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I muretti a secco

In tempi di revisionismo storico non è uno scandalo rivalutare anche l’ancien régime, almeno per quanto riguarda le regole in essere durante il feudalesimo che consentivano lo sfruttamento condiviso di alcune risorse territoriali. L’ “antico regime” venne spazzato via dalla Rivoluzione Francese in ossequio ai principi di uguaglianza, fraternità e libertà, ma anche per l’avvento del Capitalismo. Quest’ultimo richiede che vi sia la proprietà privata dei terreni per favorire l’accumulo del capitale per cui le terre che appartenevano al demanio, sia pure feudale, vennero “confiscate” al feudatario e distribuite fra i componenti dell’Università dei cittadini dal che ne discende la pratica dell’enclosure, recinzione dei campi, la quale, nei libri di testo liceali, dà inizio alla Rivoluzione Industriale. Dunque i muretti o le siepi o le alberature di delimitazione degli appezzamenti agricoli consentendo lo sfruttamento individuale del terreno, del quale si entra in pieno possesso, costituiscono una limitazione allo sfruttamento collettivo dei beni del territorio. Io ho il mio podere ma sono escluso da tutto il resto, forse non è un grande affare. Piuttosto che un segno di libertà, di liberazione dall’oppressione baronale, i muri di confine appaiono simbolo di individualismo che dal campo economico si estende a ogni altro aspetto della società, addirittura al suo sistema di valori, con la perdita dello spirito comunitario. Dal punto di vista strettamente produttivo la piccola proprietà contadina si è rivelata un insuccesso, finalizzata com’era quasi esclusivamente all’autoconsumo; il "podere", l'unità minima della ripartizione fondiaria, ha rappresentato un elemento che ha ritardato piuttosto che favorito lo sviluppo delle campagne, tanto che a partire dalla seconda metà del secolo scorso si è promossa, qui da noi purtroppo senza successo, la nascita di cooperative per la gestione in comune del suolo agrario.

Tutto questo ragionamento, è maturo il momento di svelarlo, per dire semplicemente una cosa che è la seguente: le macere, così si chiamano in dialetto molisano, quei muri a secco bassi e continui che arricchiscono il paesaggio agrario non sono manufatti senza tempo bensì hanno una dotazione precisa risalendo all'inizi del XIX secolo. Antropologicamente parlando non rivelano tali divisioni, traslandole da fatto fisico a fatto mentale, l'animo profondo di questo popolo, la sua visione del mondo, la sua weltanschaung direbbero i filosofi tedeschi, sono il derivato di una certa fase della nostra storia. Ovviamente ci deve essere sempre stata una tendenza ad accumulare le pietre che si rinvengono durante l'attività di dissodamento, di spietramento dei fondi, ai bordi della particella. Si possono confondere, ma mica tanto, i muretti di delimitazione degli appezzamenti agricoli e quelli che sostengono i terrazzamenti: sono due fattispecie di manufatti differenti più che per l'aspetto per la funzione che svolgono. Ci sono, poi, i muretti di contenimento, a monte, e di supporto del rilevato, a valle, delle aie circolari presenti sul versante della montagna soprastante Roccamandolfi, davvero singolari. Lasciando l'agricoltura e spostandosi sulla pastorizia vediamo l'utilizzo della pietra senza legante per due scopi, l'uno la delimitazione degli stazzi, l'altro per la costruzione di dimore pastorali delle quali un bell'esemplare della tipologia classica a capanna sta ai piedi di Tre Finestre e mentre esempi di ricoveri del tipo trulliforme stanno nell'Alto Molise. In pianura c'è meno materiale lapideo per realizzare muretti, ma pure se ci fosse stato i muretti oggi sarebbero scomparsi, non per l'assenza di manutenzione come succede nelle zone montane bensì perché sarebbero stati di ostacolo alle lavorazioni meccanizzate. Per la stessa ragione, quella della meccanizzazione agricola, nelle piane sono scomparsi anche gli alberi isolati rappresentativi della cosiddetta coltura promiscua soppiantata ora dalle monocolture. Si avverte, stiamo passando ad un altro argomento comunque sempre connesso al tema dell'evoluzione del paesaggio agrario, relativo alla componente vegetale e non più a quella antropica.

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Ci siamo appena lamentati della scomparsa di piante e ora deploriamo il loro numero eccessivo. Per prima cosa si vuole evidenziare che negli ultimi decenni si è registrata una crescita della superficie forestale a discapito delle aree coltivate, con il conseguente annullamento di ampi tratti di paesaggio agrario. È un autentico andirivieni quello dei boschi se a finire del ‘700 Vincenzo Cuoco denunciava l'eliminazione di distese boschive da parte della gente dell'epoca per la fame di terra coltivabile, cioè la deforestazione alla quale correttamente imputava la formazione di frane, oggi stiamo assistendo al fenomeno contrario, quello di una riforestazione spontanea sugli stessi appezzamenti “deforestati”. È, ribadendo quanto detto in precedenza, un vero e proprio su e giù: i boschi si trasformano in campi e successivamente questi ultimi ritornano essere boschi. Quello che in un lontano passato era un paesaggio boscoso diventerà un paesaggio agrario che, sua volta, è la ruota della storia, la ciclicità degli eventi, recentemente sta riprendendo le sembianze di un contesto paesaggistico boschivo. Lì dove si è avuto l'avanzamento della superficie forestale le siepi e i muretti a secco sono definitivamente scomparsi lì dove resistono ancora il loro destino sembra ormai segnato, tanto in quei comprensori rurali in cui gli addetti al settore primario sono in diminuzione, le "aree interne", con conseguente abbandono dei terreni coltivati, quanto in quelle fasce territoriali in cui si è affermata un'agricoltura avanzata, si sta pensando al Basso Molise, la quale prevede l'impiego spinto di macchinario agricolo. Per favorire il passaggio di tali macchine è necessario il livellamento del suolo con l'eliminazione delle predette siepi e muretti a secco e ciò porta alla semplificazione se non alla banalizzazione del paesaggio.

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