a beneficiarne è stato Castel del Giudice. L’iniziativa era però ormai fuori tempo perché nel frattempo, anzi già da prima, si è andata affermando la tendenza ad attribuire contributi economici non a singole opere bensì ad un insieme di opere purché strutturate.

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In tale modo si è evitato di concentrare la spesa su fatti singolari e così si è potuto distribuirla su una pluralità di realtà storico-artistiche. Si è usata poc’anzi la parola strutturato che è equivalente a organico, coordinato, coerente per significare che non può essere casuale l’aggregazione degli “oggetti” monumentali, ma deve rispondere a una logica precisa. Il modo per tenere collegati fra loro le testimonianze culturali è stato individuato nella predisposizione di “itinerari”. È stata un’autentica svolta per la nostra terra dove essendo i monumenti imponenti pochi si rimaneva esclusi dalla ripartizione dei benefici economici statali i quali privilegiavano, lo si è detto, gli interventi restaurativi di grossa entità. Il Molise si presta molto bene ad una programmazione d’insieme dotata di senso delle attività finalizzate alla conservazione delle “cose” di rilevanza culturale, il senso fornendolo la rete tratturale la quale coinvolge la stragrande maggioranza dei Comuni.

Il CIS è il programma in corso legato ai tratturi ed è dotato di un cospicuo budget capace di soddisfare le esigenze di restaurazione di una consistente parte dell’eredità storica nostrana. Sotto sotto, va ammesso, tale operazione appare pure dettata da una atavica, qui da noi, volontà di distribuzione territoriale sparsa delle risorse, i famosi finanziamenti a pioggia di un tempo. Si tende allo spezzettamento della pizza in molteplici spicchi, uno per ciascuna entità comunale anche se è doveroso ammettere che nonostante il frazionamento della spesa l’unitarietà è garantita, garantita dalle antiche piste di percorrenza della transumanza. È un po' la quadratura del cerchio ottenuta dando un colpo al cerchio e uno alla botte, il “particulare” va di pari passo con il generale, i bisogni individuali, l’individuo è la realtà municipale, collimano con quelli collettivi, la collettività è la società ad una scala più ampia di quella locale.

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Lo “spezzatino” fine a sé stesso, o meglio fine ad una visione clientelare della redistribuzione dei soldi pubblici tra molteplici entità per assicurarsi il consenso in chiave elettoralistica di molti va contrastato pure se occorre riconoscere a tale “spartizione” della torta una sua intrinseca validità in quanto il lascito storico molisano, lo abbiamo evidenziato anche all’inizio, non è costituito da complessi architettonici/archeologici di eccezionale grandezza, salvo Altilia, Pietrabbondante e S. Vincenzo al Volturno, ma di “oggetti” minori, evidentemente ognuno di essi bisognoso di cure. In altri termini, se ancora fossero stati vigenti i Fondi FIO con la sommatoria dei “punti” di interesse storico toccati dai tratturi si sarebbe raggiunta la soglia critica dei 15 miliardi di lire. La particolare consistenza patrimoniale nel campo culturale di questa regione estremamente frammentata si addice bene ad una suddivisione dei fondi tra numerosi comuni, meglio di una concentrazione dei benefici su pochi siti.

Non si tratta di bieco campanilismo, ogni “bene” necessita di qualche misura di protezione; anche se potrebbe avere il sapore di mero opportunismo, vi è una motivazione sostanziale che è l’unitarietà della storia dei luoghi attraversati da quel determinato tratturo. Il FIO, finora non lo si è detto, aveva lo scopo di promuovere attraverso anche la messa in valore dei beni culturali lo sviluppo dell’area in cui stanno poiché essi favoriscono la valorizzazione turistica del posto. Per rientrare nel FIO occorreva dimostrare la redditività del “bene” che ci si era proposti di andare a restaurare: anche per tale aspetto le emergenze culturali regionali sarebbe stato difficile che avrebbero potuto essere finanziate mentre in un piano di rilancio della rete tratturale con l’indotto turistico prevedibile, siamo nell’età dei cammini, ci sarebbero state speranze di inserimento in questo programma finanziario. Da ricordare, ad ogni modo, che il CIS non è un finanziamento ordinario, quindi replicato annualmente, ma è un fondo speciale, una sorta di una tantum e questa è un’anomalia italiana.

PROBLEMI DI RESTAURO DELLE ARCHITETTURE OTTOCENTESCHE

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Il “decennio francese”, agli inizi dell’800 è stato fondamentale in Campobasso per 3 motivi, legati fra loro. Essa venne investita del ruolo di capoluogo di Provincia, la Provincia di Molise la quale era stata appena istituita (2 motivi insieme), con il conseguente ampliamento della città attraverso la creazione del Borgo Murattiano approvato dal governo “napoleoniche” (terzo motivo). Questo nuovo quartiere era stato concepito secondo le regole urbanistiche fissate nel precedente “secolo dei lumi”; dunque strade larghe per assicurare l’arieggiamento e il soleggiamento delle abitazioni che vi prospettano e una notevole dotazione di verde pubblico per assicurare la salubrità dell’aria. La forma dell’insediamento era ispirata ai precetti illuministici i quali però non trovarono una piena attuazione al di là dell’urbanistica nella realtà campobassana forse per la breve durata dell’esperienza governativa “bonapartiana”.

Probabilmente fu a ragione del tempo ristretto che la “ragione”, il mito di pensatori come Voltaire e Rousseau, non si affermò in ogni campo; Non vennero create istituzioni culturali considerate essenziali dagli Illuministi ai fini della crescita della società, la triade costituita da Archivio, Biblioteca e Museo che sono i templi moderni della cultura. Solo l’Orto Botanico venne effettivamente realizzato, l’attuale giardino intitolato all’architetto Musenga il quale è l’autore del piano del Nuovo Borgo e dell’Ode a Cerere declamata all’inaugurazione di questo orto. Bisogna aspettare l’Unità d’Italia perché il centro molisano si doti di queste importanti attrezzature per la cultura, il Museo Sannitico, la Biblioteca Albino e l’Archivio di Stato. Nel frattempo cioè durante la Restaurazione borbonica nonostante sia stato definito un periodo oscurantistico, venne costruito un modernissimo carcere figlio del pensiero riformatore settecentesco.

La sua progettazione segue i dettami più avanzati dell’architettura penitenziaria ispirati all’opera di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene” nella quale la prigione era vista più che un luogo di reclusione uno strumento per la redenzione del condannato. Lo schema compositivo è quello definito dal filosofo Jeremy Bentham nel 1794 imperniato sul Panottico, un torrino centrale da cui il guardiano, uno solo alla volta, poteva vigilare senza essere visto su tutti i detenuti che si sentono costantemente sorvegliati; un po' il modello del Grande Fratello. Da tempo si parla di una riconversione di questa struttura in un polo di attività socioculturali perché ha il pregio di trovarsi nel cuore dell’abitato, trasferendo il penitenziario fuori dall’ambito urbano. Esso viene considerato un generico contenitore disponibile per molteplici e intercambiabili usi, magari anche funzioni ricreative, puramente ludiche, le quali contrastano con il senso di questo posto, un posto di dolore; si è dell’avviso che in un eventuale progetto di restauro

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venga salvaguardato il “vissuto” dei reclusi continuamente sottoposti allo sguardo delle guardie carcerarie, la pena mentale, le condizioni di grande sofferenza in cui vivevano costretti, la pena fisica, in più persone in celle anguste, l’annoso problema ancora attuale del sovraffollamento delle carceri italiane. Va, comunque, notato che nel dibattito in corso in città emerge sempre la consapevolezza che esso sia una significativa eredità architettonica, cosa che non è scontata per altri edifici ottocenteschi per i quali si fa fatica a valutarli secondo una prospettiva storica, una visione che li porti ad essere inclusi nel patrimonio artistico cittadino. Un suntuoso palazzo in stile eclettico qual è il Municipio meno di 50 anni fa è stato violentato costruendo una “protesi” vetrata per ampliare il numero di uffici da contenere. L’incongrua aggiunta alla casa municipale è il sentore di una mentalità che minimizza il valore delle opere dell’Eclettismo Storicistico. Si riscontra, avvertendo che si sta passando da un tema specifico ad una problematica di salvaguardia più generale, che nella nostra nazione i monumenti nei fatti si distinguono tra maggiori e minori, i primi sono sottoposti a un regime di protezione più rigoroso; infatti nessuno si immaginerebbe che possa essere consentito l’innesto di un corpo “estraneo” come è stato fatto nel palazzo del Comune su, mettiamo, il Castello Monforte. La legge in materia non prevede tale suddivisione tra interesse culturale superiore

inferiore per le testimonianze del passato. Su questa questione è bene fare un inciso il quale è che se su questo punto, quello dell’uniformità del valore, la normativa non viene riformata continuerà ad essere impossibile stabilire un ordine di priorità negli interventi di restauro da effettuare; senza la gerarchizzazione, il lascito patrimoniale nazionale risultando vastissimo è difficilissimo da gestire compiutamente ai fini della sua conservazione. Si contravviene frequentemente alla disposizione legislativa che equipara fra loro le “cose di interesse storico” applicando criteri più rigidi di tutela per gli episodi monumentali giudicati di qualità più elevata, mentre per quelli ritenuti ordinari per quanto riguarda la rilevanza culturale si adottano modalità per così dire semplificate o, altrimenti soft, di conservazione. Si adopera per questi ultimi la parola recuperare piuttosto che restaurare quando si definiscono i lavori che si effettuano su di essi. In definitiva l’inserimento di elementi spuri sulla sede comunale deve essere stato giudicato ammissibile perché attuato su un immobile di valenza secondaria nonostante che sia pur sempre il fabbricato di rappresentanza della “capitale” della regione, dunque dotato di una notevole aura. Una puntualizzazione in chiusura è che maggiore e minore, è scontato, non si riferisce alle dimensioni dell’immobile, nessuno potrebbe pensare che la Cripta dell’Abate Epifanio a S. Vincenzo al Volturno, poco più di una cappelletta, sia di pregio inferiore di qualsiasi altro monumento solamente perché di volumetria superiore.

RESTAURARE E' UN'ATTIVITA' RICCA DI SODDISFAZIONI

Restauro croce e delizia. Le difficoltà che si incontrano nel restaurare sono tante, ma un restauro ben fatto procura altrettanto tante soddisfazioni. Del resto, secondo il detto vichiano i problemi si traducono in opportunità. Senza esagerare, però, per quanto riguarda queste ultime nel senso di non cercare sempre nel progettare lavori di recupero di manufatti del passato di farne occasioni da sfruttare per esercitazioni di architettura moderna applicata all’antico. L’inserimento del nuovo anche in stile architettonico contemporaneo è consentito se esso è funzionale alla conservazione del bene.

Non deve, cioè, essere prevalente la voglia dell’architetto restauratore di mettere in campo la sua personale sensibilità artistica, bensì l’impegno a misurarsi con l’eredità storica. A volte nel Molise sembra essersi verificato proprio ciò, si prenda la copertura della chiesetta a rudere di S. Michele a Roccaravindola, oppure la pensilina che protegge gli scavi dell’area prospiciente all’ospedale di Isernia, ecc. tutte realizzazioni volutamente dissonanti rispetto alle testimonianze che sono chiamati a salvaguardare. Sarebbe valso allora che invece di redigere in proprio come è successo nei casi citati, la Soprintendenza un tempo alle Belle Arti se avesse avuto come obiettivo l’ottenere un restauro quale opera d’autore invece di uno ordinario, un atto d’ufficio, si fosse fatta promotrice di un concorso d’architettura come conviene per un’ideazione progettuale creativa aperto a chiunque sia iscritto all’Ordine degli Architetti. Nelle esemplificazioni di cui sopra compaiono immancabilmente strutture metalliche, l’impiego di tubolari in acciaio che sorreggono tettoie oppure elementi a sbalzo, tettucci in plexiglas o in lamiera. Dal punto di vista formale il richiamo è al meccano, l’ispirazione è al campo del design dominato per un certo periodo dalla corrente artistica nota come mecanoo, o, se si crede al neoplasticismo. Poiché si tratta di aste di metallo assemblate tramite giunti, non cioè saldate, fra loro che sostengono lastre traslucide o opache appoggiate su di loro, con la medesima facilità con la quale sono state montate insieme è facile smontarle e ciò si chiama reversibilità, un principio cardine del restauro, non è la stessa cosa, per intenderci, quando le aggiunte al monumento sono in muratura.

Una via diversa sarebbe stata quella della reintegrazione del corpo di fabbrica rimasto mutilato ricostruendo la porzione mancante e ciò è un’ulteriore soluzione in linea con le “carte” del restauro purché eseguita in modo filologicamente corretto. È questo il “restauro filologico” il quale si distingue dal “restauro stilistico” che desume quale dovesse essere la forma dell’organismo edilizio ante-perdita di qualche pezzo dalla comparazione con altri fabbricati caratterizzati dal medesimo stile; è evidente che questa seconda tipologia di restauro porta a scelte di restaurazione arbitrarie. Per i ruderi archeologici il discorso è differente, non è possibile formulare alcuna ipotesi di quale fosse l’assetto originario di manufatti ridotti ai minimi termini; non è corretto tentare in tali situazioni alcuna integrazione che, peraltro, data la consistenza minimale delle vestigia, di frequente semplici relitti, sarebbe preponderante nei confronti della rimanenza, di ciò che è sopravvissuto dell’antica fabbrica.

 I teorici del restauro non ammettono simile operazione poiché una legge fondamentale di questa disciplina è quella del minimo intervento.  Una misura di mezzo è quella che è stata adottata per la protezione del templio di Ercole Curino a Campochiaro di cui restano scarse tracce dell’elevato mentre l’impianto planimetrico è leggibile, dove la copertura metallica è a capanna e quindi ha la sagoma del tetto di un templio pagano. Il metallo è un materiale leggero e perciò poco ingombrante visivamente, molto meno del legname; non molto tempo fa in vicinanza di Porta Terravecchia ad Altilia è comparso un “padiglione” in legno lamellare di maggiore impatto visivo, di certo, del templio di Campochiaro. In legname sono i presidi a sostegno di murature pericolanti come succede al capo opposto di Saepinum, quindi a Porta Tammaro i quali sono giustificabili poiché provvisori.

Una annotazione a margine è che se il metallo espressivamente si presta per manufatti di gusto modernista, per la costruzione di “oggetti” nuovissimi il legno si lega a artefatti dal sapore rustico, a costruzioni che segnano una tendenza antiquaria. Qui da noi forse più che un uso si fa un abuso di coperture di protezione delle escavazioni archeologiche, la più grande delle quali è un autentico capannone di conseguenza chiuso perimetralmente, non una semplice tettoia o pensilina, chiamata a proteggere tanto il paleosuolo quanto i paleontologi all’opera nell’attività di scavo, contenitore che in seguito è stato inglobato nel museo dell’Homo Aeserniensis. È un caso oltre che singolare estremo così come è estremo rinunciare a mantenere in vista reinvenimenti per evitare la spesa della tettoia preferendo reinterrare ciò che è emerso.

UN VALORE PARTICOLARE DEI BENI CULTURALI, QUELLO SOCIOLOGICO

I beni culturali hanno un grande valore, lo sappiamo tutti. Il valore di cui di seguito ci occupiamo è quello, in qualche modo, sociologico, un tipo di valenza forse un poco trascurato nella trattatistica sul tema. Andiamo, dunque, a vedere gli effetti che il patrimonio culturale produce sulla società. Il primo è quello che le emergenze storico-artistiche favoriscono la coesione sociale; limitandoci alla seconda componente del binomio, le artistiche vediamo che la serie di manifestazioni d’arte di Casacalenda, il progetto Kalenarte avviato quando l’amministrazione comunale era di sinistra è continuato anche sotto le giunte civiche di destra, cosa assolutamente non scontata e del resto in quanto operazione culturale è senza colore politico. Le emergenze artistiche in definitiva hanno un ruolo importante nel favorire l’unità tra le varie “fazioni” di una comunità spesso compromessa da interessi partitici. Ci spostiamo adesso sulla prima componente del predetto binomio, le storiche le quali sono capaci rafforzare i legami identitari tra la popolazione e il posto che essa abita.

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Non è necessario che si tratti di storia antica, quella di cui è testimonianza un dato manufatto, perché può essere pure qualcosa di recente ed è il caso della, guarda un po', casa natale di Francesco Jovine a Guardialfiera, l’autore della Signora Ava in cui racconta proprio di quei luoghi. A volte, e ciò succede con i lavatoi, vedi quelli di Bonefro, Boiano, Baranello (saltando la A la prima lettera dell’alfabeto diventa la B, quella con cui inizia il nome di questi paesi), basta solo il passaggio di una generazione per rendere storica un’opera, dipende dall’obsolescenza di una funzione e così si trovano ad essere storicizzati i lavatoi, parola maschile, sostituiti come sono dalle lavatrici, parola femminile. La Fontana Fraterna che è invece antichissima, almeno i reperti che sono stati assemblati per la sua costituzione, è l’esempio di monumento assunto a simbolo di una città, Isernia. In verità, non è indispensabile che l’artefatto sia veramente d’epoca perché il passato lo si può reinventare e lo dimostrano la ipotetica casa

di Civerra e le tantissime rievocazioni della vita che si conduceva nel medioevo, a cominciare da quella che si svolge a Bagnoli che è l’antesignana. Si può rendere più vecchio l’edificio, vedi la chiesa di Villa San Michele, frazione di Vastogirardi, la quale è dei nostri tempi perché la sua edificazione è rientrata nel piano di ricostruzione di Pagliarone portato via da una frana, costruita ad imitazione della romanica S. Maria della Strada. Si può, inoltre, attribuire uno stile medievale ad un’architettura nonostante non risalga all’Età di Mezzo adottando in facciata stilemi di gusto medievaleggiante. A Macchiavalfortore il fabbricato di culto evangelico ha il fronte in mattoncini facciavista proprio come le cappelle rurali della Vecchia Inghilterra perché a finanziarlo fu la “casa-madre” degli evangelisti che ha sede in America e si sa che gli americani sono discendenti degli inglesi.

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È in laterizio anche il prospetto della parrocchiale di S. Biase la quale posta com’è tra il Borgo Slavo e il Borgo Croce è in una fascia urbana post-medievale anche se può apparire quale chiesa tardomedievale; essa presenta 2 pinnacoli ai lati del timpano della parete d’ingresso e bucature ogivali denunciando quindi quale ispirazione architettonica il gotico, anche se è successiva al periodo in cui si affermò questa corrente artistica. Tale tendenza ad arricchire l’immagine della “faccia” principale dell’organismo edilizio con elementi decorativi storicistici contrasta fortemente con l’atteggiamento che è prevalso a Ripabottoni nella riattazione ex sisma 2002 della sede municipale dove nei muri perimetrali sono stati rimessi in vista i conci lapidei facendo sparire di conseguenza i caratteri stilisti ottocenteschi, era l’abitazione di un “galantuomo”, Tito Barbieri, il famoso “decoro” borghese. Al contrario, a volte si sceglie di applicare sui prospetti motivi ornamentali copiati da architetture di età remota oltre che per attribuire una certa antichità al proprio corpo di fabbrica anche per, in qualche modo, nobilitarlo;

l’esemplificazione è la dimora Zarlenga a Pietrabbondante dove il setto murario principale è contornato da 2 paraste ad ordine gigante, un esplicito riferimento ai palazzotti baronali. Passiamo ad altro: le opere del tempo che fu possono diventare motivo di orgoglio, pur non essendo utilizzabili in alcuna maniera, l’esempio sono i ruderi del castello di Civita Superiore quartier generale dei Conti di Molise e perciò oggetto di vanto per Boiano. Questo discorso è valido anche per la rocca di Roccapipirozzi di proprietà della famiglia di origine normanna Biancavilla la quale non trae nessuna utilità materiale dal suo possesso, il dongione non può trasformarsi in magione. Infine c’è la particolare vicenda del Castello Caldora di Carpinone acquistato qualche decennio fa da un imprenditore edile abruzzese dal medesimo cognome il quale voleva sentirsi possessore di un maniero, pur senza spacciarsi per un discendente di Giacomo Caldora; un interesse secondario era quello di farne una struttura ricettiva aggiungendo per questo scopo un nuovo volume all’esistente.

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