Non c’è un museo di arte contemporanea uguale all’altro. Sarà perché è una categoria museale estremamente recente non è ancora arrivata ad una definizione compiuta della sua organizzazione spaziale. Siamo ancora nella fase di sperimentazione delle soluzioni architettoniche, ognuna diversa dall’altra. È in corso un processo che si immagina che sarà simile a quello che ha, a cavallo tra XIX e XX secolo, portato alla fissazione delle tipologie architettoniche delle nuove attrezzature urbane, dal carcere alla stazione ferroviaria, al mercato. Il percorso è composto dalla messa a punto di modelli, in un certo numero, i quali sono rappresentati dalle realizzazioni concrete o ideazioni rimaste sulla carta a cui è seguito un vaglio critico consistito nella verifica dell’appropriatezza di ciò che si è costruito o progettato rispetto allo specifico tema, lo si ripete, tanto un’opera igienica quanto una culturale, pronta per essere replicata, magari con alcuni adattamenti, connessi a situazioni contingenti, all’infinito. Vale la pena aggiungere che alla base di tale operato vi è il pensiero di teorici settecenteschi che propugnavano il legame tra “forma” e “funzione”. Esso è necessariamente biunivoco per cui ad una particolare esigenza funzionale, mettiamo l’esposizione di creazioni di arte contemporanea, deve corrispondere una precisa architettura e viceversa. Tutto questo, nel campo di cui ci stiano occupando, non è a tutt’oggi avvenuto come detto all’inizio, sarà perché tanti progettisti, a cominciare dalle archistar, concepiscono il museo piuttosto che un contenitore efficiente di espressioni artistiche, un’espressione artistica esso stesso. Del resto è questo che chiedono loro gli stessi committenti ritenendo che il miglior veicolo pubblicitario di una raccolta di opere d’arte sia proprio la sua veste formale, l’involucro che la contiene, la cui immagine, perciò, deve essere accattivante. Le considerazioni espresse non valgono per ogni museo, specie per quelli che sono dedicati all’arte classica, la cui aura, in qualche modo, solenne striderebbe, a meno che non si tratti dei lavori dei Futuristi, con, di nuovo in qualche modo, l’aggressività della struttura edilizia (Pei nel Louvre, il tempio della classicità, è innovativo per via dei materiali utilizzati, l’acciaio e il vetro, ma la sua piramide è un solido geometrico che rimanda all’antico). Le collezioni museali di opere dell’antichità, di età medioevale, di arte rinascimentale o neoclassica ben si prestano ad essere ospitate in palazzi, come si usa dire, d’epoca, mentre qualche perplessità la suscita la loro destinazione a musei d’arte contemporanea. A Casacalenda succede propriamente così perché la Galleria Civica d’Arte Contemporanea ha sede nel palazzo municipale che è del primo ‘900. Comunque, la collocazione delle opere è al secondo piano del Municipio (il terzo livello se si conta da via Roma e il secondo se, invece, lo si fa da via De Gennaro che è, poi, il vero ingresso della Galleria) il quale è il preesistente sottotetto recuperato nel restauro dell’edificio eseguito alla fine degli anni ’80.
È da osservare che un soffitto è un luogo nella fantasia popolare carico di mistero essendo inabitato, destinato a conservare gli oggetti, non più utilizzati, di un tempo, qualcosa di non lontano dai prodotti artistici, almeno per il fatto che anche questi ultimi sono manufatti di alcuna utilità (corrente) e la finiamo qui su tale raffronto. Le mansarde sono efficienti specie quando hanno il solaio a vista che fa molto di rusticità o di archeologia industriale alla stregua di un’officina o di un deposito, se le dimensioni dei locali sono ampie, come si ha a Casacalenda. La Galleria è ripartita in 3 vani i quali, è una caratteristica dei sottotetti, non hanno finestre (neanche a filo di falda, peraltro) e dunque per l’assenza di illuminazione diretta non avrebbero potuto avere destinazioni d’uso ordinario e ciò deve essere stata una delle ragioni che spinse l’amministrazione comunale a renderli disponibili per mostre, oltre che, ovviamente, la sensibilità culturale. L’assenza di aperture nelle pareti ha permesso di “appendervi” i quadri. I dipinti costituiscono, non certo per tale motivo, la maggioranza delle espressioni d’arte qui presenti, ma non mancano installazioni d’artisti, si noti non sculture, la cui presenza è consentita dalla larga superficie vuota disponibile negli ambienti, aspetto molto apprezzato nell’arte contemporanea. La pittura, però, lo si rimarca, rimane la branca figurativa privilegiata, la più rappresentata. La generosità dello spazio in queste grandi sale non produce un effetto dispersivo e, anche per l’assenza di vedute verso l’esterno, è garantita la concentrazione di chi osserva pure in presenza di affollamento (negli eventi di richiamo). Si ritiene di dover evidenziare, per completezza, che in prossimità dell’entrata di monte, quella di via De Gennaro, vi è una corte coperta con copertura amovibile che si presterebbe, accanto all’usuale impiego per convegni, lezioni e conferenze (non per spettacoli perché la cittadina è dotata di un prezioso teatro comunale), all’effettuazione di happening tenuti da performer nei quali il pubblico è chiamato a partecipare all’azione dell’artista, basta liberare in tali occasioni questo ex cortile dalle sedie. Il museo non è solo conservazione di oggetti. In definitiva, l’area assegnata alla Galleria è abbastanza informale e di conseguenza non riesce a intimidire le persone, al contrario dei musei “ufficiali” siti in immobili di livello (in verità pure questo lo sarebbe se non fosse che la raccolta occupa il terzo “livello”, il soffitto), che diventano un’aulica casa delle muse. Riprendiamo ora la questione, per arrivare a delle conclusioni, con la quale siamo partiti, quella della ricerca tipologica che meno si è spesa, è bene sottolinearlo, nello studio dell’adattabilità di fabbricati esistenti all’uso quale sede museale; l’esperienza di Casacalenda sembra dimostrare che ciò è fattibile anche perché, in effetti, un museo, ridotto all’osso (quindi senza bookshop, caffetteria o non so che), è, dal punto di vista distributivo nel senso di espositivo nella versione minimale, un problema progettuale facile da risolvere, non essendovi speciali vincoli funzionali da rispettare. La visita al museo è, in effetti, un percorso da compiere: l’allineamento delle stanze della nostra Galleria o un corridoio, specialmente quando si tratta di una quadreria (ad es. il Corridoio Vasariano), sono il cosiddetto minimo sindacale. Percorso che prosegue a Casacalenda al di fuori del palazzo civico per vedere opere che sia perché site specific sia per la loro grandezza non possono essere contenute dentro; un’autentica teoria di opere, 20, si sviluppa nel centro abitato e financo in campagna per merito di quella ormai trentennale iniziativa di contaminazioni urbane di Kalenarte la quale si associa all’istituzione del Museo all’Aperto di Arte Contemporanea (MAACK).
IL POETA DI CASACALENDA
È un intervento artistico particolare, con molteplici particolarità per cui sollecita una molteplicità di riflessioni. Ci concentreremo su tre aspetti cominciando da quello della sua monumentalità al quale seguiranno quello della sua collocazione nel bosco e quello della sua, diciamo così, ritrosia a farsi ammirare. Non è una scultura e, peraltro, non ha neanche la pretesa, o l’aspirazione, di esserlo anche perché, al di là di tutto, non è a scala umana a differenza, con l’eccezione del celebre Colosso di Rodi, della generalità delle opere scultoree; in specie di quelle che intendono raffigurare l’uomo come fa il colossale, aggettivo non casuale, individuo pietrificato di Casacalenda. Si è citato incidentalmente il Colosso di Rodi e, però, non è stato un mero incidente in quanto tale citazione è funzionale pure ad un altro ragionamento che è il seguente: la grandezza inusitata di questa statua suscitò un’enorme meraviglia nell’antichità da divenire una delle 7 Meraviglie del Mondo, cosa, la dimensione fuori scala, beninteso umana, che oggi non stupirebbe particolarmente dati i mezzi tecnici che abbiamo attualmente per realizzarla. L’installazione di Kalenarte è stata resa possibile dai montacarichi a motore per sollevare le pesanti lastre lapidee che la compongono, dai camion per il trasporto di tali lastre, dal cemento, il materiale simbolo della modernità, per renderle solidali l’un l’altra. Su un simile intervento le questioni logistiche devono aver avuto un notevole peso tanto più che non si è trattato di un cantiere ordinario, bensì in ambito forestato, si pensi al transito a zig-zag dei veicoli tra le piante. Il secondo dei tre punti da trattarsi è proprio quello dell’inserimento dell’arte-fatto art-istico in una superficie boscata. Si è innestato un elemento antropico, e per di più grosso, l’uomo di pietra, in un ambiente naturale, il bosco è il massimo della natura, ed è evidente che ci sarebbe stato un qualche attrito tra questi due fatti completamente diversi fra loro. Tale distonia è emersa con forza al momento del taglio, programmato della sezione boschiva (parole del gergo tecnico) in cui rientra l’uomo di pietra: essa ha messo a nudo, letteralmente, il gigante calcareo che è rimasto scoperto, o meglio coperto solamente dal muschio e dai licheni che vi si sono aggrappati sopra nel tempo. È un’immagine, quella della nudità di quest’omone, non di certo oscena, che nell’arco di vita di una persona si ripresenterà, ciclicamente, quattro volte; infatti, il turno della ceduazione
(ancora un termine tecnico gergale) per il cerro è di venti anni, mentre la nostra esistenza ha durata, in media, di ottant’anni. In tali scadenze ventennali il misterioso personaggio rimasto impietrito per chissà quale ragione rimane completamente denudato, ma ciò si verifica anche, anche se in maniera parziale, dalla “cintola in su” direbbe il Poeta, con cadenza, ovvero scadenza, bistagionale allorché in autunno cadono le foglie delle essenze arboree di latifoglia che formano questo querceto. In qualsiasi caso, sia nel caso della fluttuazione delle stagioni, sia nel caso dei turni di taglio stabiliti dalle norme forestali, l’uomo di pietra, concepito, o così mi pare, per rappresentare la condizione esistenziale contemporanea di essere un essere isolato nella folla, impersonata quest’ultima dagli alberi che affollano, appunto, il boschetto, solo temporaneamente è solo, decontestualizzato; ogni primavera il fogliame ricrescerà, ogni due decenni le antiche e vigenti tutt’ora regole del ceduo, nuove piantine si svilupperanno dalla base dei tronchi abbattuti. Cambiando ipotesi interpretativa, quel che succede nel bosco di Casacalenda può essere sentito come la contrapposizione tra il mondo minerale, simboleggiato dall’uomo di pietra, e quello vegetale, la formazione boschiva; il primo è immutabile, si pensi alle rocce, il secondo è in perenne evoluzione, è soggetto a fasi alternate di crescita e di deperimento, è in continua trasformazione. Va, comunque, segnalato che, per legge nazionale, è vietato mutare la destinazione del suolo coperto da vegetazione forestale e ciò ne garantisce la perpetuità. Ciò che potrà succedere è che a modificare la scena pensata dall’artista ora assimilabile ad uno scenografo non è la distruzione del bosco, il fondale del palcoscenico, la tempesta Vaira qui non è preventivabile, quanto piuttosto il crollo dell’uomo di pietra, il protagonista assoluto, a seguito di una violenta scossa sismica il territorio essendo ad elevata sismicità; beninteso sempre che l’area non diventi teatro, adesso una tragedia teatrale, di eventi bellici, al momento uno scenario (sinonimo di scena) non credibile anche se viviamo in tempi di guerra. In un’operazione di Land Art il prodotto autoriale si relaziona al contesto paesaggistico in cui viene calato e da qui scaturisce il rimando alla messa in “opera” proposto nel periodo precedente. Per concludere su questo punto, il n. 2 della serie che ci si era prefissa, il bosco, essendo intangibile, è il luogo più sicuro per le azioni di Land Art; esse altrove rischiano di venire vanificate, subire la perdita di senso a causa della modificazione dell’intorno. Infine, finalmente, siamo giunti al terzo aspetto che è quello della scelta dell’autore di realizzazione della sua creazione in un angolo defilato
e gli indizi che lo fanno presupporre sono tre. I primi due sono connessi all’ubicazione in un areale piantumato in cui è facile mimetizzarsi nascosti fra le piante e in cui regna l’oscurità impedendo le fronde della fitta piantumazione la penetrazione della luce. Il terzo segnale di quanto poco interesse l’artista abbia verso gli sguardi del pubblico è la scelta di ubicare il suo lavoro lontano dall’abitato. Tutto ciò contrasta con il suo essere, quantomeno per la stazza, spettacolare, non, di certo, un oggetto discreto; è contraddittorio, lo si ammette, però è così. La ricerca di riservatezza da parte dell’opera d’arte è plausibile sia connessa al rifiuto di interagire con i luoghi della quotidianità per sottrarsi al meccanismo dell’assuefazione della vista. Desidera venire scoperta a seguito di una qualche fatica, anche quella di individuare la località, le sue coordinate geografiche; si noti che non si è usata l’espressione “venire alla luce” perché il bosco è scuro ed è tale sia di giorno che di notte quando il buio si accentua e la visione dell’uomo di pietra acquista un non so che di spettrale, un autentico effetto speciale che non si sarebbe potuto ottenere nel centro urbano per via dell’illuminazione cittadina. E, poi, mettete, mettendovi nei panni di questo uomo, cosa c’è di meglio che stare in contatto con la natura.