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I castelli

Le strutture fortificate molisane sono diversissime fra loro andando dalle cinte sannitiche ai palazzi baronali con connotati stilistici rinascimentali. Si distinguono le fortificazioni del periodo sannita perché esse erano fatte da pietre accostate fra loro senza l’uso di calce: proprio per il fatto che erano messe a secco le pietre dovevano essere di grandi dimensioni perché altrimenti la parete muraria non si sarebbe retta. Esempi di mura megalitiche si hanno a Terravecchia di Sepino, a monte Saraceno di Pietrabbondante, ecc.. un altro carattere che permette di riconoscere le mura sannitiche è l’assenza delle torri e dei beccatelli che compariranno solo nel medioevo. Comunque, in generale si può dire che non vi sono fondamentali differenze tra i concetti di fortificazione medioevale e sannita, i quali ambedue si basano in primo luogo sulla scelta del sito che deve essere, il più possibile, inaccessibile, magari una rupe con i fianchi strapiombanti. Profonde novità furono introdotte nei metodi di difesa con l’apparizione delle armi da fuoco alla fine del 1400, ma in questo periodo il Molise era ormai parte di uno stato unitario il Viceregno spagnolo e di esso costituiva una regione interna, non di frontiera per cui non necessitavano gli apparati difensivi. Nel XVI secolo i vecchi manieri vengono trasformati in comode residenze nobiliari. In verità sono pochi gli esemplari di questo tipo, cioè i castelli-residenza,

perché la politica degli spagnoli era quella di assorbire i nobili negli impieghi di corte ed evitare, così, che i feudatari fossero troppo autonomi e potessero ripetere sommosse quali «la congiura dei baroni». Tra i rari casi si possono citare il castello di Pescolanciano e quello di Civitacampomarano che si arricchirono di loggette di gusto rinascimentale, oppure il castello di Macchiagodena che nella sua facciata verso la piazza del paese ha assunto l’aspetto di un palazzo nobiliare, mentre conserva ancora caratteristiche difensive nel lato che dà verso la vallata. In ogni caso l’edificio feudale non perde mai del tutto le sue origini militari come si può vedere dalle mura sempre massicce. Non abbiamo parlato finora di un’altra categoria di architetture per la difesa che è formata dalle torri isolate. Questa è una tipologia non propriamente difensiva: essa piuttosto ha una funzione di avvistamento per controllare il territorio. Se da un lato esse costituiscono manufatti edilizi isolati, dall’altro esse sono inserite in un organico sistema punteggiando vallate (come quella del Biferno dove oltre la cosiddetta Rocca di Oratino, vi sono altre strutture simili in agro di Busso e di Morrone) e la costa. Qui, la più conservata è la Torretta, nel comune di Termoli, chiamata anche torre saracena, un toponimo ricorrente lungo le coste dell’Italia meridionale, a ricordo della sua funzione di presidio contro l’invasione dei pirati saraceni.

Pescolanciano

In prossimità del litorale e a presidio della valle del Trigno c’è un’altra torre isolata, la Torre Montebello di Montenero di Bisaccia. C’è una torre isolata anche in un centro abitato, Campochiaro, ma in genere esse sono dislocate nel territorio rurale. Un’altra torre isolata, sia pure ricompresa nella cinta difensiva, è quella detta di Delicata Civerra a Campobasso che ha la particolarità di essere «scudata», cioè priva della parete nel lato interno della città, in modo da non consentire all’esercito attaccante che avesse espugnato le mura di usarla contro i difensori. Il più gran numero di torri, ovviamente, lo si trova inserito nelle murazioni che possono essere quelle dei castelli (Carpinone, Torella, Termoli e così via) o quelle delle cinte urbane (Campobasso, Vastogirardi, Isernia, Civita Superiore di Boiano e altre ancora). Qui le torri sono poste quasi sempre agli angoli (con alcune eccezioni come quella della torre che sta al centro della parete del borgo fortificato di Vastogirardi). Esse differiscono fra loro per il modo in cui sono attaccate al perimetro della pianta: ci sono quelle affiancate alle mura (nel castello Carafa a Ferrazzano o nel castello Pignatelli a Monteroduni) e più frequentemente quelle che fuoriescono dai muri a scarpa (nel castello di Roccamandolfi o nel castello di Cerro al Volturno). In ogni caso la loro funzione è quella di permettere il tiro «fiancheggiante» per prendere di fianco gli assaltanti, aggiungendosi al tiro «piombante» che si effettuava dalla sommità delle mura per prendere dall’alto il nemico. Quest’ultima tecnica di difesa prevedeva che colui il quale provvedeva a fare il tiro «piombante» dovesse essere protetto dal lancio delle frecce degli attaccanti mediante merli dietro cui poteva trovare riparo; nel Molise gli unici merli sono quelli situati sulle cortine murarie dei castelli di Campobasso e di Monteroduni, ma sembrano elementi posticci, aggiunti in occasione di restauri. Vale la pena notare che sono merli di forma “guelfa” i quali sono più semplici di quelli “ghibellini” avendo questi una forma elaborata perché terminano a coda di rondine. Insieme ai merli a dare vivacità alle tozze murazioni dei castelli ci sono i «beccatelli», la cui funzione però non è certo decorativa, ma militare. Infatti esse sono delle mensole che reggono uno sporto dal quale attraverso «caditoie» si colpiscono gli assedianti. Queste mensole sono fatte di pietra lavorata, diversa dal pietrame con cui sono costruite le rozze mura del castello; inoltre esse sono inferiormente lobate e spesso, per ottenere una maggiore sporgenza, sono sovrapposte fino a formare una triplice fila. Ciò conferisce quel carattere grazioso ai beccatelli che, introdotti alla fine del ‘300, li porterà nel periodo rinascimentale ad essere utilizzati come sostegno per loggette. I beccatelli nella nostra regione non sono rari, trovandoli sia a Vastogirardi (qui reimpiegati per reggere un balcone), sia a Riccia (a coronamento della Torre Angioina), sia a Colletorto (pure in questo caso in cima alla torre). A Pescolanciano i beccatelli stanno anche sull’ingresso della corte che precede il castello e quest’osservazione ci permette di introdurre un’altra componente delle strutture difensive che sono le opere esterne al castello le quali servivano a tenere il nemico il più possibile lontano dal nucleo della fortificazione (la stessa corte che sta prima del castello la troviamo a Carpinone, a Civitacampomarano e a Trivento). Rientrano in questa categoria di opere i fossati visibili vicino ai castelli di Campobasso, Ferrazzano, Riccia e Pescolanciano nel quale ultimo è chiara l’esistenza di un ponte levatoio. Tali fossati, che potevano essere riempiti d’acqua, ma che più probabilmente erano a secco, non corrono lungo tutto il castello, ma stanno solo sul lato non difeso naturalmente dagli strapiombi; non basta, però, che ci sia un lato del castello accessibile con facilità per avere il fossato, anzi esso è un elemento piuttosto raro. Pur avendo uno o più lati privi di difese naturali non compare il fossato e questo è il caso del castello di Gambatesa, di Cercepiccola, di Bonefro, di Larino e molti altri ancora. Una ragione che giustifica questa assenza c’è ed è che il castello nei casi citati risulta integrato al centro abitato venendo a costituire uno degli isolati urbani, sia pure un isolato speciale. 

Macchiagodena

Quando si verifica questa condizione, cioè che esso è inserito all’interno dell’agglomerato abitativo, il castello ha una pianta di forma regolare in quanto deve rispettare l’organizzazione urbanistica dell’abitato. Altrimenti, quindi quando è separato dalle altre costruzioni, la sua pianta si adegua all’andamento del terreno e perciò non ha mai un impianto rettangolare: vedasi il castello D’Evoli di Castropignano, il castello longobardo di Tufara, ecc. Questo adattamento del castello al sito in cui sorge permette il suo perfetto inserimento nel paesaggio tanto che oggi è difficile a volte distinguere in una veduta da lontano le rocce sulle quali è fondato dai ruderi del castello se non fosse per qualche brandello di mura di cinta più alto o per la presenza della torre, come nel caso del castello di Pesche o di Longano, che per la sua verticalità emerge con evidenza nell’immagine paesaggistica. Questi ultimi castelli, appena nominati, impongono di parlare della tipologia dei castelli-recinto, la più antica tipologia dei castelli molisani alla quale appartengono quello di Tufara, quello di Civita Superiore, quello di Roccapipirozzi, quelli di Pesche e Longano appunto. Si tratta di manufatti semplici non solo perché le capacità tecniche di quel periodo erano limitate, ma anche perché esse servivano solo come ultima struttura di protezione nella quale rifugiarsi nei momenti di maggior pericolo, non come residenza del feudatario. La torre, che prende il nome di mastio, era il perno di questo sistema di difesa, il baluardo finale in occasione degli assedi. Nei secoli successivi al 1000 si ebbe una costante evoluzione di questa torre, che sempre più cambio fisionomia fino a trasformarsi nel palazzo baronale cinquecentesco mentre il recinto diventerà una vera e propria cortina muraria. Tra gli esempi di castello-recinto sopravvissuti il più integro è quello di Pesche che è giunto a noi nella sua conformazione originaria. I cambiamenti dei concetti di difesa durante l’arco dell’intero medioevo sono stati notevoli se si pensa alla torre che dal mastio isolato del castello-recinto diventa torre di rinforzo delle mura del castello. Una successiva modifica la si ha nell’altezza: si passa dalle torri dei castelli di Carpinone e di Torella che svettano dalla cortina muraria alle torri della stessa altezza della cinta a Monteroduni o a Bonefro fino alle torri del castello di Campobasso più basse delle mura. Queste vennero dimezzate da un lato, per permettere ai cannoni di avere un ventaglio di tiro più vasto il quale si può avere solo se il tiro è orizzontale al bersaglio e, dall’altro lato, per il pericolo di crollo di strutture fragili, perché alte e sottili come sono le torri, sotto i colpi di arma da fuoco degli avversari. A denunciare il fatto che le torri a Campobasso sono state smozzate in seguito, e non costruite così, è la presenza del redontone in una posizione anomala, quasi in cima alle basse torri. Invece il redontone che è una specie di marcapiano di forma semicircolare avrebbe dovuto trovarsi a circa metà altezza della torre perché esso separa la parte diritta di un muro dalla sua parte inferiore che è inclinata costituendo la scarpa. Proprio il redontone ci permette di citare un’ulteriore questione relativa alle strutture difensive ed è che è difficile distinguere quanta parte in queste architetture giochino i motivi militari e quanta, al contrario, le esigenze estetiche. Il redontone che è presente anche in altri esemplari di castelli (Tufara) sembra avere una funzione esclusivamente decorativa perché serve a mascherare le irregolarità che derivano dalla congiunzione di due parti con differente inclinazione. Da qui si deduce che il castello non è solo un’opera utilitaristica, che risponde solo a criteri di tecnica militare, ma rappresenta un’opera di architettura vera e propria e i castelli molisani ne sono una testimonianza efficace.

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I castelli perciò sono una parte importante del nostro patrimonio artistico e non solo storico oltre che una parte integrante dl paesaggio regionale. Essi partecipano al contesto ambientale nel quale sono inseriti anche perché è loro peculiare interesse ricercare uno stretto rapporto con i luoghi, sfruttando a scopo difensivo le asperità naturali. I più significativi scorci paesaggistici del Molise sono quelli che includono castelli: è impressa nella memoria visiva di tutti noi l’immagine di Pescolanciano dominato dal suo castello, oppure la visione dei ruderi del castello D’Evoli che sembra si confondano con le rocce, non solo dal punto di vista visivo, ma anche emozionale perché la sensazione dell’orrido è trasmessa sia dalla rupe che a strapiombo cala sul Biferno sia dalle suggestioni guerresche che il vecchio maniero emana.

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IL CASTELLO DI S. AGAPITO

Il castello è posto proprio a fianco della porta d’ingresso al borgo medioevale fortificando il punto della murazione più vulnerabile poiché priva di difese naturali ma questo non è un fatto insolito, mentre è un’eccezione il fatto che l’accesso alla residenza feudale non coincida con quello dell’abitato storico come succede, invece, per diversi altri casi nei quali vi è l’affiancamento tra il palazzo baronale e l’ingresso al borgo (vedasi gli esempi di Vastogirardi e Scapoli). Tale contiguità si spiega con la necessità di rinforzare il punto “debole”  della cinta muraria che è la porta mediante la costruzione di una rocca “forte” in adiacenza. Venute a cadere le esigenze difensive con un processo che è iniziato nel XV secolo, si è avuta anche qui la trasformazione del vecchio maniero in un edificio signorile. I signorotti tendono ad imitare i grandi palazzi rinascimentali tanto per la ricerca di comodità abitative quanto per lo status aristocratico che attribuiscono al proprietario. A S. Martino in Pensilis, a Casacalenda, a Cercepiccola, ecc. compare il cortile il quale, in verità, doveva esserci stato pure in precedenza quando fungeva da semplice luogo di raduno protetto e che, però, ora tende ad assumere valenze architettoniche. La corte può essere porticata come accade a Larino e, a volte, ciò accade a S. Agapito, su di essa prospetta un loggiato. Non ci sono altre ragioni che ragioni legate al gusto che spingono ad attribuire una forma regolare al cortile. Esso ha sempre una pianta quadrangolare e si avvicina al quadrato anche la corte del castello del nostro centro matesino. È rara la presenza nel patrimonio castellano molisano di corti con al centro un elemento scultoreo, una vera di pozzo, una vasca per cui è sorprendente imbattersi nel leone stilobate introducendosi nel cortile. È un pezzo lapideo di consistenti dimensioni, ben superiore a quelle di tanti leoni accovacciati sorreggenti le colonne dei portici delle chiese romaniche, e di ottima fattura posizionato in modo che possa essere ammirato fin dall’ingresso. Il cortile rappresenta la parte del palazzo maggiormente interessante in riguardo all’architettura poiché la facciata esterna non presenta motivi stilistici di rilievo. Che il cortile sia il frutto di una precisa scelta figurativa è dimostrato, inoltre, dalla sua collocazione non baricentrica rispetto al fabbricato come si converrebbe ad una corte; per sua natura essa dovrebbe conformare la tipologia edilizia, essere il cuore della costruzione, il cuore della distribuzione degli spazi interni, cosa che non avviene e che fa dedurre che non è il frutto di una volontà compositiva, bensì di ragioni espressive. I fabbricati con impianto a corte presentano un bilanciamento dei corpi intorno a questo nucleo in qualche modo

Il castello di Sant'Agapito

generatore, mentre a S. Agapito il palazzo è un volume allungato, non centralizzato come negli schemi a corte. Dal portone d’ingresso immediatamente prima di accedere al cortile si può raggiungere il cosiddetto piano nobile mediante uno scalone con soffitto affrescato e a tale livello sta la loggia; un’organizzazione tipo logicamente del tutto diversa da quella degli edifici con corte d’onore dove per salire sul piano superiore destinato alla rappresentanza, bisogna attraversare per intero il cortile. Ciò fa, in qualche modo, di questo tipo di cortile un luogo con maggiore indipendenza dalla residenza, alla stregua di uno slargo urbano, sebbene di proprietà privata. Il cortile del castello di S. Agapito, proseguendo sulla scia di quanto appena detto, è una sorta di piazzetta, seppure non di uso collettivo, ed, anzi, è la superficie aperta più ampia dell’agglomerato antico. Più estesa del largo che antecede il fabbricato che un tempo doveva essere la cappella feudale, di cui doveva fungere da sagrato. Le paraste che chiudono la facciata di questo edificio, oggi destinato a livello terraneo a esercizio commerciale, e il passaggio coperto che sormonta, sorretto da un arco, la strada che la separa dal castello, usato dai componenti la famiglia del feudatario per assistere alle funzioni religiose (non è la prima volta: vedi il palazzo baronale Iacampo di Vinchiaturo e la dimora borghese dei Petrecca a Cantalupo), rivelano il suo essere stato un edificio di culto. La conferma, peraltro, viene dalla planimetria catastale del comune, tuttora quella ufficiale, nella quale è riportata sulla particella corrispondente a questa fabbrica il simbolo delle strutture ecclesiastiche. In verità, vi è un dubbio residuo, forse inappropriato, che è dato dall’altezza in quanto diventando casa è stato possibile ricavarne ben due piani, il secondo oltre le paraste citate. La chiesetta, pur essendo stata ormai riassorbita nel tessuto edilizio, una casa come tutte le altre, conserva una sua

Il castello di Sant'Agapito

singolarità che la distingue dal resto ed è la sua posizione ortogonale alla porta urbica che gli attribuisce un particolare risalto nel panorama cittadino; il castello per la disposizione del suo fronte tangente al percorso che si diparte dalla porta urbana non è percepibile se non d’infilata e l’essere visibile solo di scorcio, non quale fondale delle vedute, non fa emergere la sua imponenza. Rimane, comunque, la sua rilevanza nell’aggregato urbanistico per la sua volumetria decisamente fuori scala, quasi fuori posto in una piccola comunità contadina e, di conseguenza, povera che viveva in casette minute. Rimane, poi, la sua carica simbolica, perché tale architettura rimanda all’epoca in cui ebbe origine l’insediamento fondato come la gran quantità dei comuni della regione nell’alto medioevo. Nonostante non sia diventato sede delle nuove istituzioni che hanno soppiantato il regime feudale, cioè del Municipio, non essendo stato incamerato dalla mano pubblica al momento dell’eversione del feudalesimo, il castello rimane un «segno» autorevole per i valori culturali che porta con sé. Esso può essere candidato per ospitare attività in favore della crescita della cultura, iniziando con la predisposizione di una convenzione da sottoscrivere con gli attuali possessori per permettere la visita almeno del cortile. La fruibilità è favorita dalla vicinanza con il sobborgo sorto fuori le mura, in stretta aderenza con il nucleo originario che proprio da questo lato (l’unico in cui il borgo antico, lo si è accennato all’inizio, non è separato dal resto del territorio per via di barriere morfologiche, quali i valloni) vede la presenza del castello, raggiungibile perciò con facilità.                           

Il restauro delle strutture castellane
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Non c’è voluto molto a garantire una fascia di rispetto per tutelare l’immagine del castello, quello della famiglia Gambatesa-Monforte, a Campobasso, nessun provvedimento vincolistico perché, nei fatti, era già, la zona circostante il maniero, un’area “vuota”. Storicamente l’intorno del fortilizio risulta sgombro da costruzioni e ciò per volontà del conte Cola di destinarlo a zona ad uso militare; egli fece demolire le case lì presenti provocando l’effetto di spaesamento delle chiese di S. Giorgio e di S. Bartolomeo le quali in quanto sedi parrocchiali dovevano essere al centro di quartieri abitativi. Nicola di Monforte dispose pure la costruzione di una cinta muraria di separazione tra la città e tale ambito asservito alla struttura castellana. Il caso del capoluogo regionale di castello collocato in un sito a sé stante, distinto dall’abitato e, quindi, libero da manufatti edilizi all’intorno non è unico, si cita solamente quello di Roccamandolfi. A questo punto occorre puntualizzare che non è un merito l’isolare il monumento dal suo contesto come hanno fatto i Francesi per le loro cattedrali gotiche, gioielli “assoluti” che non devono subire contaminazioni esterne per cui viene fissato un raggio esteso fino a 500 metri entro il quale il terreno va svuotato perché si rischia l’opposto, la decontestualizzazione. Per intenderci, il castello di Civita Superiore bello in sé, per i suoi due ampi cortili così luminosi è ancora più bello per l’essere inserito in un borgo tradizionale. Comunque, in urbanistica non sono ammessi i “buchi neri”, cioè parcelle di territorio prive di alcuna destinazione funzionale, i Piani Regolatori devono attribuire a ogni superficie un utilizzo preciso: la Collina Monforte si presta per l’elevata qualità dell’ambiente, che, peraltro, l’hanno portata ad avere il riconoscimento di Sito di Importanza Comunitaria, e per la sua contiguità con un agglomerato urbano popoloso, con limitate superfici a Verde Pubblico, alla designazione a Parco Territoriale dove svolgere attività ricreative all’aria aperta. La distanza da un nucleo insediativo, però, può essere minima come accade al Castello Svevo, simbolo di Termoli il cui isolamento, almeno dal punto di vista semantico, è minacciato dal progetto della realizzazione del tunnel sotterraneo, al di sotto, appunto, della piazza S. Antonio il quale, certo, in sé stesso non è visibile, ma dal quale fuoriescono aperture, queste sì visibili, ovviamente, che vengono a fronteggiare il possente mastio federiciano.

Macchiagodena

Sempre a proposito dello stare da soli delle architetture monumentali è da evitare l’atteggiamento, per così dire, francese del quale abbiamo un esempio eclatante nel Molise, a Civitacampomarano. Qui venne abbattuta la schiera edificata che occultava, parzialmente, il castello angioino provenendo dalla statale Adriatica, la via di accesso al paese. Sarebbe stato più stimolante giungere al cospetto del castello, in qualche modo, all’improvviso nascosto fino a poco prima com’era alla vista (per capirci, fino all’altezza della dimora di Gabriele Pepe) dalla cortina edilizia di cui si è detto; in altri termini solamente superata la stessa in passato era possibile cogliere nella sua interezza questa importante opera architettonica. È un modo di sentire, quello proposto, più moderno anche se più antico, è paradossale, perché ci deriva dai greci: essi amavano scoprire le meraviglie artistiche gradatamente e una testimonianza ne è la salita all’Acropoli con il Partenone che emerge di colpo alla vista dopo aver oltrepassato il tempietto di Atena Nike e i Propilei, focus dell’attenzione uno di seguito all’altro mentre si ascende e ciò favorisce la sorpresa finale. Passiamo ora dalle problematiche relative alla situazione ambientale attorno al castello a quelle riguardanti l’integrità fisica, non più la salvaguardia delle vedute che lo ricomprendono, del manufatto.

castello di Civita superiore

Anche qui la casistica è variegata e si va dai due estremi opposti, da un lato quello di erigere, progetto per fortuna non attuato, un volume ex-novo innestato sui resti di una rocca longobarda a Tufara nella piena consapevolezza dei progettisti che non si trattava della ricostruzione di alcunché, quindi di corpi ab origine presenti e ciò per farne un municipio, dall’altro lato quello, siamo a Carpinone, di riedificare una parte, volumetricamente non di poco conto, una intera ala della residenza dei Caldora di cui si presupponeva, sulla base di scarsi indizi, l’esistenza. Il secondo degli episodi limite esposti è il più negativo riguardo alla tutela del bene storico in quanto viene a trattarsi di un’operazione di falsificazione, proporre una forma dell’immobile che forse non è mai esistita. Si possono rimettere in piedi porzioni della fabbrica antica, quando si hanno in mano dati certi sulla sua configurazione originaria, salvo permettere all’osservatore di distinguere i muri che con l’azione di restauro vengono alzati dal resto; ciò lo si ottiene apponendo contrassegni quali l’intercalazione di una lamiera tra i brandelli di muratura sopravvissuti e il paramento murario che ne costituisce la prosecuzione, tirato su nei lavori di ripristino come succede nel castello già citato di Civita Superiore, oppure un filare di mattoni interposto tra le pietre “vecchie”, il rudere, e quelle “nuove” dell’intervento di rifacimento e ciò avviene nel castello, anch’esso nominato in precedenza, di Roccamandolfi. Secondo Michelangelo i due atteggiamenti possibili nella creazione di un’opera d’arte sono quelli, manipolando i materiali a disposizione, del “mettere” e del “togliere” ed egli nella fase terminale della sua vita optò per quest’ultimo togliendo dal masso roccioso, incavandolo, la “scorza” lapidea che teneva bloccata la figura, prigioniera, appunto i Prigioni, al suo interno: tale modo di operare dovrebbe essere adottato pure nel campo della conservazione del patrimonio artistico, in particolare architettonico quando si è di fronte a superfetazioni, togliendo, il vocabolo michelangiolesco, le porzioni incongrue del tipo dell’ “escrescenza” destinata a servizi sviluppatasi in un angolo del cortile del castello di S. Agapito.

Torella
Le pertinenze delle opere castellane

Dire che nel Molise non vi sono tutte le tipologie di castello che compaiono nell’ambito italiano non significa dire che qui non vi sia una grande varietà di strutture castellane. C’è qualcosa di vero nell’espressione «il Molise non esiste» nel senso che è una terra isolata, per cui poco conosciuta dal resto della nazione tanto da esserne messa in dubbio l’esistenza; l’isolamento l’ha portata a non essere stata coinvolta in eventi bellici, dall’ultima Guerra Sannitica in poi, per cui non sono presenti imponenti fortificazioni. Non c’è stata la spinta di un’emergenza guerresca ad edificarle, senza i quali episodi, frequenti, sarebbero rimaste inutilizzate, costruite inutilmente. Bisogna sottolineare, inoltre, che la situazione politica con l’avvento degli Spagnoli si era stabilizzata nell’Italia del sud, erano finiti i conflitti interni, con la difesa affidata ad un esercito nazionale (in quello di epoca borbonica, faceva parte pure Gabriele Pepe, curiosità) per cui non era più richiesto l’apporto militare dei grandi feudatari tipo Cola di Monforte o Giacomo Caldora come quando essi parteciparono con proprie truppe alla lotta tra Angioini e Aragonesi per il trono di Napoli. Da tutto quanto esposto se ne deduce che i castelli nostrani sono piccoli. Bisogna aggiungere per spiegare l’assenza di alcune specie di castello presenti invece nel resto del Paese che l’inizio del dominio ispanico, il quale, per quanto visto, eliminò la necessità di rafforzamento delle attrezzature militari tanto che i manieri furono trasformati in residenze signorili, coincide con l’apparizione delle armi da fuoco. Da esse ne viene il cambiamento del modo di condurre gli scontri armati e di conseguenza una profonda rivisitazione della concezione delle fortificazioni; tale cosa avvenne essenzialmente al centro-nord della Penisola suddiviso in tanti statarelli “l’un contro l’altro armati” e, peraltro, esposti alle incursioni straniere. Innovazioni, per concludere, che non interessarono la nostra regione. Passiamo ora al punto. La lettura dell’aspetto di un castello è bene che cominci dal di fuori e così facciamo dilungandoci sulle opere extracastellane. Anche in riguardo allo spazio extra-moenia troviamo una diversità di situazioni. Il castello è spesso complementare (è meglio il viceversa) ad un luogo di culto e tale rapporto è differente da castello a castello. Il caso di Pescolanciano è un caso a sé perché esso è introiettato in seno all’architettura castellana e costituisce una cappella privata dei duchi D’Alessandro. A Vastogirardi non è di proprietà della famiglia feudale la chiesa di S. Nicola che è contigua alla dimora fortificata dei Petra, a lungo i feudatari, ma qui trovano sepoltura i componenti di tale dinastia gentilizia. È diversificato il modo in cui si rapportano fra di loro edificio religioso e nobiliare, a volte tramite una galleria sopraelevata come a Vinchiaturo che collega il palazzo Iacampo con la parrocchiale o a Lucito tra il palazzo Capecelatro e la chiesetta di S. Gennaro, a volte stanno spalla a spalla e ciò si verifica a Casacalenda dove il palazzo ducale dei Di Sangro fiancheggia la chiesa-madre e analogamente a Spinete e nella già citata Vastogirardi con in quest’ultimo paese una grata nel muro di separazione tra edificio cultuale e nobiliare attraverso la quale i titolari del feudo possono assistere alla messa senza mischiarsi con il popolo. 

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Un collegamento più lasco e, comunque, un collegamento, diciamo così, emotivo data la vicinanza che unisce idealmente lo spazio sacro e quello pagano, vi è a Torella, li divide uno stretto vicolo, e a Ripalimosani con gli ingressi del castello e della chiesa matrice che si fronteggiano.  Da sottolineare il legame che denuncia tale prossimità tra la sede della parrocchia e il palazzo feudale, tra il potere ecclesiastico e quello civile, da fare del loro insieme una sorta di polo direzionale dell’abitato. Passiamo ora, sempre rimanendo al di qua dell’opera architettonica, all’ingresso e, in particolare, al ponte levatoio che conduce ad esso. A Ferrazzano e a Venafro esso è stato ricostruito in muratura, mentre a Campobasso ci si è accontentati di far rimanere a vista le tracce dell’impianto di sollevamento del ponte movibile rinunziando a qualsiasi ipotesi di ripristino dello stesso o alla costruzione di un altro manufatto di scavalcamento del fossato. A Pescolanciano il pontile che c’è per la sua leggerezza assomiglia più di tutti al prototipo del ponticello sollevabile medioevale il quale doveva essere, formato da un semplice, pur se robusto, non un artefatto edile, tavolato. Ci soffermiamo sul ponte venafrano, il quale, in verità ricorda un viadotto a causa delle sue due arcate per una breve digressione. La passione dei Pandone per i cavalli, raffigurati più di uno sulle pareti delle sale del castello, fa pensare allo spirito cavalleresco, quello che animava i cavalieri dei bei tempi andati. Fra le parole di derivazione dal vocabolo cavallo, lo si sarà notato, non c’è il termine cavalleria perché pur essendo ancora vivi, siamo nel XVI secolo, gli ideali, vedi i paladini dell’Orlando Furioso, non era più il tempo, richiamando l’osservazione iniziale sulle armi da fuoco, delle battaglie campali, quelle dei cavalleggeri, e neanche è l’ambito geografico adatto. Il nostro infatti è montagnoso; sono scarse le aree in cui potersi scontrare in campo aperto, una delle poche è la piana di Sessano dove le truppe, anche su cavalcature, di Alfonso il Magnanimo sconfisse quelle del Caldora. I destrieri attraversando a galoppo il ponte levatoio lo sottoponevano a consistenti oscillazioni e, invece, i carri merce, piuttosto che con sollecitazioni dinamiche, lo impegnavano con consistenti carichi essenzialmente statici per via del loro lento incedere. Da qui il sostegno intermedio nel ponte del castello di Venafro. I magazzini per tali ragioni sono posti fuori dal castello come succede a Riccia, conosciuti proprio con il nome Magazzini del Castello, e a Pescolanciano. È interessante il confronto tra questi due casi: a Riccia essi risultano separati dal castello a causa del passaggio della principale strada di collegamento extraurbano che conduce all’agglomerato urbano e ciò si verifica pure per la chiesa del Beato Stefano, a Pescolanciano il magazzino è all’interno del recinto che antecede il palazzo ducale, dunque è a prova di infrazione. Rimanendo in quest’ultimo comune e rimanendo ad osservare il ristretto spazio esterno che precede il ponte levatoio notiamo che per accedervi occorre superare un portone ad arco con cancello protetto da beccatelli il che, certo, incrementa la sicurezza dei beni conservati nel locale magazzino. Vi sono castelli, Castropignano, che hanno manufatti avanzati accessori alla stregua di un bastione che a qui è configurato con un netto e tagliente spigolo. Non è un castello, ma una villa fortificata, il Casino del Duca a Civitanova, il complesso in cui ci sono i corpi di guardia a protezione dell’ingresso, ancora una cancellata, e della corte antistante ad esso.

Feudalità e castelli

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Il Molise è caratterizzato da una forte frammentazione del sistema insediativo da cui ne consegue, data la regola indiscussa di un castello per ogni comune (salvo Montaquila perché c’è un castello pure nella frazione Roccaravindola), il gran numero di strutture castellane qui presenti. Ciò, peraltro, è una singolarità della nostra regione che suscita un notevole interesse da parte dei turisti i quali si vengono a trovare di fronte ad una varietà di architetture fortificate, di datazioni e stili differenti (il castello longobardo di Tufara, quello angioino di Civitacampomarano, quello svevo di Termoli e così via), il che, tale pluralità, compensa dal punto di vista dell’attrattività, la loro, generalmente, ridotta stazza. Alla contenuta dimensione dei manieri si associa bene il fenomeno che non è unicamente molisano, ma è ricorrente in molte parti dell’Italia meridionale che è il loro appartenere ad una feudalità minore, non a grandi casate, salvo alcuni episodi quali i Caracciolo a Ripabottoni, i Colonna a S. Martino in Pensilis e pochi altri, con i titolari che si affacciano saltuariamente nei loro feudi dedicando maggiori attenzioni ai possedimenti di maggiore estensione che hanno altrove.

È successo con i Gonzaga, nota famiglia nobiliare milanese, feudatari di Campobasso dei quali solo un esponente e una sola volta vi si recò: per festeggiare l’evento eccezionale si decise di, nonostante non fosse la giornata canonica, portare i Misteri in corteo. Va, poi, considerato che ad influire sulla scarsa rilevanza fisica della maggioranza dei nostri castelli, almeno dal periodo della dominazione spagnola, vi è il fatto che ai nobili vengono assegnati incarichi nell’amministrazione centrale dello Stato, obbligandoli, in qualche modo, a risiedere nella capitale dove costruiranno i propri palazzi, distogliendo risorse all’incremento e alla cura delle proprietà immobiliari nei loro feudi.

In realtà era una tendenza già in atto quella di richiamare a corte i baroni manifestatasi già nelle epoche precedenti, fin dalla formazione del regno di Napoli, richiamo motivato dall’esigenza di prevenire le “congiure dei baroni” che di tanto  in tanto scoppiano in periferia (a dissuadere alla rivolta era la minaccia da parte dei governanti di sequestro degli stabili che possedevano nella città partenopea, ad esempio il maestoso palazzo in piazza S. Domenico dei Di Sangro di Casacalenda sui quali erano stati costretti ad investire largamente, una sorta di ricatto, come se fossero tenuti in ostaggio. Pochi castelli evolveranno in residenze signorili una volta venute meno le esigenze difensive e ciò accadde quando il

Sud diventando un vicereame dell’impero di Spagna e quindi incorporato in un’entità statale strutturata in cui il ruolo di feudatario era assimilato a quello di rappresentante a livello locale della corona e non più un dominus privo di controllo. Per attuare tale disegno organizzativo si procedette alla cosiddetta rifeudalizzazione sostituendo nella guida dei feudi la vecchia nobiltà angioina, pertanto di antico “credo” francese, con persone fedeli ai nuovi dominanti più capaci di interpretare la figura di funzionario; homines novi si direbbe vedendo i loro cognomi che rivelano un’estrazione borghese se non un’origine famigliare artigianale come i Battiloro (Scapoli), battitori d’oro, i Pignatelli (Monteroduni), fabbricanti di pignatte, e via dicendo.

Pescolanciano

A farne le spese di questo avvicendamento furono pure i Monforte e i Caldora i cui più illustri esponenti rispettivamente Cola e Giacomo, erano stati tra i principali sostenitori della causa dei D’Angiò. Siamo debitori, si sarà notata la carenza, di una elencazione delle dimore patrizie ex-castello che neanche adesso, però, forniamo in maniera completa limitandoci, perché i maggiormente significativi, a citare per ciò che stiamo per dire, i castelli di Pescolanciano, di Casacalenda, di Civitacampomarano che hanno in comune l’adattamento dei beccatelli, “apparati a sporgere” dell’arte militare, e in quanto tali manufatti che incutono timore in mensole di sostegno di leggiadri loggiati, un capovolgimento di senso. Il caso dell’opera castellana che sta a Pescolanciano è emblematico perché costituisce una rappresentazione plastica, come si usa dire oggi, di quella questione centrale della castellologia nostrana toccata all’inizio per cui esiste una correlazione biunivoca se non triunivoca tra grandezza del castello, quella del feudo e, quale conseguenza, del livello nella gerarchia nobiliare del suo feudatario. Ebbene i D’Alessandro non si accontentarono di possedere il feudo di Pescolanciano e perseguirono una politica di acquisizione di quelli circostanti, arrivando a raggrupparne ben 6 in modo da configurare una sorta di “signoria” che dovette valere loro il titolo di duca seppure non fosse un ducato; la sede era il castello di Pescolanciano che, perciò, assunse le dimensioni e le forme del palazzo rinascimentale, completo del cortile porticato. Non significa, va detto, che ad un prestigioso castello si associa, necessariamente, al di là del chiamarsi duca o principe, il principe Sanfelice della vicina Bagnoli,

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un prestigioso feudatario tanto scarsi sono stati i nomi di prestigio, per gesta belliche o per meriti culturali, tra i possessori di feudi nella nostra terra con l’eccezione dei citati precedentemente Cola di Monforte conte di Campobasso e  Giacomo Caldora proprietario del possente castello di Carpinone e di Angelo Di Costanzo fine poeta della cerchia michelangiolesca in confino per qualche ragione nel suo castello, ormai diruto, di Cantalupo. Un’ulteriore annotazione rispetto a quanto prima discusso è che, è da immaginarsi, l’assommarsi in un unico individuo della titolarità di una pluralità di feudi contigui (nel cosiddetto corridoio dei Pietravalle sono disposti a catena) riduca la possibilità di vita sociale che secondo le usanze di quell’età si svolgeva esclusivamente tra membri della medesima casta; aver fatto, figurativamente e non, il vuoto intorno a sé, avendo acquistato i feudi contermini, comporta che i nobili vicini siano, comunque, lontani e gli incontri, in particolare quelli mondani, giocoforza, cioè a causa della distanza che si interpone tra le sedi abitative delle famiglie feudali, si riducano e di qui l’assenza di saloni da ricevimento nelle loro magioni. Ciò concorre alla mancanza di magnificenza che si riscontra in molti castelli molisani all’interno (con un’esclusione eccellente, quello di Gambatesa con le bellissime sale affrescate). D’altro canto il non avere confinanti significa non avere conflitti, un po’ come succede nei condomini odierni, relativi, appunto ai confini; a testimoniare tale conflittualità vi è lo scontro tra S. Massimo e Cantalupo, paesi che stanno spalla a spalla, il quale si svolse nel 1492 e in cui perì il figlio del feudatario di quest’ultimo centro.

Castelli prestigiosi per valore artistico o storico

Nel Molise i lavori di restauro vero e proprio hanno interessato solo i castelli di risonanza superiore e già questo, oltre il limitato numero di interventi effettuati, lascia un pò perplessi. È come se fossimo tornati ai tempi precedenti alla “legge Bottai” che è del 1939 in cui i monumenti si distinguevano in minori e maggiori, non erano “cose di interesse storico” e basta. Oggi il concetto di patrimonio culturale si è esteso notevolmente e continua vieppiù a estendersi includendo nuove categorie di oggetti architettonici, dai mulini agli opifici preindustriali ai lavatoi e così via, aventi tutti la medesima importanza e ciò è valido pure per le strutture castellane, beni culturali tra i beni culturali. Se c’è una differenza di valore esso, il valore, è quello patrimoniale, dato dalla consistenza volumetrica e dalla stabilità strutturale dell’immobile. Di sicuro, se venissero messi sul mercato, i castelli a rudere avrebbero un prezzo di vendita più basso, al limite quello della nuda proprietà del terreno su cui insistono, di un maniero trasformato in età rinascimentale in un palazzo gentilizio.

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Non deve aver, di certo, inciso l’estimo catastale nella scelta di acquisizione da parte dello Stato dei castelli di Gambatesa e di Venafro per la restaurazione dei quali sono state spese ingenti somme quanto piuttosto le loro valenze artistiche per i pregevoli affreschi che ne adornano le scale. Nel primo abbiamo paesaggi ideali, vedute a soggetto mitologico, nel secondo immagini reali, raffigurazioni realistiche di destrieri. Ciò, il fatto che contengono pitture di elevato pregio, giustifica l’interesse prioritario della Soprintendenza verso tali castelli. Il Ministero della Cultura ha avuto quale unico parametro di giudizio nella decisione di incamerarli nel demanio statale l’arte, di nuovo la pittura, e non la storia. Se si fosse optato per quest’ultima si sarebbe dovuto scegliere castelli che hanno dato lustro alla regione per i personaggi che li hanno frequentati. Sicuramente quello di Campobasso quartier generale dei domini di Cola di Monforte, quello di Carpinone perché vi ha dimorato Giacomo Caldora, quello di Termoli che è legato alla figura di Federico II. Ci sarebbe pure, anzi sarebbe in testa a tutti, il Castello di Civita Superiore che fu la sede dei conti di Molise, fralaltro il più esteso planimetricamente e, però, del quale rimangono scarsi resti.

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Nei tre casi citati non si tratta, è evidente, di rilevanza storica prettamente locale, ma di respiro perlomeno regionale anche se, a dire la verità, qui da noi non è così radicato il sentimento regionalistico, l’identità molisana, per così dire, non è così affermato tra le persone il senso di appartenenza a questa terra per cui tali architetture fortificate rappresentano piuttosto che glorie patrie, per patria si intende il Molise, glorie paesane tanto è forte il campanilismo. I castelli possono essere privati o pubblici, questi ultimi si distinguono in comunali, la stragrande maggioranza, e regionali, solo due, mancano i provinciali. Solamente i castelli di Pescolanciano e di Macchiagodena, davvero prestigiosi, sono stati rilevati dalla Regione di recente, istituzione anch’essa recente. Dell’acquisto da parte di privati di castelli ormai non più feudali poiché il feudalesimo era ormai soppresso, siamo ai primi del XIX secolo, non ne ha tratto un grande vantaggio la comunità alla quale è preclusa la fruizione, così come al tempo dei feudatari, non è cambiato niente, di manufatti di estremo rilievo culturale, vedi il castello di Torella cui si accede esclusivamente in occasione di mostre periodicamente organizzate di opere di Elena Ciamarra, oppure quello di Cerro al Volturno in cui le visite sono consentite per gentile concessione dei possessori e non stabilite in base a convenzioni da stipularsi in ossequio al Codice Urbani oppure ancora quello di Trivento di dimensioni considerevoli suddiviso in plurime quote il che rende difficile il visitarlo. Anche i castelli a rudere, esemplari di architetture fortificate ridotte ormai in macerie con lacerti di muratura, brandelli di torri e pochi altri rimasugli che li rendono difficilmente riconoscibili sono stati privatizzati e magari su di essi non è stato apposto neanche il vincolo storico (vincolo architettonico o vincolo archeologico?).

L’area un tempo occupata dal maniero a S. Massimo è diventata un orto e a Cantalupo una superficie a verde annessa ad un’abitazione. È da immaginare che per il padrone di tale particella gli spezzoni di mura eventualmente presenti riconducibili all’opera castellana crollata rappresentano dei meri ingombri dello spazio. Non è da credere che un proprietario privato possa ricavare una qualche utilità dall’esistenza di resti nella sua proprietà, tutt’al più se ne potrà servire per allestire un “giardino con rovine”. Non si può pretendere che esso si accolli, senza risarcimenti economici, l’onere di conservazione delle tracce di un’antica rocca e tantomeno che compia accertamenti per verificare la sussistenza nel sottosuolo di muretti o non so che di fattura medioevale, non ne ha le competenze. Tanto vale che la mano pubblica faccia propri ogni sito sul si presuppone sorgesse un castello non fosse altro che per la sua posizione topografica al colmo dell’abitato, anche in assenza di altri indizi. Salvo il costo del terreno che, comunque, data la posizione in altura non facilmente raggiungibile, i requisiti per un appezzamento di terra idonei per installarvi un maniero, è evidentemente contenuto, si ritiene che tale acquisto non costituirebbe un aggravio significativo delle Uscite per le casse comunali. Una volta entrato in possesso del suolo il Comune potrebbe destinarlo a circoscritto parco pubblico, il che non fa mai male.

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