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L’archeologia industriale

La nascita della protoindustria è, in qualche modo, connessa con l’inizio della globalizzazione. Non è un’affermazione paradossale se si riflette sul fatto che le iniziative produttive da quel momento in poi utilizzano macchinari diffusi ovunque. In altri termini, mentre in passato si impiegavano per la produzione dei beni attrezzi costruiti in loco da cui ne conseguirono specifici metodi di lavorazione, da quel momento in poi le macchine sono di serie. C’è, poi, l’emergere della figura dell’ingegnere che formatosi nei politecnici introduce innovazioni apprese nel suo corso di studi; tra gli esempi possiamo citare l’ing. Martino e l’ing. Scarano i quali, rispettivamente, si impegnano, non solo in qualità di tecnici, ma pure di imprenditori, nel lanificio di Sepino, che prima era una gualchiera, e nella centrale idroelettrica di Trivento, collegata ad un antico pastificio. Le trasformazioni conseguenti alle nuove attrezzature riguardano oltre che la meccanizzazione del lavoro, anche l’incremento della produzione la quale aumenta considerevolmente. La cosiddetta rivoluzione industriale non avvenne, va sottolineato, tutta in un solo momento potendosi distinguere più fasi in relazione ai tempi di diffusione delle innovazioni, al passaggio graduale dalle macchine in legno a quelle in metallo, costruite in Italia (certo, non nel Molise) oppure, frequentemente, importate dall’estero. Diventano così rapidamente obsolete le attività preesistenti a cominciare dalla follonica (in cui avviene la macerazione della lana che successivamente doveva essere cardata e filata per farne dei panni) di Altilia alla fornace di Montevairano fino alle pincere di località Pincera di Boiano chiuse negli anni ’70 del secolo scorso; per questa, o almeno per le prime due, si deve parlare più propriamente di archeologia tout-court piuttosto che di archeologia industriale. Quest’ultima concerne, quindi, accanto ai fabbricati nei quali hanno sede le lavorazioni, i macchinari impiegati; non ultimo è l’interesse per le modifiche che la fabbrica apporta agli stili di vita di chi vi opera all’interno e delle rispettive famiglie.                                                                    

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Se in precedenza si era abituati a risiedere vicino al posto di lavoro, la casa sui campi come succede in larghe parti della nostra regione o la bottega artigianale al piano terra della propria dimora nei centri storici di qualsiasi paese molisano, in seguito le persone sono costrette a spostarsi per raggiungere il luogo di lavoro. Cambia, inoltre, il ruolo della donna che in particolare nell’industria tessile, ve ne erano diverse qui da noi, usa com’era a stare al telaio in maniera complementare ai servizi domestici, assume le funzioni di operaia. Gli stabilimenti produttivi all’inizio stavano nel perimetro urbano, specie quelli legati al trasporto ferroviario delle materie prime, in entrata, e dei prodotti, in uscita, mentre in seguito, anche prima delle individuazioni di apposite zone urbanistiche, si localizzano in campagna. Negli aggregati abitativi rimangono, dunque, delle imponenti strutture inutilizzate che vengono riconvertite, volta per volta, ai fini residenziali, i mulini Ferro e Martino a Campobasso, o commerciali, il pastificio Maddalena ad Isernia che ospita un centro di distribuzione libraia della ditta Cosmo Iannone. In genere, lo si ripete, essi non si trovavano nel cuore degli abitati, neanche la fabbrica di campane di Agnone nonostante sia quella di Marinelli un’impresa artigianale che ben si addice agli ambienti storici, bensì ai margini dell’edificato, in tangenza con le principali linee di collegamento come la ferrovia. In definitiva è nei nuclei insediativi che scompaiono quasi del tutto le tracce delle iniziative industriali, rintracciabili, invece, nell’agro rurale per l’assenza qui di prospettive di reimpiego del costruito o, semplicemente, dell’area di sedime. Ciò non significa che nel territorio agricolo esse si siano conservate, in quanto la mancanza di una destinazione qualsiasi produce abbandono.                                                                              

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Di nuovo, di fronte a tale processo di evoluzione e/o involuzione dei volumi occupati da industrie, tornano in gioco le questioni delle esperienze esistenziali: se il lavoro contadino era immutabile le esigenze imprenditoriali mutano di continuo in relazione alle richieste di mercato o semplicemente per il necessario rinnovamento tecnologico. Per di più questi cambiamenti del mondo produttivo avvengono ad una velocità che non era conosciuta dalle generazioni precedenti. Le fabbriche nascevano e morivano con una notevole frequenza, oppure si aveva la sostituzione all’interno dei capannoni delle produzioni, si pensi al tabacchificio di Boiano o al sansificio di Trivento, e ciò è avvenuto fino a quando il comparto produttivo locale ha dovuto soccombere alla grande industria con la quale non è stato possibile competere per cui si è avuto un arretramento generalizzato delle produzioni che venivano fatte nel meridione e, dunque, in questa regione. I vecchi capannoni, quando non demoliti, sono stati destinati a funzioni marginali quali magazzini o depositi (quello dell’Enel a via Gazzani nel capoluogo regionale) e, nel migliore, per così dire, dei casi, diventano annessi a moderne attività; per quanto riguarda questa ultima casistica si rileva che essa è davvero rara in quanto sono poche, tra queste c’è La Molisana, che sono state attive per un periodo prolungato tale da dare luogo a stratificazioni edilizie. Se da un lato le caratteristiche spaziali dei fabbricati industriali li rende appetibili per scopi differenti, per via dell’ampiezza dei locali, senza suddivisioni interne, la quale consente la flessibilità distributiva, dall’altro lato strutturalmente essi non si rivelano idonei in riguardo delle norme sismiche in vigore. Essi devono comunque essere oggetto di tutela se non altro in quanto testimonianze di un particolare periodo storico; non va trascurato, però, per alcuni la loro rilevanza architettonica tanto più interessante in quanto sono datate in un periodo nel quale ai manufatti industriali non era ancora riconosciuto il diritto di avere una dignità estetica. Nella fase primordiale si è avuta la trasposizione del linguaggio formale dell’architettura colta nel settore degli edifici utilitari per cui abbiamo che l’impianto idroelettrico di S. Massimo, che è degli anni ’20, tende ad assomigliare con i suoi archetti ciechi a coronamento della facciata ad una chiesa romanica con il corpo più alto che serve quale cabina di trasformazione richiamante il campanile, e, quello di Limosano, la centrale Covatta, presenta motivi liberty quale rivestimento esteriore. Ad ogni modo le fabbriche hanno bisogno di ampie finestrature che conferiscono un’illuminazione adeguata ed uniforme in grado di assicurare la luce per le postazioni lavorative e ciò deve aver ispirato i pionieri del Funzionalismo nella progettazione delle attrezzature contemporanee, ben addicendosi alle esigenze igieniche «razionaliste» che si affermano nel mondo delle costruzioni. Non esiste proprio l’opportunità, per il salto di scala dei fabbricati, di caratterizzare gli stabilimenti secondo gli stilemi dell’architettura rurale per cui la loro immagine costituisce un elemento dirompente nel paesaggio.

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