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I RISTORANTI TIPICI

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Si avverte, stiamo per parlare dei ristoranti cosiddetti tipici che formando un tutt’uno con le produzioni tipiche sono uno dei settori, il settore dell’enogastronomia, principali delle strategie di sviluppo del Molise. Per ristorante, ulteriore avvertenza, intendiamo non solo la cucina, ma pure il locale che la ospita. Rimanendo su ciò, dobbiamo dire che sempre più qui da noi si va affermando l’esigenza che il cibo e l’atmosfera architettonica che si percepisce in un ristorante siano fra loro coordinati in modo da far vivere ai clienti un’esperienza unitaria. I ristoranti tipici rientrano nella categoria dei ristoranti «tematici» i quali si differenziano da quelli, per così dire, generalisti in quanto la loro offerta culinaria è specifica, nel nostro caso i piatti locali. L’introduzione di questo tema, i ristoranti «a tema» (giocando con le parole) ci serve per far capire meglio cosa volevamo dire quando abbiamo parlato della situazione esperienzale unitaria: su di essa puntano molto i ristoranti cinesi, un altro tipo di ristorante tematico, i quali hanno sia l’arredamento interno sia l’allestimento del fronte esterno (vedi quello di via Monte Grappa a Campobasso) e anche le stoviglie coerenti con le pietanze servite. Non si arriva a ricostruire delle pagode perché si rimane nel campo delle cineserie. Oltre ai ristoranti che propongono il «made in Cina» vi sono quelli in stile western i quali attraggono in particolare gli appassionati di equitazione e che quindi sorgono presso i maneggi, ve ne era uno a Vinchiaturo, rigorosamente in legno per richiamare le capanne delle praterie americane; il «falso» è una tendenza che si è affermata anche in tanti ristoranti del luogo che all’involucro moderno contrappongono un arredo, in qualche modo, folk in linea, pertanto, con un menu fatto di portate nostrane.

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I ristoranti, lo si è visto, allorché tematici cercano l’ambientazione giusta per il cibo che si somministra, la quale, però, non sarà completa per quelli della cucina cinese o “old America” in quanto il contesto, trovandosi in Italia, è ovviamente dissonante. Migliori esiti, di certo, da tale punto di vista li raggiungono i ristoranti della cucina molisana i quali hanno facile gioco perché non trovano difficoltà oggettive ad individuare lo stabile appropriato e neanche che esso sia collocato in un sito caratteristico. È quest’ultima la differenza maggiore che si riscontra tra i ristoranti tematici i proprietari dei quali seppure fossero in grado di riprodurre l’architettura del luogo d’origine, Cina oppure Far West, non potrebbero ricreare l’angolo di mondo da cui i suoi modelli provengono. Ambientare un ristorante rustico, che si basa su una cucina rustica costituisce un notevole valore aggiunto. Non è, comunque, solo una questione di inserimento ambientale appropriato alla tradizione culinaria, essendovi un ulteriore vantaggio che potrebbe scaturire dalla collocazione in un dato posto quando questo è di eccezionale valore paesaggistico che è di un ritorno di immagine del quale beneficia, indifferentemente, sia il ristorante tipico sia qualsiasi altra attività ristorativa. L’incremento maggiore, ad ogni modo, è sempre per i ristoranti di cucina locale perché i suoi contenuti, i rimandi semantici, il cibo in senso antropologico di cui è carica concordano con le valenze culturali dell’ambiente nel quale è calata. Stare in un centro storico bello, e sono moltissimi nella nostra regione, è vantaggioso tanto per la faccenda della contestualizzazione della ristorazione incentrata su pietanze del luogo quanto perché si viene a trarre profitto dalla qualità ambientale di tale ambito, motivo di attrazione aggiuntivo per i frequentatori. D’altroverso il borgo antico si avvantaggia della presenza dei ristoranti per il richiamo di persone che si muovono per raggiungerli, movimenti spesso pedonali e quindi lenti in quanto numerosi nuclei medioevali sono o “naturalmente” pedonalizzati, per via delle scalinate che contraddistinguono i centri d’altura o “artificialmente”, mediante cioè disposizioni municipali di chiusura al traffico. Bisogna, poi, considerare che la nascita di un esercizio di ristoro significa il riutilizzo di uno dei vani a pianoterra dei fabbricati, quelli che altrimenti rinarrerebbero senza destinazione d’uso, una volta venuta meno la funzione originaria che era di stalla, bottega, rimessa, ecc. (mentre per gli alloggi è auspicabile il recupero ai fini abitativi).

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Nel capoluogo regionale che è ricco di cavità sotterranee si scende addirittura nelle grotte adattate a locali di ristoro o di intrattenimento, punti di riferimento della movida. Nelle strutture in muratura le stanze sono necessariamente di dimensioni contenute per cui si può verificare che i ristoranti si sviluppino su molteplici livelli essendo impossibile la sala unica. Riteniamo che si debba evidenziare che qui da noi, né nel centro storico né altrove, i ristoratori scelgono di posizionarsi alla quota terminale per sfruttare le vedute panoramiche che da lì si godrebbero, e che dentro i nostri insediamenti abitativi non vi sono mai ristoranti come manufatti indipendenti, cosa che, invece, si ritrova in campagna. Quest’ultima osservazione non è una constatazione neutra poiché spinge a riflettere sul fatto che l’architetto viene chiamato in causa, solo per l’interior design e, del resto, c’è l’attitudine a non enfatizzare in facciata la presenza, in corrispondenza del tratto di cortina muraria che racchiude il locale, del ristorante. Abbiamo accennato poco fa alla campagna per un certo motivo ed ora la affrontiamo per una differente ragione che è la sostenibilità la quale c’entra molto con la valorizzazione dell’enogastronomia da cui siamo partiti. I ristoranti campobassani sono penalizzati nell’approvvigionamento di prodotti alimentari a Km. 0, da un lato, per il consumo di suolo agrario nei dintorni della città dovuto ad un’urbanizzazione “selvaggia”, oggetto di condono edilizio e, dall’altro lato, per il mancato rilancio del Mercato Coperto.

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I ristoranti, orgoglio della cittadinanza

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Una comunità desidera autorappresentarsi attraverso la qualità dell’insieme urbano che abita. Ci si nobilita, in qualche modo, se l’insediamento in cui si vive è ricco di monumenti, giardini comunali, musei, teatri e biblioteche; sono, quelli elencati, beni pubblici, ma vi sono anche a qualificare un agglomerato insediativo opere di iniziativa privata quali i palazzi residenziali di pregio, antichi e moderni (si sta pensando alla casa dell’architetto Coppola a Isernia e vale la pena citarla), tra cui la costruzione denominata grattacielo a Campobasso per la sua particolarissima tipologia annuncio dell’avvento dell’era contemporanea pure per la “capitale” della regione, cinema, palestre, hotel (per equilibrare gli esempi tra i maggiori centri molisani, si nomina ora l’albergo Corona a Termoli), caffè (il campobassano Lupacchioli e il “Bar della Provincia”, quella “pentra”, per limitarci ai due capoluoghi di provincia) fino ai ristoranti. Per quanto riguarda questi ultimi è evidente che se essi danno tono ad un’entità urbanistica, non sono, comunque, in quanto a capacità di accrescimento dell’immagine cittadina alla pari di ben altre attrezzature civiche, non conta se pubbliche o private, come le strutture museali e teatrali non fosse che per le valenze simboliche associate a tali istituzioni le quali sono di natura culturale, mentre alle attività ristorative si attribuisce, per quanto riguarda il valore semantico, tutt’al più il significato di luogo dell’ospitalità nei confronti dei forestieri fornendo ad essi, appunto, ristoro o di momento della convivialità.

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Non è la distinzione tra pubblico e privato, lo si è detto, ad incidere sul fatto che un elemento della configurazione urbana diventi un segno, nell’accezione che dà a questo termine la semiologia, e ciò lo dimostra il fatto (ancora lui) che non è considerato tale, cioè segno, un manufatto, nonostante sia di proprietà pubblica, di carattere strettamente funzionale, prendi il carcere o la stazione ferroviaria o il gasometro oppure i palazzi per gli uffici o la caserma dei carabinieri. La loro presenza è necessaria e l’essere indispensabili li penalizza in quanto a riconoscimento sociale; non sono sentiti quali elementi distintivi di quel determinato centro perché stanno, o meglio devono stare, ovunque, niente, pertanto, di cui essere orgogliosi stando anche altrove, a meno che non abbiano una veste formale eccelsa, non semplicemente un aspetto dignitoso, il minimo sindacale. Invece, il resto delle dotazioni architettoniche della città, o, in scala ridotta, del borgo, sono il frutto della volontà della popolazione che vi è insediata, magari non una per una, bensì nel complesso mediante il piano regolatore in cui, comunque, non è prevista la categoria dei ristoranti. Rifacendoci al pensiero del filosofo francese Foucault ci sono cose che vengono fatte per soddisfare i “bisogni” e altre per perseguire i “desideri”, ambedue decisive per l’esistenza di un uomo e perfino di un gatto, l’esemplificazione utilizzata dallo studioso, che gioca con il gomitolo di lana non per qualche utilità, ma per il puro piacere di farlo. Applicando tale teoria al ristorante vediamo che non è la fame l’unica molla che ci spinge a frequentarlo (il bisogno) poiché vi è nel contempo la voglia di gustare i piatti di quel ristoratore (il desiderio). In assoluto è difficile stabilire quali siano i temi che solleticano l’amore proprio degli abitanti, se una cripta come a Trivento, un ospedale, a Agnone, una passeggiata lungo fiume, il Calderari a Boiano, un centenario circolo operaio a Carovilli e così via; le difficoltà sono tanto più forti se si tiene conto che le tematiche cambiano nel tempo essendosi aggiunti i belvedere, a Morrone, le pitture murali, a Civitacampomarano, l’allestimento museografico all’aperto, a Casalciprano, la land art, a Casacalenda e via dicendo. Anche il ristorante, il quale è un qualcosa di cui andare fieri come si è precisato fin dall’inizio, è, in effetti, una comparsa nel panorama cittadino abbastanza recente, essendo in numero limitato in passato, la Trattoria Abruzzese a Campobasso, la Taverna Maresca a Isernia, Zia Filomena a Boiano e poco più.

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pasta fatta in casa

Lo sviluppo di iniziative di ristorazione si deve, da un lato, allo spirito di emulazione di quanto succedeva negli altri Comuni e, dal lato opposto che, in fin dei conti, è il medesimo lato, per quel sano campanilismo che mette in concorrenza fra di loro le varie località e che in tale riguardo costituisce un valore aggiunto per la crescita dei paesi. Paesi grandi e piccoli, nei secondi rappresentando accanto al castello, alla chiesa parrocchiale, alle mura urbiche e mancando gli spazi per lo spettacolo, i grand hotel, ecc., un fattore di prestigio non da poco. La sfida è, comunque, totale non riguardando centri distinti per gruppi, ad esempio una suddivisione per dimensione demografica, nella convinzione che un ristorante pluristellato possa far scalare di rango, verso l’alto, quel nucleo abitativo, aumentarne i quarti di nobiltà. È il caso di Civitanova del Sannio, piace ricordare, un ricordo condiviso da tanti avventori provenienti dall’intero Molise che ha addirittura due attività ristorative di eccellenza. Non è, ovviamente, solo l’esistenza del ristorante a far respirare un’aria cittadina aggiungendosi spesso, pur in aggregati insediativi minimi, il fioraio (ben due a Torella, uno di fronte all’altro), la pasticceria annessa di frequente ad un  caffè (Fossalto, per dirne una), il negozio di oggettistica (Baranello, pur essendo assai vicino a Campobasso), tutti settori merceologici che fanno onore al borgo, ma la cui presenza non è proprio indispensabile, legati, cioè, al desiderio piuttosto che al bisogno. Essi, lo si ripete insieme al ristorante, conferiscono una qualche vivacità al paese rapportabile, fatte le debite proporzioni, a quella delle realtà urbane. L’aspirazione a voler assomigliare ad una città, seppure in sedicesimo, peraltro, vi è sempre stata e lo dimostra la realizzazione dei viali alberati, tipo quello di S. Massimo, dove gli esponenti della classe borghese potevano passeggiare similmente ai loro omologhi che risiedevano nelle metropoli. 

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