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Il centro storico di Isernia

Se i Romani avessero voluto costruire una città ex-novo in quell’area, non avrebbero, di certo, scelto il sito dove sorge Isernia, il suo centro storico, adesso. Essi prediligevano gli insediamenti di pianura e quindi avrebbero cercato un’altra localizzazione, magari in località Le Piane. Tale popolo preferiva per gli agglomerati urbani che andavano a realizzare nei territori conquistati le zone pianeggianti anche perché più facilmente raggiungibili dall’esercito in caso di rivolta, ma pure a ragione del fatto che il modello urbanistico che esso esportava ovunque, in ogni angolo dell’Impero, ampiamente collaudato, era quello del castrum. Quest’ultimo era caratterizzato da due aste viarie perpendicolari fra loro che si incrociavano nel foro il quale costituiva il punto nodale dell’abitato. I due assi stradali si chiamavano cardo e decumano il che denuncia una gerarchia (a parità di connotati dimensionali) tra di essi in cui il secondo occupa la posizione preminente. La struttura viaria dell’Isernia “vecchia” è formata da un percorso centrale dal quale si diramano tutta una serie, su ambo i lati, di traverse di sezione trasversale ristretta ortogonale ad esso; la direttrice assiale coincide con il decumano e i vicoli sono i cardi e ciò richiama più l’urbanistica greca che romana.

Probabilmente Roma decise in questa occasione, a differenza di quanto aveva fatto in altre località dell’antico Sannio, di installare i suoi coloni nel centro italico preesistente non di crearne uno da capo. Tale scelta deve essere dipesa anche dalla constatazione che il rilievo su cui poggia Isernia pre-romana è un passaggio obbligato per la viabilità e ciò rispondeva a quel requisito richiesto che le entità insediative fossero collegate in maniera agevole con l’Urbe. Inoltre di qui necessariamente si doveva transitare per penetrare nel territorio dei Sanniti Pentri e perciò insediarsi in Isernia significava controllare gli spostamenti dell’indomito nemico. Le popolazioni italiche, al contrario, tendevano a vivere sulle alture sia perché siti maggiormente difendibili sia perché, se le asperità non erano eccessive, situazioni morfologiche, a differenza delle piane che sono minacciate dalle acque, che non presentano particolari problemi per l’edificabilità salvo le frane. Pure nel Medioevo quando ci si è ritratti dai fondovalle, vedi Altilia, si è andati ad abitare nella fascia collinare in ispecie sui colli e sulle dorsali, evitando così i versanti quando minacciati da franosità. Il paesaggio che ci ha lasciato quest’epoca buia, ma mica tanto in riguardo agli aspetti paesaggistici, è fatto anche di villaggi che in un certo numero si dispongono su emergenze isolate, ad esempio Campobasso, e su promontori come Isernia protesa tra Sordo e Carpino; gli aggregati abitativi adattandosi, docilmente, all’orografia (non avendo la “forza” per modificarli) vengono a rafforzare i lineamenti strutturali del territorio, tra i quali i più chiari, le figure più nette, sono proprio le colline a sé stanti tendenti ad avere una forma appuntita, e i rilievi morfologicamente allungati, cioè dal profilo appiattito. Il nucleo antico di Isernia, in altri termini, è un autentico landmark nel contesto percettivo distinguendosi nella massa informe delle corrugazioni del terreno.

Isernia medioevale ha occupato per intero il lungo dosso tendenzialmente in sommità in lieve declino contornato dai due corsi d’acqua citati che congiungendosi giusto dove esso termina danno vita al Cavaliere e si sottolinea per intero in quanto si sarebbero potute concentrare le costruzioni in un’area limitata dove concentrare la densità edilizia. Si dice questo poiché se su corso Marcelli, il decumano, i palazzi sono di consistente altezza, inoltrandosi nei cardi l’elevazione si riduce quindi si abbassa quello che oggi definiamo l’indice di fabbricabilità. La ragione sarà stata che il corso Marcelli si sovrappone alla via Latina, la quale connette la odierna statale Venafrana con la S.S. 17, dunque ad un canale di passaggio di persone e merci sul quale tutti vogliono affacciarsi. In definitiva, è una città che si distende sul crinale per tutta la sua interezza nel senso del suo sviluppo longitudinale, tanto è appetibile fronteggiare da parte degli edifici questo remotissimo percorso che porta nel cuore del Contado di Molise. Se questa è la logica della crescita urbana, quella, lo si ripete, dell’addensarsi dell’edificazione ai margini di questa arteria, allora si capisce il perché della minore intensità edilizia nelle fasce laterali. Si avverte il sapore di qualcosa di misto tra insediamento pianificato e non pianificato: è avvenuto in maniera spontanea il concentrarsi dei corpi di fabbrica ai fianchi della strada, mentre è frutto di un preciso piano quello dell’intasamento degli spazi interstiziali, i quali altrimenti sarebbero rimasti vuoti, per sfruttare la superficie che separa la cinta muraria, necessariamente da erigere ai margini del costone, e il tracciato viario. Una pianificazione molto semplice così come è semplice la topografia dei luoghi da cui l’assetto urbano, in qualche modo a spina di pesce, è fortemente condizionato. Si è insistito molto finora sul corso Marcelli senza specificare, però, che esso pur presentandosi, per la sua rettilineità, come una cosa unitaria contiene all’interno dei momenti singolari. Uno di questi, il maggiore, che per l’ampiezza dell’area che investe rappresenta quasi una soluzione di continuità nell’asse stradale, è la piazza cosiddetta Mercato. Qui il percorso che è sempre leggermente in pendenza spiana e i posti con la superficie livellata sono i più idonei per lo svolgimento del mercato il quale si svolge settimanalmente, il giovedì. È un punto di sosta nell’incedere lungo il corso, se non di cesura, annunziato a chi lo percorre dalla vista del campanile sovrapposto all’ “arco di S. Pietro”; è una ubicazione quella della piazza suddetta che non appare casuale in quanto è baricentrica rispetto al cammino, eppure in realtà lo è essendo l’unico tratto in cui si offre uno spazio piano. Sempre questa piazza è posta all’incrocio del corso con due direttrici trasversali che portano l’una alla Madonna del Paradiso, l’altra, sul versante opposto, all’Eremo di S. Cosma e Damiano, come si conviene ad un foro e, in effetti, era il foro della città romana dotato di un templio sul cui podio sorge la Cattedrale la quale insieme al Vescovado e al Seminario cui è congiunta tramite l’arco di S. Pietro formano un fronte unico il quale ci restituisce immaginificamente il peso dell’autorità religiosa nel contesto cittadino.

Le piazze di Isernia

Da corso Marcelli che, in definitiva, è poco più di un vicolo, tanto è stretto si sbuca sia provenendo da un capo sia dall’altro del centro storico all’improvviso nella ariosa piazza del Mercato. Vi è un forte contrasto tra l’ombra che, salvo a mezzodì, caratterizza questo percorso viario per via delle schiere edilizie che lo delimitano disposte l’una a oriente, in direzione della Strada Orientale, e l’altra ad occidente, verso la Strada occidentale, con la luce che riempie il vuoto della predetta piazza. Sarebbe una vera sorpresa se non uno choc quella di imbattersi senza preavviso, per così dire, in questo spazio aperto se non fosse che la sua presenza viene annunziata da lontano dal campanile di S. Pietro che è perfettamente in asse con il corso. La torre campanaria proprio per la sua assialità con il corso Marcelli è un passaggio obbligato costringendo chi lo percorre a transitare sotto l’arco che lo sorregge. Non vi sono percorrenze alternative per evitare di attraversare la piazza. Il campanile è posto lì per scavalcare la strada e per congiungere la cattedrale cui è affiancato l’episcopio con il seminario (trasformato tanto tempo dopo in sede universitaria). Quest’ultimo rappresenta, figurativamente, l’allargamento dell’insula ecclesiastica dal momento che il Concilio di Trento rese obbligatori i seminari, pur se lo stabile è preesistente a tale riforma. Data la consistenza e la pregnanza architettonica delle opere religiose che occupano tutto un lato della piazza essa appare subordinata a queste, un po’ come un sagrato, però, assai grande.

Non era così in età antica perché il foro, sul cui sedime insiste l’attuale piazza, aveva una valenza autonoma rispetto al templio che vi prospetta e sul cui podio, rimasto ben visibile da un lato, poggia la cattedrale. A bilanciare l’immagine della piazza, altrimenti tropo sbilanciata a favore della istituzione religiosa, assumendo un carattere troppo, per così dire, curiale, è stato costruito nel II dopoguerra, eliminando un edificio danneggiato dal bombardamento, la sede del Genio Civile, un’istituzione laica, che occupa un fronte corto della piazza (da quello opposto è possibile ammirare la catena delle Mainarde, un vero e proprio belvedere). In definitiva la presenza di un luogo di preghiera in questa piazza è fondamentale, confermando una continuità di culto che è millenaria (messa in luce da ricerche di archeologia urbana), ma questo non significa, di certo, che tale luogo è un corredo della chiesa. C’è una continuità pure nella sua destinazione a mercato essendo il foro dedicato anche agli scambi commerciali oltre che all’incontro. La cattedrale prospetta sulla piazza, la quale si chiama significativamente piazza Mercato, con un protiro, un portico neoclassico nel nostro caso, questo sì spazio sacro, funzionale alle celebrazioni religiose, che si contrappone allo spazio “profano”, quello delle bancarelle (la sua presenza inibisce gli schiamazzi dei frequentatori, peraltro). Il distanziamento è ottenuto anche tramite alcuni gradini che separano il piano della pavimentazione della cattedrale da quello della piazza; altri gradini sono quelli che congiungono la piazza con il portico del Genio Civile il quale anch’esso tramite la gradonata vuole assicurare la propria dignità impedendo che venga scambiato per uno di quei porticati al di sotto dei quali si espongono merci nei giorni di mercato. Questa piazza descritta lungamente, perché è la più importante, non è, è evidente, l’unica di Isernia. La precedono partendo dall’inizio di corso Marcelli che è, se si esclude l’ospedale e una piccola frangia periferica, il limite inferiore (nel senso di più basso) dell’abitato alcuni slarghi adiacenti a strutture conventuali. Appena fuori del perimetro del nucleo antico vi era quello di S. Pietro Celestino e, a salire, quello di S. Maria delle Monache, quindi femminile, e poi di S. Francesco, complementare all’altra perché maschile. Questi conventi sono collegati a chiese affacciate all’esterno e specialmente quelle annesse agli ultimi due sono di particolare rilievo architettonico. La potenza non solo spirituale di queste congregazioni ecclesiastiche, la quale la si coglie dalle stesse dimensioni dei monasteri, condiziona la configurazione dello spazio urbano nei loro pressi imponendo la presenza di una piazza incentrata sull’edificio cultuale di pertinenza. I Celestiniani e i Francescani (traslocati nell’ultimo dopoguerra nella zona di espansione urbanistica novecentesca perché la sede originaria oggi ospita il Comune) sono ordini mendicanti e quindi si mantengono chiedendo la beneficenza per cui devono trovare posto dentro agglomerati urbani popolosi, di solito in periferia come succede qui.

Le monache di S. Maria, appunto, delle Monache, sono Benedettine, ma a differenza dei confratelli di S. Vincenzo al Volturno non si occupano della coltivazione della terra secondo la Regola di S. Benedetto «ora et labora», perché al loro sostentamento provvede la “dote” ricevuta dalle proprie famiglie, in genere benestanti; ciò fa sì che esse possano risiedere in città e non nell’agro “alle fonti del Volturno”, in località De Iumento Albo di Civitanova del S. , o a Canneto sul greto del Trigno, posti scelti per l’insediamento monastico proprio perché inospitali. Per inciso, tanti più monasteri una città ha tanto più essa è florida. Non vi sono, ad ogni modo, solo slarghi connotati dalla presenza religiosa in quanto ve ne sono pure alcuni di natura per così dire civile e cioè quello antistante il palazzo D’Avalos, i feudatari di un tempo e la piazza X Settembre, un “vuoto” urbano prodotto dai bombardamenti della II Guerra Mondiale. Proseguendo si incontra piazza Concezione dove sta la Fontana Fraterna e lì finisce il centro storico, ma non l’axis urbis, la direttrice viaria che ha generato la colonia romana e che è l’unico elemento che lega il borgo originario, confinato lateralmente dalle profonde incisioni del Sordo e del Carpino, al territorio. Un asse stradale che viene da lontano e che diventa il decumano della città antica dalla quale esce “indenne” proseguendo verso l’alto conservando sempre la rettilineità. Si riproduce anche fuori delle mura urbiche la sequenza percorso-slarghi e così, ancora salendo, seguendo il corso Garibaldi, questa è la denominazione adesso della strada, si incontra la villa comunale e poi la piazza della Stazione. Poco prima è terminata la salita e si comincia a camminare in piano e ciò fa sì che tale tratto del nastro stradale presenti i requisiti, l’essere diritto, pianeggiante e lungo, per diventare il luogo del passeggio serale, nonostante non sia pedonalizzato e non abbia alberature continue ai fianchi come i boulevard. In passato era pure l’arteria dello shopping che oggi per la chiusura di tanti negozi nel centro cittadino si è trasferito in un altro centro, quello commerciale, uno slargo, però, coperto inserito nella fascia di sviluppo che è lineare dell’insediamento, rispettoso, pertanto, della sequenza percorso-piazza descritta.

L’Auditorium di Isernia

L’Auditorium di Isernia è un edificio imponente ed a incrementare la sua imponenza è, di certo, il fatto che i suoi fronti sono in pietra. L’uso in facciata di materiale lapideo conferisce un carattere di monumentalità alla costruzione rimandando l’impiego di pietre di grosso formato e levigate alle architetture classiche. Pur essendo il travertino una pietra non troppo costosa perché non rara esso si rivela essere per la sua superficie resa liscia e uniforme dall’operazione di levigatura cui è sottoposto una volta estratto una materia preziosa. È da dire che l’esterno dell’Auditorium non presenta altri tipi di materiale quasi fosse un monolite, un masso emerso dal sottosuolo, una sua escrescenza, il quale nel capoluogo pentro è formato proprio da un banco di travertino. L’effetto, trattandosi di un blocco di roccia, dovrebbe essere quello di pesantezza e, invece, è di leggerezza, la sua gravità è smentita dal fatto che sfida la legge di gravità piegandosi la parte superiore del prospetto, inclinandosi in avanti, protendendosi verso il vuoto; viene da chiedersi perché non cade giù.

Lo si è già affermato ma lo si ripete, per rimarcare il concetto appare quale solido litoide venuto fuori dal terreno poiché è di travertino tanto il substrato su cui poggia quanto il corpo di fabbrica. La sala dell’Auditorium sembra penetrare, in quanto è una cavea, nelle viscere della terra, appare essere un ambiente sotterraneo almeno entrandovi, è l’accesso per il pubblico, dal livello dell’asse viario su cui prospetta il lato di ingresso. La forma dell’entrata, una sorta di asola ritagliata nella porzione inferiore della cortina edilizia in contropendenza, non lo si era specificato prima, rispetto a quella sovrastante, conferma l’impressione di trovarsi al cospetto di un grande sasso poliedrico ricordando l’apertura pur con linee regolari e non irregolari come succede in natura, di una caverna. Manca ogni altra bucatura ovverosia non vi sono finestre e pure ciò è sorprendente, almeno da noi non vi sono ulteriori manufatti architettonici ad uso civile privi di finestrature. L’elevazione consistente del prospetto su strada, la quale peraltro sarebbe maggiore se esso non fosse, si è cercato di spiegarlo in precedenza, incurvato su sé stesso, cioè se si tirasse in piedi e non rimanesse accovacciato, piegato in due, è comparabile con quella del campobassano teatro Savoia dovuta, quest’ultima, al modello teatrale seguito, quello del “teatro all’italiana” che prevede una serie di palchetti l’uno sull’altro a semicircondare il palcoscenico, 3 livelli di palchi più la “piccionaia” posta sulla sommità. A Isernia le cose sono differenti, ma mica tanto poiché la platea che è gradonata, non in piano, occupa spazio in altezza, il problema è che essa dalla quota della strada scende e non sale, non emerge, alla vista si inabissa così per dire. Passiamo ad altro: il trattamento raffinato, la levigatura, della “pelle” dell’organismo costruttivo trova giustificazione nell’esigenza che non vi sia un muro cieco (si rammenta che mancano aperture finestrate) lungo una delle principali arterie della città, privo di espressività, cosa davvero sgradevole come si può constatare a Campobasso dove una dei lati dell’ex cinema Ariston confina con via Cardarelli  con un setto murario privo di qualità estetica se non fosse per quelle lesene che ne ritmano la superficie, altrimenti sarebbe una mera muraglia compatta. Cambiamo ancora argomento: sarebbe stato bello pensare che lo spettatore scendendo i gradini per raggiungere il proprio posto a sedere potesse provare l’esperienza di inoltrarsi all’interno del suolo, alla stregua di un cammino iniziatico ipogeo. Tale effetto lo si sarebbe potuto ottenere se all’intradosso della parete che delimita la sala si fosse lasciato a vista oppure se si fosse applicato quale rivestimento della stessa delle lastre di travertino per richiamare la struttura geologica di Isernia, una sorta di percorso nelle profondità della crosta terrestre, lì dove risiedono le divinità ctonie. Questa nostra idea si scontra però con la necessità di assicurare la perfetta acustica della sala, esigenza che impone l’addossamento alla muratura di pannelli fonoassorbenti. L’insonorizzazione è indispensabile per la funzionalità della sala, l’unica che abbia la destinazione d’uso di auditorium nel Molise, il solo ambiente al chiuso realizzato appositamente per l’esecuzione di concerti. Per prevenire il disturbo provocato da rumori esterni, stiamo sempre parlando degli aspetti acustici, è bene che la sala stia interrata affinché il suono della musica non rischi di essere sopraffatto dal frastuono tipico di un agglomerato urbano moderno dovuto essenzialmente al traffico.

Stare al di sotto del piano di campagna ha, peraltro, un vantaggio aggiuntivo a quello di una buona percezione uditiva ed è l’isolamento termico del vano. Nelle architetture ipogee si ha una temperatura costante, nel terreno non si disperde il calore. L’Auditorium finora lo abbiamo esaminato quale oggetto a sé stante, alla stregua di un manufatto isolato, non inserito in un insieme urbanistico. Non è così, questa realizzazione architettonica è posta in un quartiere abitativo con una certa densità immobiliare del quale viene a costituire un elemento centrale, e non unicamente per la sua massa, capace di conferire ad esso una specifica identità.  Forse sarebbe opportuno per sancirne il ruolo di perno del contesto insediativo in cui ricade trasformare in piazza l’area antistante l’entrata che ora è un semplice crocevia. Le fattezze dell’Auditorium, così diverse, non solamente per dimensioni, da quelle dell’edificato circostante, lo rendono un punto di riferimento visivo per un ampio intorno. Le sue sembianze accattivanti ne fanno poi un potenziale attrattore turistico e, in qualche modo, aggiornano l’immagine di Isernia conferendole un tocco di contemporaneità. L’edificazione di questo fabbricato rappresenta l’apertura di un nuovo capitolo dell’eredità architettonica oltre che isernina molisana mettendo al passo la regione con le evoluzioni in corso nell’arte e nella tecnica del costruire.

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